E’prevista, per il 19 gennaio del 2018, via Rhino Warner, l’uscita nelle
versioni rimasterizzata (un cd), deluxe (cinque cd) ed expanded (due cd)
di Fleetwood Mac, decimo album della band anglo-statunitense,
pubblicato nel 1975. Il disco è stato il primo ha vedere nella line up
la presenza di Stevie Nicks e Lindsay Buckingham. Disco d’oro in
Inghilterra e di platino in Canada e negli Stati Uniti, la scaletta
annovera gemme del calibro di Rhiannon, Monday Morning e Sugar Daddy.
Ali
Handal è una straordinaria musicista che, soprattutto da noi, vive,
però, lontanissima dalle consuete (e consunte) rotte commerciali, pur
avendo un piccolo ma appassionato seguito di fans che stravedono per la
sua voce e la sua chitarra. Alle sue spalle, oltre a un pugno di dischi
di pregevole fattura, ci sono anche collaborazioni prestigiose con Neil
Young, di cui è stata per un certo periodo la backing vocalist, e Paul
Williams, autentica leggenda della canzone americana; inoltre, Ali, ha
anche scritto uno straordinario manuale di tecnica chitarristica e
composizione, dedicato a tutte le donne che hanno intenzione di
intraprendere la carriera di songwriter (Guitar For Girls,
pubblicato dalla Hal Leonard). Le sue canzoni, poi, sono finite nella
colonna sonora di alcune seguitissime serie tv (Sex and the City,
Dawson’s Creek, per citarne un paio) che le hanno permesso di avere un
po’ di quel ritorno mediatico, mancato in altre occasioni. That’s What
She Said è il primo disco pubblicato con la Red Parlor Records ed è il
primo disco in cui la Handal spinge tantissimo sulle sonorità funky, di
cui sono colorate la maggior parte delle canzoni in scaletta, composta
di dodici brani, alcuni dei quali iniziati a scrivere già cinque anni fa
e, successivamente, ritoccati e perfezionati per l’occasione. Gli
elementi più interessanti del disco, tuttavia, sono altri: in primo
luogo, la splendida voce di Ali, potente e ricca di sfumature, e la sua
tecnica alla chitarra, il cui suono pulito e icastico, va subito al
dunque, senza fronzoli e sbrodolamenti, sia quando usa l’elettrica, sia
quando si cimenta con la slide sulla chitarra acustica. Ad
accompagnarla, poi, c’è una band di fenomeni, tra cui Jimmy Paxson alla
batteria (sessionista che ha collaborato un po’ con tutti, da Stanley
Clarke a Steve Vai), Bikki Johnson (altra apprezzatissima sessionista
losangelina) al basso, David Leach alle percussioni e Steve Aguilar alle
tastiere. Il risultato è un disco che, a prescindere dalle canzoni, è
suonato da Dio, tra atmosfere bluesy e jazzate, ballate intense dai
sentori “americani” (la conclusiva Last Lullaby, lenta e
sospesa, è da brividi) e travolgenti groove funky. Un disco che, come si
evince dal titolo, parla di uomini e donne, di rapporti interpersonali e
di amori, attraverso una prospettiva squisitamente femminile, che pesca
nel vissuto di Ali, che sa commuovere e al contempo anche divertire.
Tra gli high lights il funky grassissimo di Everybody’s So Naked,
basso gommoso, drumming pirotecnico e la straordinaria chitarra di Ali a
incollare gli strumenti in un groove irresistibile, il velluto jazzy di
What Is And What Should Never Be, canzone presa in prestito dal secondo album dei Led Zeppelin, e le armonie pop di Enough For Me, in cui la Handal dimostra quanto sia versatile il proprio timbro vocale. Per amanti della sei corde, ma non solo.
Novità
in casa Sub Pop, i Mudhoney hanno annunciato la realizzazione di un
nuovo album nel 2018 (non si conoscono ancora né il titolo né la data
dell’uscita) mentre, il prossimo 19 gennaio, sarà disponibile il live
album LiE, registrato durante il loro tour europeo del 2016.
Oltre ai brani più conosciuti della storica band di Seattle la scaletta
conterrà anche la cover di Edition Of You dei Roxy Music.
La
maggior parte degli artisti incircolazione, dopo aver rilasciato uno
dei migliori album in carriera, si prenderebbe almeno un anno di tempo,
per godersi l’onda lunga del successo e riflettere sul proprio futuro.
Samantha Fish, chitarrista e songwriter originaria di Kansas City, è
evidentemente un’anima inquieta ed è spinta dall’urgenza di una
creatività che pare non darle respiro. Solo otto mesi fa, infatti,
usciva Chills & Fever, album ispiratissimo, divertito compendio di
Memphis soul e Motown R&B suonato con consapevolezza filologica e
piglio da consumata e indomita garage rocker. Il tempo di prendersi gli
applausi del pubblico e della stampa specializzata, ed eccola di nuovo
in sella con un progetto diverso, sia nella forma che nella sostanza, ma
egualmente centrato nel risultato finale. Samantha si affida nuovamente
alle sapienti mani di Luther Dickinson (il frontman dei North
Mississippi Allstars aveva già prodotto Wild Heart del 2015), si chiude
negli Zebra Ranch studios nelle North Hills del Mississippi e chiama
alla sua corte un pugno di straordinari musicisti locali, quali la
violinista e cantante Lillie Mae, il chitarrista Jimbo Mathus, frontman
degli Squirrel Nut Zippers, il bluesman Lightin’ Malcom, la bassista e
cantante Amy LaVere e Shardè Thomas, flautista e pronipote del grande
bluesman Otha Turner. Con questo parterre de roi, la Fish appronta una
scaletta di undici brani che catturano lo spirito e la spontaneità del
Mississippi Sound. Un disco prevalentemente (ma non esclusivamente)
acustico, in cui confluiscono blues, gospel e country, amalgamati
attraverso la genuinità dell’America rurale e l’occhio vigile di una
ragazza moderna che conosce la propria storia e custodisce con amore le
tradizioni. Basta ascoltare l’apertura della politicizzata American Dream (Hand On The Bible, Foot On Your Neck
è un verso che racconta l’America di Trump meglio di un saggio) per
capire quanto profondo sia il lavoro filologico messo in piedi dalla
Fish: blues che odora di campagna e di fiume, cadenza quasi militaresca e
il piffero uncinante con cui Shardè Thomas duetta con violino di Lillie
Mae. Un pezzo stratosferico che torna a far brillare di modernità un
suono antichissimo. La Fish ha messo da parte la sua chitarra elettrica e
i suoi viscerali assoli per abbracciare il suono del territorio, ma non
ha perso un briciolo né di passione né di potenza. Impossibile, allora,
non essere travolti dalla piena di Cowtown, funky blues che gira dalle parti dei North Mississippi Allstars, o dal beat inesorabile di Poor Black Mattie,
bluesaccio assassino preso in prestito dal repertorio di R.L. Burnside e
cantato in duetto con Lightnin’ Malcom. La Fish, però, sa anche toccare
le corde del cuore, inanellando tre ballate al limitare della notte:
gli struggimenti d’amore raccontati in Nearing Home, cantata in duetto con Lillie Mae, il malinconico dark swamp di Daughters, quadro a tinte fosche di disperazione famigliare, e il passo spettrale di Don’t Say You Love Me, canzone disturbata dall’ossessionante violino della Mae. Da citare, poi, anche il country millesimato della title track,
a dimostrazione di quanto sia versatile il songwriter di Samantha Fish,
un’artista che in un anno ha piazzato un uno-due da k.o., dimostrando
di aver avuto la forza di uscire dai confini di genere (rock blues)
entro i quali si muoveva a inizio carriera, e grazie a passione,
entusiasmo ed energia giovanile, aver liberato una creatività che, è più
una certezza che un auspicio, la può portare ovunque.
"Tra Berlusconi e Di Maio, voterei
Berlusconi" (Eugenio Scalfari).
Eugenio Scalfari, venerabile fondatore del quotidiano
Repubblica, ha ammesso senza tante perifrasi di preferire l'ex Cavaliere a
Luigi Di Maio. Un endorsement in piena regola che ha il retrogusto (amaro) di
un colpo di spugna a vent'anni di leggi ad personam, conflitti di interessi e
di condotte inadeguate alle istituzioni. Come era prevedibile, l'affermazione
ha suscitato non pochi malumori e polemiche su vasta scala, tanto che Sua
Eminenza Eugenio è dovuto correre ai ripari per ridimensionare la dirompenza
della boutade. Peccato che il buco pare peggio della toppa. "Cari
lettori, non cadete nell'inganno di chi sfrutta una domanda paradossale per
sostenere che avrei cambiato posizione su Berlusconi: non l'ho mai votato e
ovviamente non lo voterò mai". Misunderstanding o no, Silvietto, come
in un racconto dei fratelli Grimm, da ranocchio si è trasformato in principe,
mentre Eugenio Scalfari, dapprima (finto) oppositore del sultano di Arcore,
pare avere cambiato maschera come Vitangelo Moscarda, il protagonista del
romanzo di Luigi Pirandello, "Uno, nessuno e centomila". Scalfari
rappresenta tutti quegli italiani dalla memoria corta che, come Moscarda,
indossano centomila maschere, una per ogni circostanza e secondo la
convenienza, vivendo la follia come unica via di scampo dalla paradossalità
della vita. Ma la situazione politica italiana non è un romanzo. Un paradosso,
sì. E se si arriva a pensare che scegliere Berlusconi rappresenti il male
minore, significa avere ineluttabilmente abdicato alla morale.
La rock folk singer songwriter Brandi Carlali ha pubblicato il video di The Joke,
il primo singolo tratto dal suo nuovo album, By The Way, I Forgive You,
la cui uscita è prevista per il 16 febbraio del 2018. Il disco sarà
pubblicato dall’etichetta New Elektra e sarà prodotto da una coppia
d’assi, quali Dave Cobb e Shooter Jennings. Il singolo, che potete
ascoltare qui sotto è uno strabiliante esempio delle doti vocali di
Brandi, una delle voce più belle dell’americana in quota rosa.
Leggere
il resoconto di ciò che avvenne il 6 dicembre 1969 all’Altamont Raceway
Park è più o meno come leggere un bollettino di guerra. Già, perché
quella frase che gli americani usano per indicare il 3 febbraio del 1959
(The Day That Rock Die), data di morte di Buddy Holly, The Big
Bopper e Ritchie Valens, il cui aereo si schiantò a Mason City, nello
Iowa, può tranquillamente essere riadattata al giorno del free concert
californiano fortemente voluto dai Rolling Stones. Ad Altamont, il
rock, così come lo si conosceva, muore colpito alle spalle dai fendenti
che massacrarono il corpo dello sfortunato Meredith Hunter. E’ la fine
di un’epoca, il sogno di un mondo migliore si trasforma in un incubo, la
summer of love che aveva animato la gioventù americana e che
aveva trovato la sua espressione zenitale, qualche mese prima, a
Woodstock, si infrange contro l’insulsa mattanza perpetrata
selvaggiamente dagli Hells Angels. Se pochi mesi prima, nelle campagne
vicino a Bethel, si era celebrato il rituale di una musica che prendeva
per mano i giovani americani, raccontandogli una favola di fratellanza,
comunione e amore, quella stessa gioventù, ad Altamont, si trova a fare i
conti con la disillusione e lo sgretolamento degli ideali “peace and love”,
che in quell’autodromo vennero stritolati in un’esiziale morsa di
violenza. Il rock perse la sua purezza e la sua verginità in nome delle
logiche dello star system, aprendo un decennio, quello degli anni ’70,
in cui l’immediatezza, la visione e i fermenti avanguardistici vennero
azzerati dalle ferree regole dello showbiz: quel movimento, grezzo e
sincero, quel rock che avrebbe dovuto cambiare il mondo, si inginocchia,
invece, davanti a Dio Denaro e a una concezione in cui la musica
rappresenta solo uno degli ingranaggi della macchina spettacolo (grandi
produzioni sul palco, materiali scenici, coreografie, l’intrattenimento
che prende il posto del contenuto). Sono queste, almeno in parte, le
logiche che produssero l’evento più sgangherato e funesto della storia
(in seguito, ci saranno altri concerti disastrosi e altri morti, certo,
ma mai provocati da tanta imbarazzante stupidità). Trecentomila persone
mandate al macello, senza adeguati supporti logistici e medici, con
l’unico argine della security data in mano agli Hells Angels, gang
incontrollabile di teppisti, picchiatori e tossici. Selvin racconta
scrupolosamente cosa accadde quel 6 dicembre, sul palco e tra la folla,
ripercorre le tappe che portarono al brutale omicidio di Meredith
Hunter, e inchioda i responsabili dell’evento (Rolling Stones in primis)
alla demenzialità della location scelta e all’insussistenza delle più
ovvie misure di sicurezza. C’è dell’altro, però, che rende questa
lettura indispensabile per tutti gli appassionati di musica. Selvin,
infatti, ricostruisce con dovizia di particolari la San Francisco del
tempo, il movimento hippy e il suo progressivo indebolimento, entrando a
curiosare anche a casa Grateful Dead, band che rappresentava al meglio
gli umori della città e i fermenti dell’epoca. Non solo. La precisa
ricostruzione di Selvin mette in discussione uno dei capisaldi della
cinematografia musicale, e cioè quel Gimme Shelter girato dai
fratelli Maysles e fortemente voluto da Mike Jagger, il cui montaggio
finale, più che per raccontare la verità dei fatti, ebbe semmai intenti
agiografici nei confronti dei Rolling Stones. Già, i Rolling Stones. Il
resoconto di Selvin sulla band capitanata da Jagger e Richards è
impietoso: avidi e senza scrupoli, animati solo da brama di gloria e di
denaro, inconsapevoli della realtà circostante, compressi nel mondo
dorato delle loro vita da rockstar, sono loro i principali responsabili
del disastro. Perché accettarono una location inadatta solo allo scopo
di replicare la marea umana di Woodstock, perché continuarono a suonare
nonostante gli orrori perpetrati dagli Hells Angels, e perché se ne
infischiarono bellamente di quelle trecentomila persone, accalcate una
sull’altra, in balia di una security di picchiatori di professione, e
stravolte da quantitativi industriali di pessimo LSD e di vino anche
peggiore. C’è poi quel palco troppo basso, tenuto insieme
(letteralmente!) con lo spago e quell’elicottero che, forse, avrebbe
potuto salvare la vita a Meredith Hunter, ma che i Rolling Stones si
guardarono bene dal concedere, per poter poi, a fine concerto, evacuare
in sicurezza la folle location. Un libro consigliatissimo per tutti
coloro che vogliono fare definitiva chiarezza su una delle pagine più
oscure e imbarazzanti della carriera di Mike Jagger e soci.
Dietro
il progetto musicale White Buffalo si cela l’irsuto Jake Smith,
songwriter originario dell’Oregon e uno fra i più interessanti artisti
della sua generazione. Il nome del gruppo, che rimanda al bisonte
bianco, animale sacro per i nativi americani, esplicita in modo chiaro
che la musica di Smith trova radici profonde nel tipico suono americano,
rivisitato attraverso una sapiente mescolanza di country, blues e rock.
In circolazione dal 2002, tre Ep e cinque album in studio già
all’attivo, i White Buffalo hanno acquisito in patria una certa
notorietà, non solo per gli innumerevoli concerti che li hanno portati
in ogni angolo degli Stati Uniti, ma anche perché alcuni loro brani sono
finiti nella colonna sonora della seguitissima serie televisiva, Sons
Of Anarchy. Giunto nel pieno della maturità artistica, Smith ha ormai
perfezionato un suono e un linguaggio, in cui la ruggine americana che
ossida le sue storie di vite ai margini, di amori finiti, di perdizione e
riscatto, trova forza espressiva in un mood altalenante fra barbagli di
speranza e crepuscolari malinconie, tra sciabolate elettriche ed
evocative ballate col cuore in mano. Se Shadows, Greys And Evil Ways
(2013) si muoveva attraverso le cupe trame di un concept sul ritorno a
casa di un reduce di guerra e il successivo Love And The Death Of
Damnation (2015) suonava più vario ed equilibrato nell’alternarsi fra
chiaro e scuri, questo nuovo Darkest Dark, Lightest Light trova il punto
di fusione fra i due dischi citati, consolidando una scrittura senza
cedimenti e ribadendo quella sincerità di fondo che da sempre
contraddistingue i dischi del barbuto chitarrista. La cui voce, è questo
un altro elemento distintivo dei White Buffalo, possiede un timbro
profondo e “vedderiano”, che emerge soprattutto nelle splendide
ballate che punteggiano la scaletta. Momenti appassionati, acustici,
riflessivi che ricordano le grandi ballads portate al successo dai Pearl
Jam: il soliloquio bucolico di The Observatory, l’epica della
sconfitta, sussurrata in If I Lost My Eyes, la dolcezza sfumata negli
archi e nell’arpeggio di I Am The Moon sono esempi di una scrittura che
sa toccare le corde del cuore, mantenendo, però, dritta la barra delle
emozioni. A questi episodi, figli di un romanticismo dimesso e arreso,
fanno da contraltare canzoni sanguigne e potenti, che navigano fra le
limacciose acque del blues (Robbery), che viaggiano su decapottabili nel
cuore della notte, citando Tom Petty con retro gusto eighties (The
Heart And The Soul Of The Night), che vibrano sul filo dell’alta
tensione di un cow punk dal ghigno mefistofelico. Un disco dagli umori
altalenanti, convincente sia quanto pompa decibel e alza il livello di
drammaticità, sia quando si comprime nella distanza che separa la voce
di Smith dal suo cuore. Ispirato e coinvolgente.
Quando
nel 2013 uscì Wild Child, album d’esordio del chitarrista texano, in
molti, a proposito di Tyler Bryant, usarono l’appellativo di enfant prodige
della scena rock blues americana, e si sperticarono in elogi e paragoni
ingombranti con fuoriclasse della sei corde, che avevano già scritto
pagine importanti del genere. Il ragazzo, d’altra parte, aveva avuto
modo di condividere il palco con pezzi da novanta quali Eric Clapton,
B.B. King e Jeff Beck; e poi, c’era quel disco, primo sulla lunga
distanza, dopo un Ep pubblicato nel 2011, che deponeva a favore di un
radioso futuro. Wild Child, infatti, pur citando l’opera omnia che
costituiva il retroterra formativo del ragazzo (Aereosmith, Lynyrd
Skynyrd, Guns n’ Roses, Ac/Dc), assemblava un lotto di canzoni impetuoso
e brillante, suonato col ringhio sudato dei vent’anni. Tuttavia, a
parte l’inevitabile passatismo e qualche concessione al mainstream, in
alcune canzoni, oltre a un corposo bagaglio tecnico, si intravvedevano
doti compositive molto interessanti. Tanto che, veniva da pensare, il
ragazzo si farà, è solo questione di tempo. Oggi, di tempo ne è passato
parecchio, e dopo quattro anni, intervallati da un Ep uscito nel 2015
(The Wayside), Bryant si ripresenta nel medesimo punto in cui l’avevamo
lasciato. Questo sophomore, che porta il nome del chitarrista e della
band che lo accompagna (tra le cui fila milita Graham Whitford, figlio
di Brad, chitarrista degli Aerosmith), è, infatti, l’esatta fotocopia
del suo predecessore e ne replica pedissequamente i pregi e i difetti.
Da un lato, la band pare rodatissima e la chitarra di Tyler fa il suo
dovere, evitando di eccedere in virtuosismi; l’entusiasmo della
gioventù, poi, lo si coglie nella potenza di un suono diretto,
primordiale e senza fronzoli. Tuttavia, a livello compositivo, non c’è
proprio nulla che non si sia già sentito centinaia di volte: blues
elettrico, vampate hard, ammiccamenti al southern, qualche luccichio
sleaze e glam e, talvolta, una strizzatina d’occhio a quel sound
radiofonico, che è il combustibile indispensabile per viaggiare verso i
piani alti delle charts. Insomma, al disco manca quel briciolo di
originalità che consentirebbe a una band, altrimenti grintosa e
preparata, di fare il vero salto di qualità. In realtà, non c’è nulla
che non vada negli undici brani in scaletta, e alcuni episodi, come la
ballata psych rock di Magnetic Field o l’omaggio ai Guns contenuto in Weak And Weepin
sono numeri di grande effetto. Bryant, però, non è ancora riuscito a
crearsi uno stile, a innescare una visione, ad azzardare quello scarto
laterale che gli consentirebbe di smarcarsi dagli stereotipi di genere.
Il risultato è, quindi, un disco piacevole, senza infamia e senza lode.
Il ragazzo è giovane, però, e, forse, si farà.
Uscirà
il 24 novembre, via Leroy Records, il nuovo album di Southside Johnny.
Il disco, registrato in due giorni nel gennaio del 2017 si intitolerà
Detour Ahead: The Music Of Billie Holiday, e come si evince dal titolo
conterrà il personale tributo del rocker del New Jersey alla grande
cantante jazz di Filadelfia. Arrangiato, prodotto e mixato da John
Isley, sassofonista degli Asbury Jukes, il disco conterrà dieci canzoni
prese dal songbook di Lady Day, alcune famosissime (Lover Man, Don’t
Explain), altre, invece, decisamente meno note.
Erano
anni difficili quelli governati dall’esecutivo della signora Thatcher,
anni in cui l’Inghilterra masticava il frutto amaro di politiche di
austerity, che aggredivano i ceti più deboli senza alcuna pietà. Tra gli
artisti che si opponevano alla macelleria sociale del primo ministro
inglese, c’era Billy Bragg, un Woody Guthrie di terra d’Albione che
cantava la propria rabbia contro ogni forma di fascismo e di
prevaricazione. Una militanza, la sua, che non si limitava, però, solo a
belle canzoni di protesta vestite di folk-punk. Bragg ci metteva anche
la faccia, in senso letterale: stava sulle barricate, si faceva
arrestare e prendeva manganellate. Impossibile allora non amarlo,
soprattutto se, a quei tempi, avevi vent’anni, stavi a sinistra e ti era
capitato per le mani un disco favoloso come Talkin’ With The Taxman
About Poetry (1986), zeppo di canzoni da far ribollire il sangue nelle
vene, canzoni che ti scuotevano con la forza di testi diretti, sinceri,
passionari. Oggi, Billy Bragg ha quasi sessant’anni (li compirà il 20
dicembre), si è lasciato alle spalle un’ottima discografia (vado a
memoria, ma non mi ricordo un disco che non fosse ispirato) e
collaborazioni importanti con i Wilco e Joe Henry, ma non è retrocesso
di un passo da quella barricata, sulla quale resta orgogliosamente in
piedi. Illuso, forse, ma ancora combattivo e gagliardamente ancorato a
quei valori marxisti ai quali ha dedicato una vita intera. Bridges Not
Wall, Ep di sei canzoni uscito a inizio novembre via Cooking Vynil,
conferma che Billy non ha smesso di crederci e continua a veicolare
profonde riflessioni in un mondo dove tutti sembrano più preoccupati di
aggiornare la propria pagina facebook invece del proprio bagaglio etico.
Dopo il malinconico e introspettivo Tooth & Nail (2013), disco reso
amaro dalla sofferta perdita del padre, e il successivo Shine a Lights
(2016), in cui, con l’amico Joe Henry, Billy ripercorreva gli snodi
ferroviari del roots a stelle e strisce, il songwriter di Barking torna a
schierarsi dalla parte dei più deboli, ad attaccare il potere
costituito dal capitalismo più sconsiderato, a criticare aspramente il
nuovo corso della politica americana e britannica (Trump e la Brexit nel
mirino), a riflettere su come rendere il nostro mondo migliore e a
spronare la gioventù a cercare una strada diversa, lontano dalla mendace
realtà di uno smartphone. Ponti, non muri: tornare a parlarci, quindi,
accogliere il diverso, riconsiderare la lista delle nostre priorità.
Bragg è uno degli ultimi attivisti, un combattente ideologico che, per
quanto la battaglia sia irrimediabilmente persa, continua nella sua
chiamata alle “armi” con messaggi di speranza, di impegno, di
fratellanza. Solo sei canzoni in scaletta, una distanza breve, certo, ma
densa di contenuti, diretta, civile e necessaria come un film di Ken
Loach (e il pensiero, durante l’ascolto, torna più volte a quel film
straordinario che è I, Daniel Blake). Bragg media fra il suono american oriented delle ballate misurate e dolenti che costellavano Tooth & Nail (King Tide & The Sunny Day Food)
e quel folk scartavetrato dal punk di una sei corde distorta e
icastica, che rappresenta il marchio di fabbrica dei suoi anni giovanili
(Why We Build The Wall). Due le canzoni che ci porteremo a lungo nel cuore: Saffiyah Smiles,
morbida ballata dedicata a Saffiyah Khan, la ragazzina di Birmingham
immortalata mentre sorride in faccia a un nazista durante una
manifestazione dell’EDL, e Not Everything That Counts Can Be Counted (andnot everything that can be counted counts)
che racchiude in una melodia pressoché perfetta la summa del pensiero
che anima Bridges Not Walls. Disco imprescindibile per chi ancora ci
crede. Che Dio (e Marx) abbiano in gloria Billy Bragg, il più vero tra
tutti quelli che ci hanno messo la faccia.
Pierre de
Coubertin si sarà rivoltato nella tomba, e non tanto perchè l'italia non abbia
vinto contro i marcantoni nordici, quanto piuttosto per non avere partecipato.
La nostra Nazionale non c'è più: siamo esclusi pure dai Mondiali di calcio. Non
accadeva da 60 anni e qualcuno potrebbe obiettare che sono cose della vita. Del
resto, c'è sempre una prima volta, ma è una prima volta che fa male per noi,
non più teen-ager, cresciuti nel ricordo di quel grido a squarciagola di Nando
Martellini: "Campioni del mondo, campioni del mondo" in un Santiago
Bernabeu luccicante come le nostre lacrime di gioia. Era la magica estate del
1982 e sembra passato un secolo. Di quella Italia sana, umile e fiera ci
restano solo dei ricordi sfocati. Non ci sono più i Bearzot (il mitico
"Vecio"), i Rossi, i Cabrini, i Tardelli, i Gentile, i Causio, gli
Zoff e tutti gli altri idoli di uno sport che era, e rimane ancora, il più
bello del mondo. Oggi, pare di ritrovarsi a leggere i titoli di coda di un
melodramma. La Nazionale non è che una rappresentazione sbiadita di un'Italia
svogliata e disamorata della propria maglia. Ma c'è di più ed è legato non solo
al modo di interpretare lo sport ma di quanto siano in crisi i valori della
società stessa. Lo sport dovrebbe essere una fucina di emozioni da vivere sia
come dimensione personale che collettiva e invece assistiamo sempre più spesso
all'imbecillità di chi osa fischiare l'inno degli avversari o di chi scivola in
odiosi razzismi. Oggi, ci ritroviamo con un calcio dominato dalle cordate
finanziarie, perlopiù straniere, e da politiche low cost in cui la
realizzazione del profitto e della plusvalenza prevalgono sui vivai e sui
giovani talenti. Che il futuro presidente si chiami ancora Tavecchio, conta
fino a un certo punto. Potrà arrivare chiunque, ma se il gattopardismo la farà
ancora da padrone, non ci resta che vivere di ricordi.