L'uomo la cui illustre carriera è iniziata alla fine degli anni '70 con la band visionaria synth-pop Japan e successivamente membro dell'influente band art-rock Porcupine Tree, torna con il nuovo album Under A Spell che segue il suo Planets + Persona del 2017.
Richard Barbieri non aveva pianificato di realizzare un album come Under A Spell, in origine pensava al suo quarto album solista come diretto seguito del suo predecessore, Planets + Persona del 2017.
Quel
disco, realizzato in diversi studi in tutta Europa e con l'inclusione
di performance dal vivo con una serie di ospiti, è stato avventuroso e
audace, mostrando l'infinita inventiva di Barbieri nella scrittura delle
canzoni e la sua padronanza dell'elettronica. Il seguito avrebbe dovuto
riprendere da dove si era interrotto, viaggiando ulteriormente nel
percorso che aveva tracciato col disco precedente. Poi la pandemia del
COVID-19 ha colpito e tutto è cambiato. Dice Barbieri di Under A Spell "L'ho
scritto e registrato nel mio studio casalingo, in questo periodo così
strano. Il nuovo lavoro è diventato qualcosa di completamente diverso:
questo strano album onirico".
In Under A Spell,
Barbieri ha preferito catturare le atmosfere e gli stati d'animo che il
suo cervello disconnesso stava evocando, piuttosto che concentrarsi
sugli arrangiamenti e melodie. Canzoni come "Flare", "Serpentine", "Sleep Will Find You" e "Darkness Will Find You" sono definite con precisione, nonostante la loro genesi ispirata dal sognare a occhi aperti, mentre 'Under A Spell' e 'Lucid', le suggestive tracce di apertura e chiusura, sono le chiavi che aprono il disco. "Queste due tracce contengono nel loro interno tutto il significato dell'album", racconta Barbieri. "Il primo brano, Under A Spell,
ti conduce in luoghi dove non sei sicuro di quello che sta succedendo.
Ci sono sussurri in sottofondo, incantesimi lanciati in un bosco
deserto. Poi il brano finale, Lucid,
è l'opposto. Sei in questo sogno lucido e confortante, ma poi ti
allontani ancora di più, cercando di uscirne. Ci sono voci che dicono:
'Svegliati, svegliati, torna vivo...'".
Gli ascoltatori saranno in grado di distinguere delle voci e tra quelle troviamo quelle del frontman dei Marillion Steve Hogarth e la cantante svedese Lisen Rylander Love (che ha co-scritto 'A Star Light').
Il titolo dell'album racchiude perfettamente il mondo evocativo che Barbieri ha creato. Canzoni come "Clockwork" e "Sketch 6”,
tracciano territori dub fluttuanti e sono sospese in quello
strano mondo di mezzo tra il sonno e la veglia, un riflesso subconscio
dello stato surreale in cui il pianeta si è trovato negli ultimi mesi. "Stavo facendo un sacco di sogni bizzarri e ricorrenti che mi giravano intorno dopo il mio risveglio", dice Barbieri.
"Erano basati su questo sentiero nel bosco, che è rappresentato dalla
copertina dell'album, un ambiente surreale, deserto, tipo Blair Witch
Project. Stai attraversando questi boschi, ti dirigi verso questa luce,
quasi come se stessi lasciando la vita. È da qui che è nato il titolo Under A Spell,
era una sensazione di non avere il controllo totale. Quasi come se i
tuoi sogni ti indicassero direzioni che a volte puoi controllare e a
volte no".
Fondatore dei Japan, pionieri della new-wave e uno dei gruppi più innovativi dei loro anni, Richard Barbieri ha
contribuito a innescare la rivoluzione della musica elettronica, il suo
suono synth non solo ha definito la band, ma ha influenzato artisti del
calibro di The Human League, Duran Duran, Gary Numan e Talk Talk. Dopo lo scioglimento dei Japan, Barbieri insieme a Steven Wilson ha formato il leggendario gruppo progressive Porcupine Tree, suonando in nove album, tra cui Stupid Dream del 1999, In Absentia del 2002 e l'acclamato Fear Of A Blank Planet del 2007. Dopo che i Porcupine Tree hanno sospeso la propria attività, Barbieri ha intrapreso una carriera solista, pubblicando album come Things Buried del 2005, Stranger Inside del 2008 e Planets + Persona del 2017, oltre alla sua recente serie EP, Variant.1-5.
La
volontà di Barbieri di ridefinire costantemente i propri confini
musicali non è mai stata così evidente come nel brillante, ipnotico Under A Spell, l'ultima pietra miliare di questo viaggio assolutamente unico.
Ci
sono canzoni che sono state reinterpretate talmente tante volte che,
anche volendo, impiegheremmo giorni interi a contarle tutte. E’ il caso,
ad esempio, di Wayfaring Stranger, conosciuta anche come I’m a Poor Wayfaring Stranger,
con la quale si sono cimentati, tanto per citarne qualcuno, fior fior
di artisti, quali Johnny Cash, John Baez, Bill Monroe, Tim Buckley, Eva
Cassidy, Neil Young e perfino Ed Sheeran.
Il brano è un traditional americano di incerta provenienza, tanto importante e famosa per la cultura degli Stati Uniti da essere stata inserita nel Roud Folk Song Index,
database che raccoglie i brani tradizionali in lingua inglese. La
canzone fu resa nota, nel 1891, dal divulgatore statunitense Charles
Davis Tillman, che la inserì nel suo Canzoniere per arpa (Survival),
riprendendo le liriche da un libro di canzoni religiose del 1858
(testo, questo, che potrebbe essersi ispirato a sua volta a un inno in
lingua tedesca).
La
prima pubblicazione del brano su disco avvenne nel 1944 a opera del
musicista folk Burt Ives (celebre anche per la sua carriera di attore,
che valse un Oscar per il film La Gatta Sul Tetto Che Scotta), e
successivamente, come abbiamo accennato poc’anzi, rivisitata (anche nel
testo) e reinterpretata da tantissimi altri autori.
Per molti anni, la canzone fu conosciuta anche con il titolo di Libby Prison Himn,
in quanto ne veniva attribuita la paternità a un soldato dell’Unione
prigioniero nella famigerata prigione sudista di Libby, presso Richmond
(Virginia), il quale, sul punto di morte, avrebbe scritto il brano per
confortare un compagno di prigionia ferito.
Quale che sia la genesi della canzone, resta il fatto che TheWayfaing Stranger
è un brano, non solo famosissimo, ma che ben si adatta a svariate
circostanze. Il tema è evidentemente simbolico e religioso: il
peregrinare è la metafora della vita, il cui cammino difficile,
periglioso e pregno di sofferenza verrà ricompensato nell’Aldilà, quando
ognuno di noi potrà ricongiungersi con i propri cari in Paradiso. Le
liriche, in tal senso, sono chiarissime: “So che la mia strada è dura e ripida, ma davanti a me sorgono bellissimi campi, dove Dio ha redento…”; e ancora: “Ci vado a trovare mia madre, ha detto che ci saremmo incontrati quando sarei arrivato…sto solo andando a casa”.
In questo primo piano di lettura, il messaggio è chiarissimo: la vita è
solo l’anticamera del Paradiso, il luogo che è la nostra vera dimora,
là dove potremo stare per l’eternità a fianco dei nostri affetti più
profondi.
Il
tema religioso in sé, però, non giustificherebbe l’enorme successo di
questa mestissima canzone, il cui testo fortemente nostalgico ben si
adatta a rappresentare momenti di dolore e di sconforto vissuti da molti
che hanno voluto reinterpretarlo.
C’è di più, però. TheWayfaring Stranger
è anche la canzone che più di altre riesce a rappresentare la tragedia
dei migranti. Fuori dal simbolismo religioso, il brano racconta la
storia di tutti coloro che sono costretti ad abbandonare la propria casa
per cercare fortuna nel mondo. Uomini che lasciano gli affetti, gli
amori, le amicizie e i luoghi in cui sono cresciuti, perché la vita è
crudele, li azzanna alla gola e li costringe a migrare, alla ricerca di
un mondo nuovo, un futuro diverso, una speranza di felicità.
E’ il verso iniziale, I’m just a poor Wayfaring Stranger traveling through this world,
che inchioda l’esecutore e l’ascoltatore a una vera e propria
responsabilità di immedesimazione: un giorno anche tu potrai essere
viandante straniero in una terra che ti è ostile e ti rifiuta, anche tu
potrai patire il morso feroce della solitudine, anche tu, si, proprio
tu, che ora vivi nell’agio e nell’abbondanza, potrai essere sradicato da
tutto ciò che ami e trovarti all’improvviso nella tormenta. Vesti i
panni degli altri, allora, prova il dolore che loro provano: solo così
potrai dare dignità alla tua esistenza.
Sono
moltissime le interpretazioni di questa dolente ballata che lasciano
senza fiato per intensità: provate ad ascoltare, ad esempio, la versione
celeberrima che ne dà Johnny Cash o quella punteggiata da poche note di
banjo di Rhiannon Giddens, esecuzioni diverse per sensibilità
artistica, ma entrambe da pelle d’oca. Una più di tutte, però, riesce a
commuovere alle lacrime, ed è quella eseguita dalla cantante e attrice
belga Veerle Baetens per la colonna sonora del film Alabama Monroe,
vincitore nel 2014 dell’Oscar per il miglior film straniero. Una
versione cupa e disperata, che non lascia spazio alla speranza: TheWayfaring Stranger
è, in questo caso, solo un racconto di sofferenza, la cruda
rappresentazione di una vita che si spegne, non c’è promessa di
redenzione o di salvezza, solamente un amore grande che svanisce, per
sempre, nel buio dell’eternità. Drammatica e dolorosa, proprio come la
toccante pellicola di Felix Van Groe
I
dischi degli australiani Apartments sono perle rare centellinate nel
tempo, rilasciate con una lentezza d’altri tempi, come se ogni nuova
uscita fosse il frutto di una cura materna, l’accurata realizzazione di
un artigiano, che leviga e cesella con amore ogni centimetro della sua
opera.
In And Out Of The Lights
è il sesto disco di una carriera che è iniziata a metà degli anni ’80,
dopo che Peter Milton Walsh, nocchiero del progetto, aveva contribuito
brevemente alla storia della band di culto dei The Go-Betweens. Una
musica, quella concepita dalla penna del leader, che ha mantenuto negli
anni tratti identificativi ben delineati, l’idea, cioè, di una canzone
ballata, al contempo romantica e malinconica, che evocasse un suono
classico e atmosfere di uno sgranato bianco e nero.
Brani
senza tempo, che fluttuano sopra ogni decade nella quale sono stati
concepiti, senza però imparentarsi a nessun suono specifico, unici e
immediatamente riconoscibili, proprio grazie al loro essere attraversati
da un apolide senso di nostalgia, buoni per ogni luogo e ogni epoca,
pretendendo solo un comodo divano nella notte, le cuffie a contenere le
emozioni e il cuore aperto agli struggimenti.
Come evocato fin dal titolo, le nove canzoni di In And Out Of The Light,
attraversano un territorio intimo in cui si susseguono luci e ombre, in
cui barbagli di sole e dolcissimi languori si accostano tremanti al
soliloquio meditabondo e sfiorano appena gli occhi umidi di lacrime. Non
c’è però disperazione (con cui Walsh convive dal 1999, anno in cui gli
morì la figlioletta), semmai uno sguardo esistenziale pacificato, ma
consapevole e critico, e una malinconia che avviluppa morbida senza mai
forzare troppo la stretta.
La famigliarità con cui il disco inizia, come se fosse una seconda facciata del precedente, bellissimo No Song, No Spell, No Madrigal, è esattamente quello che ci attendiamo da una canzone degli Apartments. L’opener Pocketful Of Sunshine,
quell’arpeggio di chitarra che cerca gli accordi in minore, la voce
calda di miele, i controcanti eterei, il sospiro della tromba e il
velluto dell’organo, sarebbero d’indicibile mestizia, se non fosse per
quel raggio di sole che illumina la scena e fa evaporare gli
struggimenti, mentre Walsh canta “Tu vuoi ricominciare a vivere, e se io potessi metterei un po' di cielo blu nella tua testa”. Luci e ombre, rassegnazione e speranza.
Write Your Way Out Of Town,
costruita su splendide linee di chitarra, è quasi stasi contemplativa,
lo sguardo fuori dalla finestra mentre le luci autunnali velano di
nostalgia il tramonto e la voce di Walsh, che quasi implora: “Resta, è tutto quello che ti chiedo di fare”. L’intreccio leggiadro di piano e chitarra, l’incedere felpato e la carezza degli archi, mitigano il lamento esistenziale di When You Used To Be, attenuano lo straziante senso di vuoto di quel verso, “c’è un buco nel mondo dove tu eri solita stare”, e addolciscono la dichiarazione di non appartenenza al mondo di un sognatore, suggerito dal cantato di Walsh: “Chiedimi degli obiettivi, sai che non ne ho, chiedimi dei sogni, sai che ne ho molti”.
Il secondo singolo, What’s Beauty To Do?, pone una domanda immensa, a cui Walsh dà una risposta tanto evidente quanto confortante: “ E’ una luce nel buio, una luce nel buio”, poche parole che leniscono il dolore di una perdita che non potrà mai essere colmata.
L’ipotetica
seconda facciata del disco inizia qui, e gli umori si fanno leggermente
più cupi. Sebbene l’album sia stato registrato prima del lockdown, quel
verso contenuto in Butterfly Kiss, ”Lucy The World Has Changed”,
sembra riflettere la drammaticità dei nostri giorni, accentuata, poi,
dalla voce grave di Walsh e dalla tensione innervata da poche note di
tromba. Il pianoforte di Chris Abrahams gocciola lacrime e pioggia su We Talked Through Till Dawn, il brano più struggente in scaletta, una sorta di nostalgico lamento (“I Made A Thousand Whishes and It Got Me Nowhere”), che si lega a filo doppio con le atmosfere di No Song, No Spell, No Madrigal. Gli archi e lo xilofono dell’amara I Don't Give A Fuck About You Anymore anticipano la superba chiosa di The Fading Light,
gemma che coagula in sei minuti la bellezza senza tempo di quella
canzone d’autore che ha in Leonard Cohen il suo nume tutelare.
In And Out Of The Light
non è certo un disco semplice, si tiene lontano dal mainstream, sonda
l’anima, scava a fondo nelle emozioni, evita i luoghi comuni e sceglie
la strada della riflessione che fa male, e che talvolta sfocia nel
pessimismo. Un disco che parla ai romantici, soprattutto, a coloro che
amano crogiolarsi nella propria voluptas dolendi, e raccogliersi in
silenzio, nel cuore della notte, ad aspettare l’alba e quell’ora in cui
un raggio di sole trafigge il buio, che si dissolve. Dentro e fuori la
luce: la speranza, il dolore, i desideri, la perdita, l’attesa della
gioia, il pungolo dei ricordi. In queste nove canzoni c’è tutto quello
che noi siamo soliti chiamare vita.
Dodici
canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno segnato il 2020 e di cui, magari,
ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto
personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe
mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato
durante l'anno.
Dodici
canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno segnato il 2020 e di cui, magari,
ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto
personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe
mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato
durante l'anno.
Dodici
canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno segnato il 2020 e di cui, magari,
ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto
personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe
mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato
durante l'anno.
Dodici
canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno segnato il 2020 e di cui, magari,
ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto
personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe
mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato
durante l'anno.
Nati
dalle ceneri dei leggendari God Machine, intorno alla figura di Robin
Proper-Sheppard, pilastro indiscutibile del progetto, i Sophia si sono
ritagliati in ambito alternative un posto di riguardo e quell’attenzione
alle band di culto, in grado, con indomita coerenza, di sfornare dischi
di grande qualità, anche se per il piacere di pochi intimi.
Merito
del nocchiere Proper-Sheperd, che ha ispirato la sua carriera artistica
a un’integrità invidiabile, seguendo un percorso musicale ben definito,
senza mai tradire il proprio credo, la propria filosofia musicale. Un
artista, capace di stupire per qualità pressoché a ogni uscita (basti
guardarsi un po' alle spalle per accorgersi di come fossero notevoli le
uscite precedenti) ma anche foriero di un suono famigliare, al pari di
altri grandi band (The Apartments, The Slow Show, etc), di cui puoi
quasi intuire tutto, prima ancora di mettere la puntina sul vinile.
Holding
On / Lettting Go è l’ennesimo viaggio nel mondo di Robin
Proper-Sheppard, dove tutto è come dovrebbe essere e soprattutto come
vorremmo che fosse. A partire dalla traccia di apertura, Strange Attractor,
costruita su un lento accumulo e su un sorprendente break di chitarra,
che si discosta dal restante mood del disco, pur mantenendo tratti noti,
che in qualche modo richiamano certe cose dei God Machine.
Fin da subito, l’impressione è che questo sia un disco più ricco di suoni dell’enigmatico predecessore As We Make Our Way (2016), e non è un caso che Proper-Sheppard, oltre al bassista Sander Verstraete
e al batterista Jeff Townsin, che già lo avevano accompagnato in
passato, abbia chiamato a dare un contributo alla causa anche il
chitarrista Jesse Maes, il tastierista Bert Fly e il sassofonista Terry
Edwards.
Arrangiamenti più ricchi, un maggior uso dei sintetizzatori e delle chitarre hanno aggiunto appeal e nerbo a canzoni come Alive, Undone.again, We See You (Taking Aim),
uscite a inizio anno come singoli promozionali (la pubblicazione
dell’album è stata più volte rinviata per i motivi noti a tutti). Una
sequenza di brani di altissima qualità, nessun filler, nessun passo
falso, ma il solito cantautorato pop venato di malinconia, capace di
distillare pozioni in grado di lenire le sofferenze dell’anima: Road Song, un istant classic del songbook Sophia, Avalon, dalle trame slowcore, che librano dolcemente nell’aria, e poi, la sospensione malinconica della citata Alive,
con quel pattern di sax capace di far sanguinare il cuore, suonano
tutte clamorosamente Sophia, tutte clamorosamente struggenti.
Chiude il disco Prog Rock Arp (I Know),
e quell’ipnotico tintinnio di chitarra, capace di aprire l’anima a
vertigini sotterranee, è la chiosa perfetta dell’ennesimo grande disco
di una band, della quale è davvero impossibile fare a meno.
In
circolazione ci sono band straordinarie che non si fila nessuno, che
sono esclusivo patrimonio di un ristretto circolo di appassionati. E’
questo il caso dei britannici Crippled Black Phoenix, ensemble formatasi
a Bristol nel 2004, intorno alla figura di Justin Greaves, chitarrista e
padre padrone del progetto. Un combo vero e proprio, una sorta di
porto di mare, che in sedici anni ha visto decine di musicisti e ospiti
condividere la visione del leader, autore, peraltro, di quasi tutto il
materiale della band.
Nonostante
i contorni instabili entro cui lavora il gruppo, i CBP hanno pubblicato
la bellezza di diciassette dischi ufficiali, tra full lenght, Ep e
live, oltre ad aver autoprodotto e distribuito un numero corposo di
bootleg ufficiali. Di difficile classificazione, la musica del combo
ruota intorno a forti influenze post rock, plasmate però con riferimenti
al post punk ottantiano e a scorci di prog rock e prog metal. Un suono
unico, bizzarro e sperimentale, forse non adatto a tutti i palati, ma
estremamente suggestivo e intrigante.
Ellengaest
(in inglese antico, spirito forte o demonio traditore) viene pubblicato
come Ep, anche se la durata (cinquantasei minuti) supera
abbondantemente il minutaggio medio di un normale full length.
Coadiuvati dal consueto stuolo di ospiti (Vincent Cavanagh degli
Anathema, Kristian ‘Gaahl’ Espedal, l’ex bassista Ryan Patterson, Suzie
Stapleton e Jonathan Hultén dei Tribulation, e Rob Al-Issa al basso), i
CBP (oltre a Greaves, ci sono Belinda Kordic alla voce, Helen Stanley al
piano, tastiere e tromba, Andy Taylor alla chitarra) apparecchiano otto
canzoni (endtime ballads, come piace definirle a Greaves) che
pur inserendosi perfettamente nella narrazione tipica della band,
risultano essere meno sperimentali del solito e decisamente più
accessibili. Nonostante si tratti comunque di un ascolto complesso e
indigeribile ai più, alcuni episodi vestono un abito canzone
oggettivamente più fruibile. City Of Love con il suo arpeggio di chitarra alla Cure e il suo incedere post punk e la conclusiva She’s In Parties,
dalle oscure trame chitarristiche, che richiamano alla mente i Bauhaus,
sono canzoni dritte che arrivano velocemente al traguardo.
Il
resto del disco, invece, comporta un surplus di attenzione, a cagione
della struttura non lineare, dell’ambientazione ossianica e di
arrangiamenti spesso eccentrici e inusitati. Il disco si apre con House Of Fools
ed è subito una bella mazzata: una tromba malinconica introduce una
deflagrante esplosione noise, poi il brano si sviluppa tra vapori
sulfurei, per arrestarsi ammaliato da scenari marziali e cinematici e
quindi, esplodere nuovamente, come da migliore tradizione post rock.
Lost
incede tambureggiante, immersa nell’oscurità maligna di chitarre
riverberate su cui si srotola il cantato ultraterreno della Kordic. In The Night
procede a tentoni in un buio spesso e nero come la pece, la voce
narrante e inquietante di Gaahl, gli intrecci delle chitarre, le sospese
volute oniriche che si aprono ad atmosfere pinkfloydiane spinte
dall’assolo gilmouriano di Greaves.
Everything I Say
è una marcia funebre per pianoforte, batteria e riverberi, che
improvvisamente si attorciglia su se stessa in uno sprofondo a spirale
di elettricità e tenebre. Dopo il breve intermezzo di (-), ecco comparire improvviso un dolcissimo momento di pace (The Invisible Past),
un barbaglio di sole che buca l’oscurità: sono però solo pochi minuti,
perché la quiete evapora inesorabilmente tra le brume sgranate e dolenti
di una mestizia insondabile.
Nonostante,
come si diceva, Ellengaest è probabilmente la prova meno eccentrica e
audace dei CBP, questo disco resta un ascolto complicato, dovuto anche
alla lunghezza media delle canzoni e a uno spleen che lascia davvero
pochissimi spazi alla leggerezza. Chi, tuttavia, avrà voglia di
sperimentare qualcosa di diverso, troverà in queste otto canzoni una
delle esperienze più estreme e suggestive dell’anno. Consigliatissimo.
“Ci aspetta un Natale molto magro, ma le
persone sono un po’ stanche di questa situazione e vorrebbero venirne
fuori. Anche se qualcuno morirà, pazienza”.
Questa “illuminata” riflessione appartiene a
tal Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata che a buon
diritto fa il paio con l’esternazione altrettanto sapiente di una
sedicente maestra di Treviso che durante una lezione aveva invitato gli
alunni a non indossare la mascherina in classe “perché tanto di Covid
muoiono solo i vecchi”. Ebbene, a me non frega una beata cippa se il
confindustriale si è scusato e poi dimesso (la maestrina trevigiana,
invece, è stata al momento sospesa) perché in realtà ciò che sgomenta è
proprio il retropensiero.
È inutile girarci attorno o ammantarsi di
ipocrisia: il comune sentire di certa gente è esattamente questo. Vali
nella misura in cui produci, punto. Del resto, in maniera sprezzante
vari capi di stato si sono più o meno orientati in questa direzione:
Boris Johnson quando all’inizio della pandemia disse, lavandosene le
mani, che molte famiglie avrebbero perso i loro cari o il brasileiro
Bolsonaro quando affermò che “tutti dobbiamo morire prima o poi”, fino
al “nostro” Giovanni Toti che sul presupposto di un principio di
ingegneria sociale bollava gli anziani come non indispensabili.
Ma in
questo caravanserraglio di nefandezze c’è chi propone più vaccini anti
Covid ai lombardi perché “se si ammala un lombardo vale di più rispetto a
uno che abita in un’altra parte di Italia”. Per chi non lo sapesse
l’ideatore di cotanta genialata è, manco a dirlo, un eurodeputato della
Lega. Questa, signori miei, è la cultura dello scarto, una visione della
società fondata sull’usa e getta dove l’homo oeconomicus è il vero
punto cardinale. Non credo ci sia altro da aggiungere difronte
all’evanescenza dei valori e a tanta meschinità umana. Se non che dove
non possono le parole arriva il silenzio.
Cleopatra, lunedì 21/12/2020
P.S. Il Meglio del Peggio vi dà appuntamento a gennaio. Buone Feste!
Se si
pensa alla decade delle acconciature e degli outfit più esagerati, oltre
che dei video musicali più iconici, si pensa agli anni ’80. Questa
decade ha dato vita ai generi musicali più disparati e a nuovi
incredibili stili. È proprio durante questo periodo che Bonnie Tyler si è
affermata a livello globale. Il suo nuovo album The Best Is Yet To Come riparte esattamente da lì, da classici come “Holding Out For A Hero” e “Total Eclipse Of The Heart”.
La first lady del pop/rock Bonnie Tyler
ha alle spalle una notevole carriera lunga 50 anni. Grazie alla sua
voce immediatamente riconoscibile, Bonnie ha fatto la storia della
musica. Con il suo talento unico, ci ha regalato delle hit che hanno
segnato una generazione e ha venduto oltre 100 milioni di dischi. Il
nuovo album sarà preceduto dalla pubblicazione del primo singolo “When The Lights Go Down”, in arrivo il 18 dicembre. In The Best Is Yet To Come, che segue l’acclamato Between The Earth And The Stars, troviamo dodici brani inediti.
The Best Is Yet To Come
presenta il sound “attuale” di Bonnie, che ancora rievoca la passione,
l’energia e il divertimento degli anni d’oro. L’album, su cui ha
lavorato con il produttore di lunga data David Mackay, segue una lunga
serie di lavori di grande successo. Il suo ultimo disco Between The Earth And The Stars,
rifletteva il suo potere stellare e si avvaleva della collaborazione di
artisti come Rod Stewart, Barry Gibb dei Bee Gees, Cliff Richard e
Francis Rossi degli Status Quo. È stato il suo lavoro con la posizione
più alta nella classifica europea negli ultimi 30 anni. In The Best Is Yet To Come, Bonnie prova che non servono degli ospiti per rendere perfetto un album già meraviglioso.
L’artista spiega: “Negli
ultimi 10 mesi, che sono stati lunghi e spaventosi, ho sentito
l’urgenza di tornare a cantare per voi. Mi rendo conto che alcuni hanno
sofferto a causa del virus, che hanno perso famiglia e amici e il mio
cuore soffre per voi. La musica può dare conforto, ed è anche il mio
rifugio ogni volta che sento la necessità di trovarne uno. Spero che
questi nuovi brani possano darvi sollievo. Sono molto felice e
orgogliosa di presentarvi questo nuovo album. Mi regala il sorriso ogni
volta che lo faccio partire. Il momento in cui potrò tornare sul palco e
vedervi sorridere sarà davvero, davvero speciale. È una promessa, il meglio deve ancora arrivare”.
Come suggerisce il titolo dell’album The Best Is Yet To Come, Bonnie Tyler
è inarrestabile. È tornata più forte che mai e, con questo nuovo album
energico e allegro, è pronta a scrollarci di dosso la tristezza del 2020
e a dare inizio alla festa!
Nemmeno il tempo di gustarsi il meritato successo, e John Frusciante, durante il tour di promozione di Blood Sugar Sex Magik,
saluta tutti, chiude la porta e se va. I motivi? Parecchi, a partire
dall’abuso di droghe, che lo portano spesso in overdose, dalla totale
incapacità di gestire la notorietà raggiunta e, non ultimo, dai continui
dissapori con gli altri membri della band, in particolare con Anthony
Kiedis, per la svolta mainstream fortemente voluta dal cantante.
Un
bella mazzata per il gruppo, che si trova a cercare il sostituto di
Frusciante, la cui chitarra aveva contribuito non poco a segnare il
sound dei precedenti dischi. Così, dopo aver fatto un tentativo,
peraltro abortito velocemente, con Jesse Tobias dei Mother Tongue, i Red
Hot Chili Peppers reclutano Dave Navarro, ventiseienne chitarrista
proveniente da disciolti Jane’s Addiction. Una svolta non da poco, dal
momento che con Navarro, che sembra l’esatto opposto di Frusciante, il
suono band assume connotati diversi. Se, infatti, Frusciante è un
chitarrista minimal, che suona con grande pathos pochissime note, il
sostituto, oltra a vantare evidenti e superiori doti tecniche, è
pirotecnico e arrembante, e tiene il piede schiacciato sul pedale wah
wah come se guidasse in Formula Uno.
Così, quando il 12 settembre del 1995, esce One Hot Minute,
sesto album in studio del combo californiano, non è solo il cambio di
line up a colpire, ma soprattutto un suono che differisce, e non poco,
rispetto a quello dei lavori precedenti. Se l’ossatura funk, che è la
matrice più utilizzata dalla band, resta invariata, le tredici canzoni
del disco, però, suonano decisamente più psichedeliche e rock, talvolta
lambendo addirittura i confini del metal. L’album, tuttavia, risulta
meno muscolare del suo predecessore, aprendosi a derive lisergiche e
concentrandosi, nelle liriche, su temi diversi dal solito sesso, come la
droga, la depressione, la morte e la religone.
L’apripista è Warped,
deflagrante incipit e primo singolo estratto, brano che porta le
stigmate della chitarra di Navarro, e che per questo, con un banale
gioco di parole, potrebbe dirsi uscito dalla penna dei Red Hot Chili
Addiction. Ci sono anche un altro paio di singoli che tirano parecchio:
il funky pop di Aeroplane, una sorta di inno cazzaro all’eroina (di cui Kiedis aveva iniziato a fare abbondante uso) e My Friends,
ballata dai tratti psichedelici e malinconici, che si sofferma (in modo
inusuale per una band solitamente scanzonata) sul tema della
solitudine, ammiccando implicitamente all’abbandono di Frusciante e ai
suoi problemi con la droga.
In scaletta, per citare gli highlights, si trovano anche il deragliamento hard della rumorosa Coffe Shop, il funky tossico di Falling Into Grace, e l’omaggio psichedelico (dal finale noise) all’amico River Phoenix, racchiuso nella bellissima e conclusiva Trascending.
One Hot Minute
è un disco ispirato, partorito da una band che è maturata molto e che
con la presenza di Navarro, pur senza togliere nulla alla bravura di
Frusciante, ha ulteriormente alzato il proprio tasso tecnico. Eppure,
nonostante la qualità delle canzoni in scaletta, l’album è generalmente
sottovalutato, stritolato com’è fra il leggendario Blood Sugar Sex Magik e il successivo successo planetario di Californication.
Gli
anni successivi alla pubblicazione del disco (che comunque scala le
classifiche di mezzo mondo, pur senza vendere moltissimo) sono
probabilmente il momento più buio della storia del gruppo. Kiedis è
sempre più dipendente da droga e alcol, si frattura più volte cadendo
dal palco, ha un grave incidente in moto che ne pregiudica la
possibilità di esibirsi dal vivo. E tra lui e Navarro, soprattutto,
volano gli stracci: perché non si sopportano, perché sono entrambi
drogatissimi, e perchè, si sa, è inevitabile che due galli nel pollaio
finiscano, prima o poi, a combattere fra loro.
Così,
nell’aprile del 1998, dopo un’accesissima discussione, Flea e Kiedis
cacciano un inviperito Navarro. La band ha perso ogni stimolo ed è sul
punto disciogliersi. A Flea, però, viene un’idea, che sembra un azzardo,
ma che si rivelerà azzeccatissima: richiamare Frusciante. Il quale,
finalmente disintossicato, sale nuovamente a bordo, giusto in tempo per
contribuire alla stesura di Californication, l’album che nel 1999 regalò alla band un Grammy per Scar Tissue e una valanga di dischi di platino.
Ci
sono canzoni che sgorgano dal cuore, canzoni scritte per lenire un
dolore, per rielaborare un lutto, per mettere un punto fermo su una fase
dell’esistenza. Canzoni intime, personali, che assolvono al compito di
guardarsi dentro e di dialogare con se stessi; canzoni magari
bellissime, ma che riguardano più chi le scrive che chi le ascolta,
perché prive di quella distanza dalla materia che le rende universali,
patrimonio di tutti.
Talvolta,
questi brani sono talmente soggettivi, talmente colmi di riferimenti
personali o di pura sofferenza da essere inconciliabili con le logiche
dello star system. Torna alla mente, ad esempio, Ohio dei
CSN&Y, protest song che raccontava dei morti alla Ken State
University, durante una manifestazione avvenuta il 4 maggio 1970, di cui
Neil Young, qualche anno dopo, affermò di essersi profondamente
vergognato per aver guadagnato soldi sulla pelle di quattro studenti
americani. Il dolore e la militanza politica non sono, non dovrebbero
mai essere in vendita.
E viene in mente, Black, capolavoro dei Pearl Jam e una delle canzoni più amate di Ten,
esordio del quintetto di Seattle, e l’album che, nel 1991, fece breccia
nel cuore della gioventù, riuscendo a fondere le nuove istanze del
grunge con un impianto sonoro classicissimo.
A firma Eddie Vedder e Stone Gossard, Black
è una canzone sull’amor perduto, una ballata dolente che racconta di
una relazione finita male e di un addio che ha lasciato un vuoto
infinito. Non un brano come tanti altri: Black è soprattutto
Vedder che si racconta, che si mette a nudo, che apre il suo cuore a
un’esperienza di vita che l’ha cambiato profondamente, che ripensa con
toni dolci amari a una donna con cui avrebbe voluto condividere il
proprio futuro e che, invece, ora, non c’è più. Le liriche sono chiare,
dirette, pregne di uno struggimento che sembra non avere fine: “So che un giorno avrai una vita bellissima, so che sarai la stella nel cielo di qualcun altro”, canta Vedder nelle battute finali della canzone, “ma perché, perché tutto ciò non può essere, non può essere mio?”.
Ten,
che fu accolto con grande favore dalla critica specializzata, fece
fatica a decollare fra il pubblico, e le vendite, per alcuni mesi,
procedettero a rilento. Poi, all’improvviso, nella seconda metà
dell’anno successivo alla pubblicazione, il mondo si accorse dei Pearl
Jam, e a quasi un anno dall’uscita, Ten entrò nei primi dieci
posti di Billboard. Quello che inizialmente sembrava un mezzo flop, e
che invece nel 1993 aveva superato in termini di vendite persino Nevermind
dei “rivali” Nirvana, spinse la Epic a batter il ferro finchè caldo,
con un intenso battage pubblicitario e la pubblicazione di ben quattro
singoli (Alive, Even Flow, Jeremy e Oceans).
L’idea della casa discografica sarebbe stata quella di pubblicare Black come quinto singolo estratto, ma nonostante le pressioni, Vedder e soci si rifiutarono categoricamente. "Questa canzone”, disse Vedder ai mangaer della Epic, “parla di perdita ed è fatta di emozioni troppo intime…Certe canzoni non sono fatte per diventare dei numeri”.
Insomma,
in quest’ottica, secondo i componenti della band, un video e il lancio
come singolo, avrebbero tolto alla canzone la sua identità, la sua forza
emotiva, il suo senso ultimo, che altro non era, se non una personale
rielaborazione di un grave lutto sentimentale. Una presa di posizione
ostinata e coerente, che non impedì, però, alla canzone di raggiungere
il terzo posto di Billboard Mainstream Rock e di diventare uno dei brani
più amati dai fan dei Pearl Jam.
Chris
Stapleton, songwriter trentasettenne, originario del Kentucky, ma ormai
di stanza a Nashville, ha regalato le proprie canzoni un po’ a tutti. A
Brad Paisley, ad Adele e a Kenny Chesney, Sheryl Crow e Peter Frampton,
tanto per citare i più famosi. Poi, quasi alla soglia dei quarant’anni,
ha preso il coraggio a due mani e ha deciso di esordire con un full
length tutto suo. Traveller, uscito a maggio 2015, ha fatto
entrare Stapleton nelle cronache musicali da protagonista, ma lo ha
anche consegnato alla storia, grazie a una clamorosa prima piazza nelle
classifiche statunitensi e alla vittoria del Grammy per il miglior album
country dell’anno.
Metabolizzata l’abboffata di riconoscimenti e di elogi (Traveller
finì nella top ten di quasi tutte le riviste di genere), Chris
Stapleton ha continuato a lavorare alla propria musica con la stessa
passione di sempre, come se tutto quel clamore non lo riguardasse
minimamente. Nel 2017 escono, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro,
due dischi, intitolati From A Room, Vol. 1 e 2, che pur non
suscitando la sopresa dell’esordio, confermavano il songwriter
originario del Kentucky come uno dei più grandi interpreti del movimento
country rock del nuovo millennio.
Dopo cinque anni da quel primo, bellissimo disco, Stapleton torna sulle scene con questo nuovo Starting Over, un album talmente bello e convincente, da rubare la scena anche al notevole Traveller.
E’ davvero sorprendente come la carriera di Stapleton, iniziata in
ritardo, ma attestatasi subito su livelli di qualità altissimi, sia
stata capace di un nuovo guizzo, di un’ulteriore crescita, come se
l’asticella fosse stata alzata di un buon metro almeno e fosse stata
superata di slancio, con una classe infinita.
In Starting Over,
tutto gira a mille, tutto suona meravigliosamente bene: grandi canzoni,
in cui rock e country convivono sotto un cielo sudista punteggiato di
soul, grandi arrangiamenti e grande suono (Stapleton e Cobb insieme
rappresentano per l’americana sia lo Zeitgeist che lo zenit) e poi,
quella voce, unica, calda, profonda, che riesce a evocare e a
trasportarti nel cuore degli States, anche se sei comodamente seduto sul
divano di casa.
Coadiuvato
dalla consueta backing band (J.T. Cure al basso, Derek Mixon alla
batteria e la moglie Morgane Stapleton alla voce) e da ospiti di nobile
lignaggio (Mike Campbell e Benmont Tench, già sodali di Tom Petty negli
Heartbreakers, e dal polistrumentista Paul Franklin, qui alla steel
guitar), Stapleton allestisce una scaletta di quattordici canzoni tutte
necessarie, definitive, e destinate, nel tempo, a diventare grandi
classici di genere. Un perfetto equilibrio tra forma e sostanza, che non
toglie alla scrittura un grammo di sincerità. Tutto è vero, quasi
fisicamente tangibile: viaggiatori, anche noi, come Stapleton,
attraverso un’America rurale e sudista, di cui sentiamo la terra sotto i
piedi e respiriamo l’aria polverosa e secca, pascendo gli occhi di
sterminati orizzonti.
Un viaggio che inizia con la title track,
appassionata ballata capace di fondere il respiro universale di grandi
spazi aperti al refolo intimista e malinconico del soliloquio interiore,
soffiato appena nelle orecchie grazie un paio di accordi in minore. Un
inizio carico di meraviglia, seguito da Devil Always Made Me Think Twice,
swamp rock alla John Fogerty, scartavetrato dalla chitarra di Campbell e
dalla voce aspra e graffiante di Stapleton (Fogerty viene omaggiato in
scaletta con la cover di Joy Of My Life). Ed è stranissimo,
subito dopo, ritrovarsi in un altro mondo, in cui la struggente melodia
soul di Cold (a chi è venuto in mente Michael Kiwanuka?), guidata dal
piano di Tench e levigata da un suntuoso arrangiamento d’archi,
acchiappa la gola e strapazza il cuore, lasciando in bocca il sapore
agro dolce della malinconia.
Oltre
alla rilettura del brano di Fogerty, ci sono altre due cover prese dal
songbook dell’amico Guy Clark, scomparso quattro anni fa: il travolgente
rock ‘n’ roll di Worry B. Gone e la struggente Old Friends, lenta, dimessa e umida di lacrime.
Impossibile
citare ogni meraviglia del disco, ma meritano un paio di parole ancora
il rockettone ad alto tasso di elettricità della scalpitante Arkansas e la conclusiva Nashville,
ballata spezzacuore che chiude il disco contemplando il tramonto,
mentre intorno libra nell’aria il carezzevole velluto della pedal steel
di Franklin.
E’
difficile mantenere un basso profilo nel raccontare e giudicare un
disco di tale caratura, difficile non farsi prendere la mano e parlare
di capolavoro. Per cui, tacendo quella parola, troppo spesso usata a
sproposito, ci limitiamo a parlare di istant classic e di un disco che
gli amanti del genere premieranno come uno tra i migliori dell’anno,
conservandolo per il futuro tra le poche cose preziose di questo
sventurato 2020.