Kiss My Ring
è il quarto album di studio di King Salami And The Cumberland Three,
garage rockers di Londra dediti al rhythm ‘n’ blues, seguito di Goin’ Back To Wurstville,
uscito nel 2017. Presenta quattordici brani, un mix di nuovissime
composizioni originali e una scelta eclettica di cover. L’album è stato
registrato ai leggendari Gizzard Studios di Londra da Ed Deegan (Holly
Golightly).
La
band rappresenta davvero il lato migliore della Londra multiculturale,
avendo i membri un mix di diverse eredità: caraibica, francese,
giapponese e spagnola. Con un repertorio influenzato dalle grandi
canzoni degli anni ’50 e ’60 fatte per sembrare fresche e nuove
all’orecchio moderno, non potrete fare a meno di muovere i piedi quando i
Cucumberland Three tuoneranno dai vostri altoparlanti.
King
ulula come Screaming Jay Hawkins con Bo Diddley immediatamente al
seguito, mentre Andre Williams offre un po’ del suo bacon e i Trashmen
dietro di lui a suonare “Surfin’ Bird”. Questo è un uomo che non smette
mai di dimenarsi, scuotersi e ballare. The Cumberland Three (tutti ex
membri di band punk rock, tra cui i Parkinsons) scatenano una tempesta
con il loro mix di rockabilly vintage, rock’n’roll disperato e soul da
ballo: fuoco, energia, gusto e soprattutto divertimento!
Nonostante
sia praticamente da sempre nel mondo della musica, l’avventura solista
di Lillie Mae ha una genesi recentissima. La songwriter originaria
dell’Illinois, infatti, arriva al suo album d’esordio solo nel 2017,
avendo alle spalle già un ventennio di carriera. Lei, infatti era la
cantante e la violinista dei Jypsi, band a conduzione famigliare,
fondata a Galena (Illinois) nel 1994, che nel 2008 scalò le classifiche
country con un album (Jypsi) capace di fondere mirabilmente roots e pop.
Notata da Jack White, venne poi da questo inserita nella line up dei
The Peackoks, la backing band con cui il chitarrista di Detroit registrò
Lazaretto (è di Lillie la voce femminile che interpreta Temporary
Ground, terza traccia dell’album) e presa, poi, sotto l’ala protettrice
della Third Man Records, l’etichetta di proprietà dell’ex White Stripes.
Avere
dalla propria parte uno come Jack White, è ovviamente un vantaggio non
da poco, e aver avuto la fortuna di aprire i concerti dei The Raconteurs
nell’ultimo e recentissimo tour, costituisce un surplus di visibilità
per chi, giunta al secondo album, deve dimostrare che l’ottimo esordio
non fu solo un colpo di fortuna. E’ chiaro che l’endorsement di White,
per quanto importante, varrebbe nulla se la Mae non possedesse talento,
ed è altrettanto ovvio che un sophomore, sinonimo di conferma e
rilancio, deve avere tutte le carte in regola per il definitivo salto di
qualità.
Non
è un caso, quindi, che la violinista si sia affidata per questo Other
Girls al genio indiscusso di Dave Cobb, uno dei migliori produttori di
americana sul mercato. E la mano di Cobb si sente, eccome,
nell’originalità degli arrangiamenti e nella costruzione melodica dei
brani che sfugge all’ovvio e al prevedibile.
Così
si passa dalla classicità bluegrass/folk di Whole Blue Heart alle
atmosfere sognanti e psichedeliche di Terlingua Girl, che inizia morbida
per poi esplodere in un incubo di satura elettricità o a You’ve Got
Other Girls For That, ballata dai crescenti umori cupi, che narra di una
relazione senza amore. Ci sono tante intuizioni e molte brillanti idee
in un disco che suona ben più complesso di quanto possa apparire a un
primo ascolto superficiale. Il folk arrembante dell’antiromantica Crisp
& Cold (“Che cos’è l’amore? Perché non può essere reale?”) con le
sue cupe reminiscenze anni ’60, il folk introspettivo e la melodia pop
che trovano perfetto equilibrio in Some Gamble, l’incedere sbarazzino e
le armonie vocali di Didn’t I o la conclusiva, bellissima, Love Dilly
Love, bizzarro riff circolare, sovrapposizione di voci, approccio
sperimentale verso un’ipotesi di avanguardia folk.
Sono
molti i momenti davvero interessanti in Other Girls, soprattutto quando
la Mae, chiaramente ispirata dal suo mentore e supportata da un
innovatore come Dave Cobb, dribbla i paletti dell’ortodossia, per
aggiungere elementi audaci e imprevedibili a una scaletta che suona
freschissima. Il risultato è un disco di folk creativo e originale, che
non solo conferma quanto di buono ascoltato all’esordio, ma suggerisce
che la Mae, con ancora più coraggio, potrebbe davvero riuscire, in
futuro, a stravolgere le coordinate del genere.
Laura
Cox è esattamente ciò che promette di essere: una rocker tosta che fa
produrre alla sua chitarra suoni che scuoteranno il mondo in modo
innovativo. Con questo disco, sarà catapultata tra le fila delle grandi
chitarriste femminili. Potreste pensare a qualcosa di meglio di un mix
di Nancy Wilson, Nita Strauss (Alice Cooper), The Runaways e Joan Jett,
solo per citarne alcune?
Anche
se fino ad ora la nuova stella delle sei corde ha pubblicato un solo
album, i suoi potenti assoli, i cori accattivanti e la voce cruda non
hanno solo preso d’assalto il web (380.000 followers su YouTube e 90
milioni di visualizzazioni) ma anche i suoi live sono sempre sold-out.
La
chitarrista/cantante non ha ignorato il fatto che la sua vita come
chitarrista donna potrebbe essere diversa da quella dei suoi colleghi
maschi. Tuttavia, Laura ha ripetutamente sottolineato che non le importa
del suo sex appeal e che tutto ciò che per lei conta è la chitarra.
Il suo album di debutto Hard Blues Shot
(2017) ha venduto 10,000 copie in Francia dopo pochi mesi dall’uscita, e
Laura ha acquistato enorme notorietà tra i chitarristi.
Il nuovo album, Burning Bright,
è “rock’n’roll ad alta tensione”, nello stille di AC/DC e Danko Jones
che incontra Joan Jett, mescolato con influenze southern e blues. Laura
infatti definisce il proprio stile “southern hard blues”.
Registrato
ai leggendari ICP Studios, suonato da un band impeccabile e
masterizzato dal grande Howie Weinberg (Aerosmith, Oasis, The White
Stripes), Burning Bright offre dieci bombe rock influenzate dal blues,
dal classic rock e persino dall’hard rock.
The Other Side
è il classico disco che farà storcere il naso ai puristi del country,
quelli per cui (quasi) tutto ciò che arriva da Nashville è il male
assoluto, l’odiata antitesi di ciò che costituisce la veracità e la
purezza del genere. Posizione spesso condivisibile, ci mancherebbe,
anche se talvolta, come è inevitabile, ci si trova di fronte a eccezioni
piacevolissime che confermano la regola.
E’
il caso di questo esordio delle Maybe April, duo composto da Katy
Bishop e Alaina Stacey (Kristen Castro, terza componente originaria ha
lasciato la band a febbraio di quest’anno) con all’attivo finora solo un
Ep e un importante attività concertistica, che le ha vista aprire i
live act di gente del calibro di Brandy Clark e Sarah Jarosz.
The Other Side,
meglio chiarire subito, è un disco più pop (acustico) che country, in
cui l’elemento roots è dato dall’utilizzo di strumenti tradizionali
(banjo, chitarra acustica, mandolino, violino). Come delle Pistlol
Annies o delle Dixie Chicks svolazzanti in una temperata brezza
primaverile, le Maybe April costruisco le loro canzoni giocandosi le
carte migliori sulle armonie vocali e su melodie, leggere, fresche e di
facilissima presa emotiva.
Eppure,
nonostante canzoni che trovano il loro habitat naturale nei passaggi
radiofonici, le due ragazze mettono insieme anche delle liriche niente
affatto banali: niente testosterone, pick up, alcool o polvere, ma
storie di vita vera e di relazioni interpersonali raccontate da un
appassionato e sofferto punto di vista femminile. Così, nell’iniziale Thruth Is,
una melodia smaccatamente bubblegum pop, creata sull’interazione fra
chitarra e mandolino, si contrappone a un testo diretto e pungente e
allo sguardo cinico su un’attrazione unilaterale che non andrà mai in
porto (“La verità è che non penso a te, non vedo il tuo viso in tutti gli estranei che incontro per strada”; e ancora: “La verità è solo una bugia che racconti a te stessa fin quando non diventa vera”). Lo stesso accade, ad esempio, nella malinconica Same Story, Different Scars,
storia di un padre licenziato, che si ferma a bere un drink prima di
tornare a casa e dare la notizia alla moglie e al figlio di quattro anni
(“Tutti voliamo. Cadiamo tutti. Abbiamo tutti le stesse storie, con cicatrici diverse”).
C’è
intelligenza e sensibilità in queste canzoni, che non saranno country
fino in fondo, ma conoscono la forza di melodie luminose e il giocoso
trasporto di due voci perfettamente in simbiosi. Così, nonostante la
smaccata leggerezza di questa musica (o forse proprio per quella) è
impossibile resistere a canzoni come Need You Now o You Were My Young, che entrano in testa al primo ascolto e finiscono per restarci a lungo.
La nuova band formata da Peter Scheithauer alla chitarra (Killing Machine, Belladonna, Temple of Brutality) e Butcho Vukovic alla voce (Watcha, Showtime) annuncia l'album di debutto omonimo in uscita il 27 settembre su earMUSIC.
In studio il duo è stato accompagnato da Bob Daisley (Ozzy Osbourne, Gary Moore, Rainbow) al basso, Vinny Appice (Dio, Black Sabbath) alla batteria, e Don Airey
alle tastiere (Deep Purple, Rainbow). L'album è caratterizzato da un
sound metal anni '80, seguendo le orme di Rainbow, Black Sabbath, Dio e
Ozzy Osbourne.
La
cronaca di quei leggendari giorni è più o meno nota a tutti gli
appassionati. A Woodstock, i Creedence Clearwater Revival suonarono la
notte tra il 16 e il 17 agosto e in considerevole ritardo rispetto
all’orario concordato, perché il set dei Grateful Dead, band che li
precedeva in scaletta, fu funestata da una svariata sequela di problemi
tecnici, tra cui una messa a terra difettosa, estremamente pericolosa
per l’incolumità dei musicisti.
Eppure,
ai non addetti ai lavori, potrebbe sembrare che i CCR a Woodstock non
abbiano mai messo piede, dal momento che il loro live act non compare né
nel film del festival (in una successiva director’s cut compariranno
quattro canzoni) né nella colonna sonora. Il fatto che la performance
non fosse mai stata pubblicata nella sua interezza, venne spiegato da
Fogerty, da un lato, con l’insoddisfazione della band per la qualità del
concerto, dall’altro, con un po’ di arroganza, perché la band riteneva
di aver già raggiunto il massimo della fama e di non aver bisogno di
ulteriore esposizione mediatica.
Qualunque
siano stati i motivi, il tempo ha portato Fogerty a più miti consigli, e
finalmente, dopo cinquant’anni, l’esibizione integrale viene finalmente
pubblicata dalla Craft Recordings. Per mettere le cose nella giusta
prospettiva, si ricordi che il terzo album in studio della band, Green River,
era appena stato pubblicato (il 3 agosto per la precisione) e stava
scalando le charts americane, mentre il primo singolo tratto dall’album,
Bad Moon Rising, nonostante fosse uscito in aprile, era ancora ben posizionato in classifica.
Come
detto, i Credence iniziarono a suonare dopo la mezzanotte, di fronte a
un pubblico, vien da pensare, abbastanza stanco; tuttavia, a parte
qualche iniziale problema tecnico (ma chi non ne ha avuti a Woodstock?),
è davvero difficile comprendere per quale motivo Fogerty abbia vietato
per così tanto tempo la pubblicazione del live act, visto che, grazie
anche alla rimasterizzazione e alla pulizia del nastro, risulta essere
un’autentica bomba.
In
direzione ostinata e contraria rispetto alla novelle vague dell’epoca, i
Creedence, pur sposando le istanze giovanili del momento (il loro
antimilitarismo era cosa nota), recuperavano il rock delle radici,
pesantemente connotato da sonorità sudiste. Questo approccio swamp, se
mai ce ne fosse stato bisogno, marchia a fuoco tutta la performance
della band: un’esplosione di energia controllata dalla potenza del
groove e insufflata di negritudine dal graffio r’n’b della voce di
Fogerty.
L’uno-due inziale di Born On The Bayou e Green River è da ko, così come Bootleg e Commotion possiedono un tiro notevolissimo. Meno incisive le versioni di Bad Moon Rising e Proud Mary,
prive di mordente, senza pathos, un po' troppo simili alle versioni in
studio e decisamente i due momenti meno brillanti della performance.
E’ la tripletta finale, però, a valere il prezzo del biglietto. The Night Time Is The Right Time,
dal repertorio di Ray Charles, è un blues tutto sangue e sudore, con
Fogerty che canta rabbioso e sfodera un assolo dirompente e graffiante.
Chiudono il live act Keep On Chooglin’ e Suzie Q,
dieci minuti ciascuna di autentico furore jammistico, con Stu Cook al
basso devastante macchina da guerra, e tutta la band rapita da un
deliquio dionisiaco così autentico da farci ballare senza freni anche a
distanza di mezzo secolo.
Il lavoro fatto sulla rimasterizzazione è eccellente, ogni strumento si coglie alla perfezione (forse la sola Proud Mary
risulta un po' impastata), e probabilmente questa resa è di gran lunga
migliore di quella che potevano cogliere mezzo milione di ragazzi
assonnati, infreddoliti dalla pioggia e coperti di fango.
Se
la domanda che vi state ponendo è se davvero ne vale la pena, la
risposta è sicuramente sì. Non solo, a dispetto di cosa ne pensasse
Fogerty, questo Live At Woodstock è un ottimo live che fotografa una
band in un momento di forma straordinario, ma un capitolo di storia che,
nel bene e nel male, resta imprescindibile. Mancava un tassello
fondamentale, e ora lo abbiamo.
Sturgill Simpson ha annunciato la pubblicazione del nuovo album, Sound & Fury, via Elektra, il 27 settembre.
Simpson ha anche rivelato che un film “anime” di accompagnamento alle canzoni dell’album sarà pubblicato su Netflix lo stesso giorno.
Simpson
ha registrato e autoprodotto Sound & Fury, a Waterford (MI), presso
McGuire Motor Inn.
Oltre all’annuncio dell'album, ha condiviso il primo
assaggio di Sound & Fury attraverso la nuova canzone "Sing Along".
Il
video ufficiale di "Sing Along" offre un'anteprima del film Netflix,
Sound & Fury, diretto dal famoso regista Jumpei Mizusaki. Secondo i
materiali della stampa che annunciano il progetto, il prossimo film "è
interamente impostato sulla musica dell'album con un segmento anime
diverso per ogni singola canzone."
41
colpi di pistola rimbombano nella notte. Esattamente 41, non uno di
più, non uno di meno. E’ il 4 febbraio del 1999. Ahmed Amadou Diallo ha
22 anni, è immigrato dalla Guinea a New York per motivi di studio e si
mantiene facendo il venditore ambulante: commercia in cappelli, guanti e
altre cianfrusaglie. Sono le 23.30, quando rientra nel suo appartamento
al 1157 di Wheeler Avenue nel Bronx, dopo una massacrante giornata di
lavoro. I suoi coinquilini sono andati a dormire.
Diallo
ha fame e in frigorifero non c’è nulla. Decide, allora, di uscire a
comprare qualcosa da mettere sotto i denti. Sotto la sua abitazione,
quattro poliziotti del NYPD - Sezione Crimini Stradali stanno facendo
dei controlli di routine. Si chiamano Edward McMellon, Sean Carroll,
Kenneth Boss e Richard Murphy. Stanno cercando un presunto stupratore,
che pare sia stato avvistato nei paraggi. Diallo è appena uscito dal suo
portone, quando i poliziotti gli intimano l’alt: è nero e somiglia
incredibilmente all’identikit del ricercato.
Le
forze dell’ordine puntano le pistole e urlano al ragazzo di esibire i
propri documenti. Ahmed infila una mano in tasca. In pochi secondi,
vengono esplosi 41 colpi di pistola, non uno di più non uno di meno.
Sono diciannove i proiettili colpiscono Diallo, che muore all’istante,
mentre gli altri crivellano il muro, l’ingresso del palazzo e
danneggiano il salotto dell’appartamento a piano terra. Sul marciapiede,
vicino al corpo martoriato di colpi, in una pozza di sangue, viene
rinvenuto un portafoglio. Contiene i documenti che Diallo voleva esibire
e che invece i poliziotti avevano scambiato per un’arma.
Il
25 febbraio del 2000, dopo svariati processi, tutti e quattro gli
agenti incriminati vengono prosciolti da ogni accusa. Secondo i giudici
si è trattato di una tragica fatalità. Bisogna aspettare due anni, e
finalmente, nel 2002, i familiari di Diallo vengono risarciti in sede
civile, mentre la Sezione Crimini Stradali della Polizia di New York fu
soppressa.
Un
vicenda terribile, che mette in discussione i valori fondamentali a cui
è ispirata la democrazia americana. E’ questo quello che pensa Bruce
Springsteen, che rimane tanto scioccato dalla triste vicenda di Diallo,
da volerne scrivere una canzone.
Così, quasi nell’immediatezza dei fatti, il Boss compone American Skin (41 Shots), dolente tributo allo sfortunato ragazzo e atto d’accusa nei confronti della brutalità della polizia.
Le struggenti noti di tastiera accompagnano un testo che richiama esplicitamente i fatti (E’
una pistola, è un coltello, è un portafoglio? Questa è la tua vita, Non
è un segreto, nessun segreto, amico mio. Puoi essere ucciso solo perché
vivi nella tua pelle americana) e quelle due parole, 41 shots,
ripetute all’infinito come un doloroso mantra, attirarono contro
Springsteen l’ira dei Repubblicani, del dipartimento di Polizia e
dell’allora sindaco di New York, Rudolph Giuliani, che ebbe a
dichiarare, testuali parole: “C'è ancora gente che sta cercando di creare l'impressione che gli agenti di polizia siano colpevoli".
La
canzone venne inizialmente suonata solo dal vivo, prima di trovar posto
in Live In New York City del 2001 e poi in High Hopes (2013) in una
definitiva versione in studio.
L’album arriva dopo l’acclamatissimo After The Party
del 2017, che ha debuttato al diciannovesimo posto nella classifica di
Billboard Top Current Albums e al numero 67 nella Top 200. Nel
realizzare il disco, la band ha nuovamente unito le forze col produttore
Will Yip (Mannequin Pussy, Quicksand), trascorrendo sei settimane a
registrare nello Studio 4 ai Conshohocken, di proprietà dello stesso
Yip. “È il periodo di tempo più lungo passato a lavorare assieme a
Will,” osserva il cantante Greg Barnett. “Volevamo assicurarci che
queste storie non si perdessero nella musica.”
La
band ha anche pubblicato il video del primo singolo “Anna”, traccia
nella quale The Menzingers conducono il loro incisivo songwriting sui
temi dell’amore e del romanticismo, esplorando le glorie e i fallimenti
delle relazioni umane. Pezzo malinconico di jangle-pop, “Anna” dipinge
un ritratto di nostalgia amorosa, con tanto di ricordi sognanti di danze
in cucina ubriachi di vino.
Su Hello Exile,
The Menzingers portano la loro narrazione lirica a un livello
completamente nuovo e condividono le loro riflessioni sui momenti del
passato e del presente: i casini al liceo, relazioni tormentate,
l’invecchiamento e l’alcol e la noia della politica. Con la band che
raggiunge una profonda intimità messa a nudo su tutto il disco, Hello Exile emerge come il loro lavoro più emotivo di sempre.
A
molti il nome di Angela Perley dirà poco o niente; eppure questa
songwriter originaria di Columbus (Ohio) è in circolazione dal 2009 come
leader degli Howlin’ Moons, band con la quale ha rilasciato due full
lenght in studio e un pugno di Ep, che le hanno dato, in patria, una
discreta visibilità.
Dopo
dieci anni di carriera, la Perley, ha deciso di sgravarsi dall’egida
della band che l’accompagna fin dagli inizi e di rilasciare questo 4:30,
primo episodio che porta solo il suo nome. Ad accompagnarla, però, c’è
sempre il fido Chris Connor, notevole chitarrista la cui impronta è
evidente anche in questo disco, e a mixare torna Michael Landolt (Maroon
5, O.A.R.), che aveva prodotto il precedente album.
In
4:30, la bella songwriter americana coagula tutta la sua esperienza e
da libero sfogo alle sue passioni. Che non sono incentrate solo sul
genere americana, anzi. Pur in un quadro d’insieme assai omogeneo, le
dodici canzoni in scaletta costituiscono infatti un accattivante melange
in cui si trovano graffiante rock’n’roll, intense ballate, chitarre
rombanti, ganci pop di facile presa, un pizzico di glam, una spolverata
di indie e, si, anche spiccioli di country.
Un disco eterogeneo, dunque, ma tutt’altro che confuso, e per questo assai divertente per tutta la sua durata. Apre l’ariosa title track,
morbida ballata elettroacustica con un gran bel lavoro alle chitarre.
Tre minuti e mezzo di dolcezza che si disperdono tra le scintille glam
della fragorosa Let Go, tutta chitarre lancia in resta e ammiccamenti indie.
Back In Town è un bolide pub rock, melodia orecchiabile scartavetrata dal graffio delle chitarre, mentre la successiva He Rides High,
si veste di romanticismo crepuscolare e ricorda alcune cose della
Stevie Nicks più sofferta. Una grande canzone che, insieme alle
reminiscenze nostalgiche di Don’t Look Back Mary, rappresenta il cuore pulsante dell’album e un esempio di scrittura semplice fin che si vuole, ma decisamente appassionata.
Un
inizio disco di quelli che lasciano il segno, a cui si aggiungono altre
sette canzoni tutte centrate, ognuna con un motivo per essere
ricordata. Da citare almeno l’intensa Local Heroes, il brano decisamente più country del lotto, l’indie rock scatenato di Friends, il retrogusto sixties di Dangerous Love dalla suadente melodia pop. Chiudono le scorbutiche chitarre di una tesa Walk With Me, brano che sigilla un disco che piacerà molto ai fan di Lydia Loveless e Jade Jackson. Da provare.
I Twin
Peaks annunciano il nuovo album Lookout Low in uscita il 13 settembre
su Communion Records/Caroline International. Per Lookout Low la band
formata dai chitarristi Cadien Lake James e Clay Frankel, il bassista
Jack Dolan, il polistrumentista Colin Croom, e il batterista Connor
Brodner, ha lavorato con il leggendario produttore Ethan Johns (Paul
McCartney, Kings of Leon, Laura Marling, White Denim) presso il Monnow
Valley Studio.
Non
c’è dubbio che Alice Howe, songwriter originaria di Boston, abbia le
carte in regola per suscitare grande interesse in tutti coloro che sono
appassionati di roots music. C’è, infatti, qualcosa di estremamente
famigliare e immediatamente riconoscibile nelle dieci canzoni che
compongono questo esordio: la Howe non inventa nulla, ma ritorna al
passato, immergendosi con sacro rispetto in quelle sonorità blues, folk e
country che andavano per la maggiore negli anni a cavallo tra la fine
dei ’60 e l’inizio dei ’70 nella California del sud.
Le dieci canzoni di Visons,
sia i brani originali che le cover, sono dunque un omaggio al passato,
curato con attenzione filologica e qualche tocco di modernità. Questo
esordio è, dunque, un disco dal suono inevitabilmente vintage, per
cesellare il quale, la Howe si è fatta produrre dal bassista Freebo
(noto per la sua collaborazione come turnista con Dr. John, Bonnie
Raitt, Loudon Wainwright III, Ringo Star, John Mayall) e si è fatta
affiancare dal chitarrista Fuzzbee Morse, dal tastierista John 'JT'
Thomas e dal percussionista John Molo, tutti musicisti con comprovata
esperienza in ambito West Coast.
Da
parte sua, la Howe dimostra di essere in possesso di un brillante
songwriting, di ottime capacità interpretative e di una voce calda e
radiosa (talvolta può far venire in mente Joan Baez), perfetta per
interpretare un repertorio che non conosce cedimenti o sbavature.
Aprono la scaletta le morbide armonie di Twilight,
ballata country folk, semplice e appassionata, che introduce al meglio
il mood dell’album. Album, che si tinge spesso di blues, come nello
shuffle di Getaway Car, punteggiato da un brillante arrangiamento di ottoni e irrobustito dai riff assassini dell’hammond, o nella cover di Honey Bee, presa dal repertorio di Muddy Waters, in cui a farla da padrona sono le bollenti partiture di piano elettrico.
Ottime anche le altre cover: il classico To Long At The Fair di Joel Zoss, la celebre Bring It On Home To Me di Sam Cooke, arrangiata da urlo in una chiave più decisamente blues, e soprattutto il Bob Dylan di Don’t Think Twice, It’s All Right,
canzone riletta da centinaia di artisti, ma che la Howe riesce a far
sua attraverso un approccio semplice, che mette in evidenza la
straordinaria melodia e una voce appassionata e consapevole.
Non c’è nulla di nuovo in Visions,
e poco importa, perché la grazia e lo stile di questa ragazza tolgono
la polvere a un suono antico con una ventata di temperata freschezza. Un
esordio tutto da godere e un nome, quello di Alice Howe, da segnare sul
taccuino anche per il futuro.
Nel
novembre del 1982, David Sylvian mette fine all’avventura Japan, quando
la band è all’apice della carriera, dopo aver pubblicato Tin Drum,
sintesi di una musica che gioca con la dance più modaiola, la new wave,
il pop romantico ed è adornata di un’estetica che guarda a oriente con
sguardo decadente e ombroso.
Brilliant Trees,
il primo album di Sylvian lontano dai Japan, sfuma gli accenti glam dei
lavori precedenti, tratteggiando diafani acquarelli, ricchi di sfumate
citazioni e di melodie che mescolano sperimentazioni ambient, folk
minimale e vellutati passaggi jazz (The Ink In The Well).
Incline
a un pop sofisticato e intellettuale, Sylvian ricama piccole grandi
canzoni sospese in un curioso equilibrio fra temporalità e spiritualità.
Se da un lato, il funky elusivo di Red Guitar e le cupe tonalità della liquida Backwaters hanno ancora le sembianze del carnale materialismo che richiama alla mente l'avventura “giapponese” appena conclusasi, Nostalgia
sfuma la malinconia in uno sgranato bianco e nero, gioca coi silenzi
un’incorporea trama melodica, evoca un immaginario di esotici languori e
sottintende un dolore remoto e spirituale.
Immobile, maestosa, attraversata da un’intima e definitiva tristezza (The Sound Of Waves In A Pool Of Water/I’m Drowing In My Nostalgia), Nostalgia rappresenta la summa della poetica di Sylvian e l’anello di congiunzione fra la lentezza avvolgente di The Night Porter (Gentlemen Take Polaroid, 1980) e la maestosa fragilità di Let The Happiness In (Secrets Of Beehive, 1987).
Se la son presa con calma, i Sunsleeper, hanno fatto passare tre anni dal loro esordio, avvenuto nel 2016 con l’Ep Stay The Same,
hanno affinato le idee, trovato dieci canzoni che potessero funzionare,
le hanno sistemate, arrangiate e finalmente pubblicate.
Il risultato è questo You Can Miss Something & Not Want It Back,
un disco ben curato in fase di produzione e omogeneo nel suono, con cui
la band originaria dello Utah ha messo a punto la propria idea di emo
rock, perfezionando il songwriting e dando corpo ulteriore alle buone
idee già intuite all’esordio.
Il
disco, è questa la prima sensazione, è ben suonato e trova forza
nell’affiatamento della band e in un suono che, come si diceva, risulta
coerente, compatto ed equilibrato. In linea con le caratteristiche del
genere, la scaletta procede tra atmosfere malinconiche, melodie
facilmente assimilabili, a cui, per converso, fanno da contraltare
improvvise bordate di chitarra e grintose accelerazioni.
Tuttavia,
come spesso accade nei dischi emo, il confine tra una grande canzone e
un prodotto di facile ascolto, buono per la truppa, è assai labile. Così
i Sunsleeper oscillano fra brani ispirati e sorretti da buone idee, che
richiamano alla mente la miglior tradizione emo di inizio millennio, e
altri momenti totalmente prescindibili.
L’apertura carezzevole di Feel The Same,
così semplice e diretta, è un ottimo biglietto da visita; ma le doti
della band sono confermate anche dalla sognante progressione di Souvenir, dalle accelerazioni di No Cure, dall’ottimismo sferragliante di I Hope You’re Ok o dalla melodia nebulizzata della conclusiva Home.
Ci sono però anche episodi più banalotti, che tolgono spessore alla scaletta, come la prevedibile Casual Mistakes o il mood adolescenziale delle chitarre pop punk di Soften Up.
Piccoli
difetti che, però, non pesano più di tanto sull’economia di un disco
gradevolissimo e di facile ascolto. Nonostante la maturità artistica sia
ancora lontana, i Sunsleeper possiedono indubbio talento e, se sapranno
seguire la strada tracciata da grandi band di genere, come a esempio i
Brand New, dando profondità e spessore alle composizioni, ne ascolteremo
delle belle. Comunque sia, promossi.
La
band southern rock Whiskey Myers annuncia i dettagli del nuovo album
omonimo, il quinto per la loro carriera, in uscita il 27 settembre su
Snakefarm Records/Spinefarm. Whiskey Myers è il seguito di Mud del 2016.
La band condivide anche il primo singolo "Die Rockin'", un ode dal sapore gospel e dalle tinte rock'n'roll.
"Si
tratta del primo album che abbiamo autoprodotto ed è 100% Whiskey
Myers. Ed è per questo che abbiamo deciso di intitolarlo Whiskey Myers",
afferma il chitarrista solista John Jeffers.
“Hp
scritto Die Rockin’ con il leggendario Ray Wylie Hubbard, e riassume
davvero la nostra vita rock’n’roll,” dice il frontman Cody Cannon.
“Siamo consumati dalla musica e siamo grandi fan delle leggende che ci
hanno preceduto. Siamo sulla strada e in studio per cercare di rendere
omaggio ai grandi che hanno ispirato questa generazione e ci sforziamo
di creare un po’ di magia che sia nostra”.
Jeffers:
“Siamo stati fortunati a lavorare con grandi produttori durante la
nostra carriera, ma l’autoproduzione ci ha dato la libertà di provare
idee pazze in studio, il che ci ha condotti a questo punto di completa
soddisfazione per il risultato finale e più eccitati che mai nel
regalare questa nuova musica ai nostri fan”.
A
cavallo dell’onda lunga del movimento new wave e post punk revival,
arrivano da New York i Revivalists, con il loro album d’esordio Painted People, un disco che amalgama diversi elementi in un patchwork musicale decisamente intrigante.
Sono
tante le influenze esplicitamente dichiarate dal gruppo, a partire da
mostri sacri come David Bowie, T-Rex, Velvet Underground, Roxy Music,
Duran Duran, e più o meno tutte si colgono nelle dieci canzoni che
compongono la scaletta di questo brillante primo album. Nella musica
della band newyorkese, infatti, convivono elementi pop, new wave, art
rock, un tocco di glam e uno di psichedelia, il tutto riletto con un bel
piglio modernista e un mood appassionato.
Sopra un impasto, a volte un po' pesante, di tastieroni anni ’80 (Rattles) e grintose chitarre (True Dictator),
emergono soprattutto splendide linee di basso (da godersi soprattutto
in cuffia) e la voce del leader, Christian Dryden, cantante molto
impostato, ma dal timbro duttile, e che si trova a proprio agio sia nei
momenti più morbidi e sognanti che nei passaggi più grintosi.
Un
disco dal mood prevalentemente solare ed energico, ricco di ganci
melodici di facile presa (talvolta vien da pensare ai Killers di Hot Fuss), che sfiora appena le atmosfere cupe della dark wave, prediligendo un linguaggio meno ostico e più fruibile.
Poco male, perché comunque ci sono gran belle canzoni, a partire dal singolo Ice Flower, sorretto da una potentissima linea di basso. Da segnalare come highlights del disco anche i toni psichedelici di Sunset, ballata che si gonfia in una bella coda strumentale, e le ritmiche dance e il giro di chitarra della tesa e vibrante Over The Lie (gli Interpol stanno dietro l’angolo), decisamente la migliore del lotto.
Un
esordio centrato, che palesa idee chiare e uno stile personale, e che, a
cercare il pelo nell’uovo, guadagnerebbe più forza con arrangiamenti
più equilibrati e asciutti (a volte la carne al fuoco è davvero troppa).
Comunque sia, promossi a pieni voti.
“Kids in ‘99”
è stata scritta per commemorare i tre ragazzi di Seattle che nel 1999
hanno perso la vita in seguito all’esplosione del gasdotto dell’Olympic
Pipeline a Bellingham, Washington. “Nel 1999 vivevo a Bellingham e l’esplosione dell’Olympic Pipeline mi ha davvero sconvolto”, commenta il frontman Ben Gibbard. “Dopo tutti questi anni penso sia giunto il momento che questa tragedia abbia la sua canzone folk”.
Oltre a “Kids in ‘99” e “Blue Bloods”, prodotte da Peter Katis (The National, Interpol, Kurt Vile), l’EP include anche “To The Ground” e “Before The Bombs”, prodotte da Rich Costey durante le registrazioni dell’acclamato nono album in studio “Thank You for Today”, e “Man in Blue”, autoprodotta dalla band.
Nati nel 1997 e pubblicato nel 1998 l’incredibile album di debutto dal titolo “Something About Airplanes”, i Death Cab for Cutie
sono diventati in breve tempo una delle più convincenti e creative
realtà della scena indie rock internazionale. Nel 2005 la band debutta
su Atlantic Records con il quinto album in studio dal titolo “Plans”
(trainato dai singoli “Soul Meets Body” e “I Will Follow You Into The
Dark”) che viene certificato platino a pochi mesi dall’uscita. Con “I
Will Follow You Into The Dark” e “Plans” la band ha ricevuto le prime
nomination ai GRAMMY®, rispettivamente nelle categorie “Best Pop
Performance By Duo Or Group With Vocals” e “Best Alternative
Album”. “Directions”, DVD del 2006 strettamente legato a “Plans”, ha
portato una nuova nomination alla band nella categoria “Best Longform
Music Video”.
L’album
del 2008 “Narrow Stairs” ha debuttato alla posizione #1 della
classifica SoundScan/Billboard 200 e fatto guadagnare alla band altre
due nomination ai GRAMMY® come “Best Alternative Album” e “Best Rock
Song” (con la hit “I Will Possess Your Heart”). L’EP “The Open Door” del
2009 ha regalato alla band la terza nomination consecutiva ai GRAMMY®
nella categoria “Best Alternative Album”. Nel 2011 arriva l’album “Codes
And Keys” e con lui la quarta nomination consecutiva come “Best
Alternative Music Album”.
L’ottavo album in studio dei Death Cab for Cutie,
“Kintsugi”, ha debuttato alla prima posizione delle classifiche “Top
Alternative Albums” e “Top Rock Albums” di Billboard e ha ricevuto una
nomination ai GRAMMY® nella categoria “Best Rock Album”.
Lark
è una manciata di case a ridosso delle paludi, una cittadina
dimenticata dal tempo e dal progresso. È tagliata in due dalla Highway
59: di qua c'è la tavola calda di Geneva Sweet, dove servono limonata
dolcissima e pesce gatto fritto da mangiare seduti al bancone insieme a
neri che in altri locali verrebbero cacciati; di là c'è una grande casa
in perfetto ordine, tetto a cupola e staccionata bianca intorno, la
dimora dei Jefferson, la famiglia più potente della zona. Come accade
spesso nel Texas orientale, solo pochi metri separano mondi molto
lontani. Un giorno due corpi affiorano dal bayou: erano un avvocato di
colore di mezza età arrivato da Chicago e una giovane donna bianca del
posto. In apparenza un caso già chiuso, l'ennesimo crimine a sfondo
razziale che tutti dimenticheranno presto. Ma Darren Mathews, appena
arrivato a Lark, capisce in fretta che niente è come sembra, lui che
incarna una suprema contraddizione: un ranger nero che deve difendere la
legge e dalla legge difendersi.
Un
ranger texano sospeso dal servizio e dedito all’alcol, un moglie in
cerca di verità, due omicidi apparentemente collegati, una chitarra da
restituire in nome di un’antica amicizia, una cittadina situata nel buco
del culo del Texas, la fratellanza ariana, il bayou, il pesce gatto
fritto, il bourbon, la birra ghiacciata.
Questi
sono gli elementi che compongono Texas Blues, un romanzo che ha le
sembianze del poliziesco, che intriga grazie a un ottimo ritmo, a un
susseguirsi di colpi di scena e un finale, ulteriore alla risoluzione
del caso, davvero inaspettato.
In
realtà, la scrittrice texana Attica Locke, qui alla sua quinta prova,
non si limita a tratteggiare una solida storia noir, ma dipinge semmai
un appassionato affresco della propria terra. Un luogo, come diceva Joe
Lansdale, che è soprattutto “uno stato mentale”, crocevia di
disarmanti contraddizioni, dove tutto è bianco o nero, ricchezza
smisurata e povertà assoluta, modernità e inveterate tradizioni,
razzismo geneticamente radicato e lotta per conquistare e affermare la
propria dignità di essere umano. Ma anche una terra che evoca ricordi,
che crea legami indissolubili, che mescola il sangue in amori
impossibili, che commuove di fronte all’aspra bellezza del paesaggio.
La
prosa della Locke è asciutta e diretta, eppure è attraversata da
momenti di quell’appassionato lirismo di chi, pur consapevole del mondo
spietato in cui è cresciuto, non smette, nemmeno per un istante, di
amarlo.
A
far da colonna sonora al romanzo è, come intuibile dal titolo, il
blues: non solo una musica, ma il canto di un aedo che narra l’epica di
tante vite ai margini, a cui (forse) solo l’amore saprà dare redenzione.
Sono
passati due anni dall’omonimo esordio datato 2017, e finalmente i
Southern Avenue sono riusciti a guadagnarsi l’attenzione del pubblico e
della stampa specializzata. Già, perché il primo album, per quanto
splendido, era passato, almeno alle nostre latitudini, quasi sotto
silenzio. Keep On, che segna il passaggio del combo dalla Stax
alla Concord Records, conferma tutte le cose buone e le aspettative che
avevamo sui Southern Avenue, band che si propone come una delle realtà
più interessanti in circolazione quando c’è da rileggere un suono
classico con spunti di originalità.
Quale
sia il piatto forte della casa è chiaro fin dal nome del gruppo: la
Southern Avenue attraversa Memphis (Tennesse) da est a ovest, fino a
prendere il nome di McClemore Avenue, la strada dove si trova Soulville,
ovvero il palazzo della Stax Records.
Il quintetto ha voluto chiamarsi proprio così, Southern Avenue, come a voler rimarcare orgogliosamente le proprie radici e ha tracciare
un’immaginaria retta che congiunge la grande tradizione nera della
celebre label alla proposta musicale contenuta nei loro dischi. Soul,
r’n’b, funky e gospel, declinati con un accento rock blues, sono le
frecce all’arco della band capitanata dalla vigorosa vocalist Tierinni
Jackson: un sound che pesca a piene mani dal passato Stax (etichetta
sotto la quale è uscito l’esordio) rivisitato però in chiave moderna.
Nati
come blues band fondata dal chitarrista Ori Naftaly, i Southern Avenue
hanno progressivamente mutato suono, cambiando la line up originaria,
con l’inserimento della sorella di Tierinni, Tikyra Jackson, alla
batteria, Daniel McKee al basso e Jeremy Powell alle tastiere. E’ stato
soprattutto l’influsso delle due sorelle Jackson che, come da miglior
tradizione, sono cresciute cantando nel coro di una locale chiesa, a
influenzare il nuovo corso del gruppo.
Sono
dodici canzoni in scaletta, tutte suonate e arrangiate benissimo:
sezione ritmica potente, groove micidiali, spolverate di hammond,
arrangiamenti di ottoni, la chitarra di Naftaly, musicista essenziale e
dalle solide radici rock blues, e soprattutto la voce di Tierinni
Jackson, una che sulle note alte va a nozze e tira certi acuti da far
tremare il vetro delle finestre.
Travolgenti quando spingono il piede sull’acceleratore funky (Jive, Swichup e Whiskey Love), grintosi quando imboccano la strada del rock blues (il riff hendrixiano di She Gets Me High, The Tea I Sip) classicissimi nei rimandi sixties della conclusiva We’re Gonna Make It, suono Stax millesimato.
Disco voluttuoso e trascinante, Keep On
si tiene lontano da passatismi e stereotipi, mantenendo altissima la
temperatura e rileggendo il genere con rinnovato vigore e inusitata
freschezza.