Pur
essendo una band ad alto contenuto energetico e dall’impatto live
formidabile, i Pearl Jam hanno sempre inserito nei loro dischi qualche
pregevole ballata. A partire da Ten (1991), in cui spiccava per bellezza e intensità l’ormai leggendaria Black, ogni disco del combo originario di Seattle, è punteggiato da uno o più lenti attraversati da vibrante emotività.
Un brano come Just Breath da Backspacer
(2009), ad esempio, ci porta in una volatile dimensione folk che
fluttua a mezz’aria tra languori nostalgici. Così come avviene nella
ballata elettroacustica di Presente Tense da No Code (1996), uno dei vertici del songwriting del chitarrista Mike McCready. E l’elenco potrebbe allungarsi a dismisura.
Nessuna dei brani citati, tuttavia, riesce a toccare i vertici intensi e depressi raggiunti dalla cupa Immortality, canzone che compare in Vitalogy (1994) e venne pubblicata come singolo, il secondo tratto dall’album, l’anno successivo.
In
realtà è tutto Vitalogy a essere un disco dai contenuti assai
drammatici: il raggiungimento della fama e il malessere che ne deriva (Not For You e Corduroy,
in tal senso, sono due canzoni simbolo), oltre ai consueti temi tratti
dall’analisi della caotica società americana (il razzismo, la fine
dell’istituzione famiglia, la violenza e le armi da fuoco) forgiano un
suono ruvido, anticommerciale, ostico e lontano da ogni compromesso o
ammiccamento al mercato.
Ballata elettroacustica dall’incedere dolente, Immortality
possiede un testo ambiguo e di non facile comprensione, che parla di
studenti che marinano la scuola, e che negli intenti di Eddie Vedder
dovrebbe “aiutarti a capire le pressioni su qualcuno che è su un treno parallelo...”. E’
evidente, tuttavia, che qualunque sia il significato recondito della
canzone, il messaggio lanciato da Vedder è tutto tranne che conciliante:
“Cannot find the comfort in this world” e “But there's a trapdoor in the sun” rappresentano un’esplicita dichiarazione di pessimismo e di inadeguatezza al mondo, che non ammette repliche.
Diversamente
da quello che generalmente si pensa, la canzone non fu scritta per
omaggiare Kurt Cobain, morto l’anno precedente, anche se la chiosa
fulminante, “some die just to live” (qualcuno muore solo per
vivere), farebbe pensare tutto il contrario. Di certo, questo verso
icastico e puntuto suona perfetto per ricordare la figura di Cobain,
anche perché in linea con uno dei temi cardine del disco, i cui testi
sono spesso incentrati sul peso e sulle implicazioni derivanti dal
successo.
Così
il messaggio diviene più comprensibile, soprattutto oggi, visto che
negli ultimi anni il suicidio delle rockstar sembra diventato un macabro
rituale: la morte è il prezzo da pagare perché la fama, per sua stessa
natura precaria e destabilizzante, diventi immortalità, e trasformi il
musicista, cristallizzato nella sua giovinezza, in un’icona senza tempo.
Un tema classico del rock, mutuato dal ”muore giovane chi è caro agli dei”
del commediografo greco Menandro, e che trent’anni prima, nel 1965, gli
Who inserirono in quel verso leggendario di My Generation che recita: “I hope I die before I get old”.
Blackswan, mercoledì 30/10/2019