“L’orgoglio è qualcosa di volubile ed è di solito fuori luogo. È come essere rollati e poi fumati.”
Capeggiati
dal texano Danny Lee Blackwell, i Night Beats sono in dirittura
d’arrivo col loro quarto album. Per quanto il leader si sia sempre
nutrito dell’eredità musicale delle sue radici texane – Roky Erickson e i
13th Floor Elevators, The Red Krayola, The Black Angels e altri ancora
che hanno aperto la strada ai viaggi psych-rock rivestiti di napalm
degli album precedenti – Myth Of A Man lo ha tirato fuori dalla
fonte surrogata di Nashville, Tennessee. È qui che Blackwell ha
lavorato con Dan Auerbach (The Black Keys) e una congrega micidiale di
musicisti – il peso combinato dell’esperienza che deriva dal lavorare
con le leggende, da Aretha Franklin a Elvis. “Ho provato una grande
umiltà nell’essere accettato,” spiega “da questi grandi cuori
tutt’intorno.”
In breve, è un album che può stare accanto ai classici, meno acido di Sonic Bloom (2013) e Who Sold My Generation
(2016). Blackwell ha ricalibrato la scrittura, l’ha rallentata a
sufficienza per permettere alle canzoni di respirare ed esistere come
qualcosa di nuovo. È un capitolo diverso dello stesso libro.
Scritto
durante un periodo particolarmente distruttivo della band, l’album è
popolato da angeli caduti, vagabondi succhiasangue e amanti vendicativi –
schizzi di persone in cui la band è sicuramente incappata durante il
suo viaggio cosmico – ma il personaggio più presente è lo stesso
Blackwell. “Myth Of A Man può essere riassunto come
un’ostentazione personale di vulnerabilità e coscienza colpevole,”
spiega, “che distrugge il mito di ciò che significa vivere e funzionare
nella società.” Con i suoi audaci passi avanti Myth Of A Man
funge da nuova introduzione alla band per come la conosciamo, la prova
più evidente che nessuno sarà mai in grado di incasellare i Night Beats.
Difficile
fare musica ed essere credibile quando si indossa un cognome come
quello di Cash. Nascere all’ombra di cotanto padre e vivere nel continuo
paragone con la sua leggenda, è sicuramente stato d’aiuto a Rosanne per
affacciarsi allo star system e ritagliarsi un importante fetta di
pubblico e di visibilità; alla lunga, però, una così rilevante
parentela, qualche problema lo crea.
Non
è un caso, quindi, che la figlia di Johnny Cash, dopo gli inizi votati
alla musica country, nel nuovo millennio si sia progressivamente
staccata dalla tradizione famigliare, per intraprendere una seconda
parte di carriera votata al verbo dell’Americana. Una nuova vita
artistica, dunque, culminata quattro anni fa con lo splendido The River & The Thread,
un'opera al contempo musicale e letteraria, che come le anse di un
fiume o il dipanarsi di un filo di lana, ricongiungeva luoghi storici
del profondo sud degli States, dalla Lousiana al Tennesse, dalla Georgia
all'Alabama, ponendo al centro della narrazione le tradizioni, i
profumi e i luoghi della memoria, dai campi di battaglia ai cimiteri,
dagli studi della Sun Record in Memphis alla tomba di Robert Johnson,
fino alla cittadina di New Albany, nel Mississippi, dove nacque il Nobel
William Faulkner.
She Remembers Everything
sposta il baricentro delle liriche su temi maggiormente intimi e
personali, anche se da un punto di vista musicale la sostanza non
cambia, a partire dalla collaborazione in fase di produzione di John
Leventhal (coadiuvato da Tucker Martine), marito della Cash, e dalla
presenza di ospiti d’eccezione, quali Kris Kristofferson (già presente
nel precedente lavoro) ed Elvis Costello.
Americana,
dunque, e ballate agrodolci, morbide, rilassate, appena punteggiate da
qualche momento leggermente più elettrico, che fanno di questo She Remembers Everything
un disco forse prevedibile, perché relegato in quella comfort zone a
cui Rosanne ci ha ormai abituati, ma a tratti decisamente emozionante.
La
classe, come si dice, non è acqua e la Cash ne ha da vendere, sia
quando sfiora il cielo al crepuscolo con i vapori malinconici di The Only Thing Worth Fighting (superbo il lavoro alla chitarra di Tim Young), o si raccoglie nel ricordo nostalgico dei genitori nella struggente Everyone But Me, o accelera il passo nella rockeggiante 8 Gods Of Harlem, in duetto con Kris Kristofferson ed Elvis Costello.
Tutto
come da copione e tanto mestiere, certo, ma anche la conferma di una
straordinaria musicista, che ha saputo trovare lo scarto necessario per
spossessarsi del proprio ingombrante passato, e intraprendere una strada
parallela, percorsa sempre con stile e passione.
Sono
passati quasi cinquant'anni dalla pubblicazione di Aqualung, quarto
album in studio e vero e proprio best seller per la band capitanata da
Ian Anderson. Per celebrare adeguatamente l'anniversario, la Rhino
Records pubblicherà un deluxe edition in vinile che vedrà le stampe il
30 di novembre. Il packaging conterrà un booklet di 24 pagine, mentre la
versione del disco è quella remixata nel 2011 da Steven Wilson.
Solitamente,
viene abbastanza spontaneo leggere New Orleans e pronunciare jazz.
Tuttavia, i The Revivalists, pur essendo originari della città più
famosa della Lousiana e nonostante gli otto elementi che compongono il
combo, sono lontanissimi dall’essere una brass band. La loro, semmai, è
una musica che, pur ereditando dal Sud un’inflessione decisamente soul,
sta in bilico sul confine fra rock (non molto) e pop (tantissimo).
Formatisi
nel 2007 e composti da Ed Williams (pedal steel guitar, chitarra),
David Shaw (voce), Zack Feinberg (chitarra), Rob Ingraham (sassofono),
George Gekas (basso), Andrew Campanelli (batteria), and Michael Girardot
(tastiere e tromba), i The Revivalists sono arrivati oggi a pubblicare
il loro quarto album, che corona una carriera in crescendo in termini di
vendite e di ascolti (il loro penultimo Men Amongst Mountains ha ottenuto più di due milioni di ascolti su Spotify ed arrivato nella top five di Billboard Heatseekers).
Per
questo nuovo lavoro, la band non ha badato a spese, e ha fatto le cose
veramente in grande. Il disco, infatti, è stato registrato presso i
mitici RCA Studios di Nashville e il gruppo si è avvalso del contributo
di tre grandi produttori: il Re Mida del suono americano, Dave Cobb,
Andrew Dawson (già al lavoro con Kanye West) e Dave Bassett (Elle King,
Vance Joy). Una formula collaudata in mano a tre fuoriclasse come quelli
citati non poteva che produrre un ottimo risultato, visto che Take Good Care ha iniziato a scalare le classifiche statunitensi e il primo singolo, All My Friends, è balzato alla prima piazza delle charts radiofoniche di Billboard.
Ed
è questa, in fin dei conti, la vera essenza di un album che nasce
proprio confezionato per le radio e per un pubblico più aduso a sonorità
mainstream. Così, l’impatto per chi pensa di trovarsi di fronte a un
disco di alternative rock (questa l’etichetta con cui vengono
generalmente catalogati i The Revivalists) non sarà certo dei migliori: Take Good Care,
infatti, è un disco di pop, leggero e accattivante, prodotto con
moderna eleganza, ma privo completamente di quello spessore che lo
renderebbe un prodotto fruibile per chi ama canzoni in cui la sostanza
prevale sulla forma. Non fraintendetemi, non sto scrivendo di un disco
di merda, ma di un lavoro, per quanto divertente, che viene buono
ascoltare solo nei momenti votati al totale disimpegno. Quindici brani,
per circa un’ora di musica, che puntano tutto sul refrain orecchiabile,
impastando la materia pop con la farina (molto raffinata) della black
music.
Se un paio di canzoni (Oh No e Future)
sfoggiano chitarroni distorti e un’inclinazione molto power, che si
scosta dal mood prevalente della scaletta, riuscendo a conquistarsi il
podio delle cose migliori, il resto del disco, però, non supera un
accettabile standard di prevedibile e innocua piacevolezza. Gli echi
gospel dell’iniziale Otherside Of Paradise, che avvolgono un
morbidissimo arpeggio di chitarra, danno la misura di una proposta che
non riesce quasi mai a superare lo steccato radio friendly. Mood,
questo, confermato nel singolone All My Friends, già citato, vestito di modernissimo r’n’b’, in Change, che si poggia su una vaga struttura funky, o in When I’m With You in cui la derivazione da un suono sixties è abbondantemente annacquata da una melodia ruffiana e furbetta.
Take Good Care,
in definitiva, possiede una veste formale ineccepibile e raccoglie un
filotto di potenziali hit, che suonano divertenti ma non lasciano il
segno. La musica è anche divertimento e leggerezza, per carità, e tra
l’altro, i The Revivalists hanno almeno il merito di non sbracare mai
nel pacchiano o nel tamarro. Se, invece, cercate impegno, passione o
originalità, meglio soprassedere e guardare altrove.
Matteo (Renzi) non
c'è, è andato via. Via dal congresso del Pd che chiuderà i battenti con le
primarie per la scelta del nuovo segretario. Sono in lizza nomi altisonanti del
calibro di Nicola Zingaretti, Marco Minniti e l'uscente Maurizio Martina. Ai
favoriti per l'investitura si aggiunge il resto del mondo come i Boccia, i
Richetti, senza escludere qualche outsider dell'ultima ora. La partita e'
durissima, c'è in gioco il destino di un partito ormai liquefatto "orfano"
di Renzi.
Lui, il senatore
semplice di Scandicci, intanto se n'è ghiuto e soli ci ha lasciato. Da
primadonna della ribalta ora si cimenta in nuove esperienze, perlopiu'
televisive. Tanto per tenere in esercizio il suo ego ipertrofico, il nostro
Matteone ricomincia non da tre, ma da Nove. Alberto Angela ha un nuovo
competitor: L'ex premier debutta a dicembre in tv in veste di documentarista
sul canale Nove.
La sua ultima
fatica si intitola "Florence", un docufilm in 8 puntate dedicato alla
città di cui è stato sindaco. Il nostro one man show ci delizierà sulle
bellezze artistiche del capoluogo toscano con il piglio e la saccenza che lo
contraddistingue. "La bellezza salverà il mondo, io ci credo
davvero", scrive su Facebook. Noi, invece, ci appelliamo alla bellezza
con la speranza che ci possa salvare da Renzi, ma a quanto pare l'impresa è
assai ardua e non ci crediamo affatto.
Prodotto dallo stesso Yorkston e da David Wrench, è il primo disco solista di James da Cellardyke Recording and Wassailing Society (CRAWS)
2014 e segue i due album-collaborazione che ha realizzato come
Yorkston/Thorne/Khan e la pubblicazione del suo romanzo d’esordio “The
Craw” nel 2016. Assieme all’annuncio, James ha condiviso il nuovo brano
“My Mouth Ain’t No Bible”, uno dei tre elettrizzanti spoken-word del
disco.
The Route To The Harmonium
è stato registrato quasi interamente da Yorkston nel piccolo villaggio
di pescatori di Cellardyke, in Scozia, dove vive. Il suo home studio è
un vecchio loft sgangherato, utilizzato un tempo per riparare le reti
dei pescatori, e ora pieno di strumenti antichi che James ha
collezionato durante la sua vita. Avendo creato ore ed ore di
registrazioni, James ha chiamato il suo vecchio collaboratore David
Wrench – che ha lavorato con artisti del calibro di Caribou, Four Tet,
Frank Ocean, FKA Twigs e David Byrne – per aiutarlo a dare un senso a
tutto quel materiale.
Ne
è uscito un album intensamente personale; è il suono di casa,
dell’artigianato indisturbato. Se ascoltate attentamente, potete
immaginarvi James mentre lo costruisce. Sovrapponendo le tracce di voce e
di chitarra, aggiungendo dettagli con Dulcitones, armonium e autoharp, e
con la nyckelharpa, strumento a corde tradizionale svedese regalatogli
da un amico. E sono proprio gli amici e la famiglia, il passato e il
presente, che nuotano in queste canzoni. Ricordarli, assieme a coloro
con cui hai condiviso la vita, quelli che se ne vanno e quelli che
rimangono, è il filo conduttore di queste canzoni affascinanti e
straordinarie. Questo è il mondo di Yorkston e non potrebbe essere in
altro luogo che non sia la musica.
“Come
musicista e come scrittore, mi ritrovo a reagire a quello che mi
succede attorno. Quindi, questo album parla della vita, la vita che si
svolge attorno a me. C’è la famiglia, e l’essere lontani dalla famiglia
che la vita di un musicista itinerante comporta… Ma ci sono anche
riferimenti agli amici scomparsi – i come, i perché – e questo album
parla di loro, ma soprattutto di noi, di noi che siamo rimasti
indietro…”
Se
ancora non lo avete fatto, segnatevi subito il nome di queste due
sorelle originarie di Atlanta: una è Rebecca Lovell, voce e chitarra, e
l’altra è Megan Lovell, lapsteel, dobro e voce. Due sorelle che iniziano
a suonare precocemente, visto che già nel 2005, poco più che ventenni,
fondano le Lovell Sisters, e pubblicano due album indipendenti di cui si
fa un gran parlare nel circuito del bluegrass e dell’americana. Lunghi
tour, comparsate alla radio e in tv e un successo che aumenta concerto
dopo concerto.
Nel
2009, la svolta: le due ragazze, che fra i loro antenati vantano niente
meno che lo scrittore Edgar Allan Poe, cambiano nome in Larkin Poe,
dedicando il nome della band al loro bis bis bis nonno, cugino del
grande poeta e novellista bostoniano. In tre anni, dal 2010 al 2013,
pubblicano una manciata di Ep e finalmente nel 2014, vengono messe sotto
contratto dalla Restoration Hardware, con cui rilasciano il loro album
d’esordio.
Questa,
per sommi capi, la storia che ha portato le due sorelle alla ribalta
del mercato statunitense e a conquistarsi le prime pagine delle riviste
specializzate. Un successo, anche mediatico, confermato dall’ottimo Peaches dello scorso anno, e ribadito da questo nuovo Venom & Faith,
che porta a compimento il processo di crescita del duo e si presenta
alle orecchie degli ascoltatori con le stigmate dell’istant classic. Venom & Faith è un disco di blues, meglio mettere le mani avanti, che probabilmente farà storcere il naso a molti ortodossi.
Le
due sorelle Lovell, infatti, camminano in bilico fra tradizione e
innovazione, plasmando le classiche dodici battute con grande modernità e
azzardi stilistici che suonano decisamente anomali rispetto alla
consueta visione del genere. Insomma, da un lato l’attenzione filologica
alle radici è rispettata, dall’altro, però, c’è il tentativo di
plasmare la materia per renderla più attuale, facendo ricorso ad un
pizzico di elettronica e a ritmiche, talvolta, anche molto vicine a
quelle dell’hip hop.
Le
Larkin Poe, mi permetto di azzardare il paragone, fanno esattamente ciò
che anni fa fecero i White Stripes di Jack White: modernizzano un suono
antico, avvicinando la grande tradizione blues alle orecchie dei più
giovani. Ciò non significa stravolgere tutto, e ci mancherebbe, ma
aggiungere nuove spezie per ravvivare un sapore già noto.
Il disco parte con la cover di Sometimes
di Bessie Jones e capisci fin da subito il talento di queste due
ragazze: brano classicissimo, handclaps primordiale, afrori sudisti,
sensazione di campi di cotone e sferragliare di catene, la voce roca di
Rebecca che giunge al cuore come un antico mantra. Viene evocata la
rilettura che ne fece Moby nel suo splendido Play (1999),
certo, ma le ragazze hanno un guizzo da fuoriclasse, quando gonfiano il
pezzo con ritmica marziale e con una saltellante partitura di fiati in
chiave New Orleans, che spinge la canzone in una dimensione parallela a
quelle fino a oggi conosciute.
Se Beach Blonde Bottle Blues
con il suo irresistibile beat suona selvaggio, graffiante e sensuale,
innervando di energia un classicissimo standard, le atmosfere notturne
di Honey Honey introducono un sorprendente utilizzo della
batteria elettronica che contrasta con il mood paludoso e serpeggiante
del brano, creando un effetto agghiacciante, tagliente ed evocativo. Le
due ragazze sanno giocare meravigliosamente con gli stereotipi del blues
(la slide e la polvere di Mississippi), salvo poi irrorare
tensione la cupa ballata California King, un brano che rimane in bilico
fra roots (l’inconfondibile suono della resofonica) e appeal mainstream.
L’omaggio al Sud di Blue Ridge Mountains trasuda tradizione e baldanza campagnola, mentre la spettrale e inquietante Fly Like An Eagle porta a compimento l’ibridazione fra blues e hip hop. Un effetto straniante, che fa da antipasto alla splendida Ain’t Gonna Cry, lento e sofferto blues al neon che cresce e si gonfia di inquieti umori elettronici.
Il disco si chiude con la tradizione di Hard Time Killing Floor Blues e Good And Gone,
due brani che odorano di profondo Sud e chiosano un lavoro avventuroso,
intelligente e sanguigno, che pone le Larkin Poe tra le più audaci e
interessanti interpreti del genere in circolazione.
Se
il tuo primo singolo – l’unica canzone che tu abbia mai pubblicato – va
al n. 1 delle più importanti classifiche e diventa un successo
internazionale, che cosa fai? Per prima cosa, dovresti pubblicare altri
brani. Ma per AliceMerton l'uscita di “NoRoots” (per molti mesi in Italia ai primi posti della classifica radio, Shazam, Spotify e iTunes) e successivamente di Lash Out - singolo
che ha confermato il talento di Alice, riportandola di nuovo ai primi
posti delle classifiche - ha innescato una folle corsa tra concerti
intercontinentali, interviste e performance televisive. Nel frattempo,
Alice scrive e registra canzoni per il debut album tutte le volte che ha
un briciolo di tempo libero. E finalmente ci siamo: MINT è in uscita il 18gennaio per Paper Plane Records Int.
In MINT, la travolgente storia di Alice Merton si riflette nelle nuove canzoni. “Alcune parlano del crescere, del lungo girare”, osserva la cantante anglo-tedesca, “ma
molte altre raccontano le difficoltà che abbiamo avuto iniziando con la
label, quando ci si trova a dimostrare a tutti quanto vali”. Mentre studia all’University of Popular Music and Music Business, Alice Merton fonda infatti la Paper Plane Records Int. insieme al suo migliore amico e manager Paul Grauwinkel e
crea canzoni a fianco del coautore e produttore Nicolas Rebscher. Molti
rappresentanti della discografia non hanno inizialmente apprezzato No
Roots – "dura un minuto di troppo! Elimina le chitarre!" –, ma
quando è salita in cima alla Alternative Songs Chart di Billboard negli
Stati Uniti e nelle Top Ten di altri nove Paesi, collezionando oltre 300
milioni di stream e vendendo quel milione di copie che hanno portato al
Disco di Platino in sette nazioni, hanno dovuto cambiare idea.
Come per “No Roots”, i groove contagiosi di basso fanno vibrare MINT,
mentre l’elegante e versatile voce di Alice Merton e i suoi testi
autobiografici offrono consigli sinceri e sprazzi di ambizione. L’inno
di “2 Kids” saluta i vecchi tempi, quando girava a piedi con Grauwinkel; “Funny Business” arruola il producer John Hill (co-producer e co-autore di “Feel It Still” di Portugal. The Man) per un joyride da applaudire che rivaleggia con il carisma della hit del 2017. “WhySoSerious”, balla lo shimmy intorno ai detrattori dell’industria musicale, che non sono ancora riusciti a fermarla.
A
differenza di molti artisti che, grazie a un imponente battage
mediatico, trovano fin da subito successo e rilevanza commerciale,
Amanda Shires si è conquistata, lentamente e a fatica, un proprio spazio
nella canzone d’autore americana.
Una
crescita costante, che le è valsa la stima di molti colleghi (le sue
collaborazioni sono numerosissime e spaziano da artisti del calibro di
Blackberry Smoke, Tommy Emmanuel, John Prine, Texas Playboys, Devotchka,
etc.), e le ha consentito di svincolarsi dallo scomodo appellativo di ”la moglie di Jason Isbell”.
Già,
perché Amanda, particolare non da poco, è sposata con l’ex Drive-By
Truckers, e milita anche nella sua backing band, i The 400 Unit, con cui
quest’anno ha vinto un Grammy per The Nashville Sound e ha pubblicato anche uno straordinario disco dal vivo intitolato Live From The Ryman.
Arrivata al suo ottavo disco solista, il primo da quando è diventata
mamma della piccola Mercy Rose, Amanda rilascia quello che probabilmente
è il suo lavoro migliore, di sicuro il più consapevole e quello che
riassume ed espone tutte le sfumature del songwriting di questa
versatile musicista.
Anche in questo caso, come era successo per il precedente My Piece Of Land,
torna in cabina di regia il re Mida del suono americano, Dave Cobb,
certificando, come quasi sempre accade, la qualità della proposta. Se
però il predecessore era un disco prevalentemente acustico, morbido e
malinconico, attraverso il quale Amanda rifletteva sui timori e le gioie
che accompagnavano la futura gravidanza, To The Sunset risulta
decisamente più sfaccettato e imprevedibile, mostrando in tutta la sua
spavalda forza anche il lato rock ed elettrico della Shires.
Basterebbe
anche un confronto fra le due copertine degli album citati, per
comprendere la diversa immagine che Amanda vuole dare di se stessa: al
viso semplice e non truccato della futura madre, qui si sostituisce il
corpo sfocato tra svolazzi di colore, la mise glamuor e quel rossetto
rosso porpora che evoca sensualità. Non ci si sorprende, dunque, se
queste canzoni perdono di intimismo e famigliarità per spingersi verso
intriganti confini sonori e atmosfere decisamente più cupe ed evocative,
agevolate dalla produzione di Cobb e dalla presenza del marito Jason
Isbell, che presta la sua chitarra a molte della canzoni del lotto.
Il disco si apre con la straordinaria Parking Lot Pirouette,
ballata notturna che racconta la fine di una storia d’amore, in cui
Amanda veste di nuovi colori il pezzo forte del suo songwriting:
atmosfere quasi pinkfloydiane, il suono della chitarra registrato al
contrario, la voce leggermente sfocata da un effetto eco e scariche
elettriche che innervano di tensione il brano. Da brividi.
C’è
un mood decisamente malinconico, talvolta crepuscolare, che ammanta
alcune delle migliori canzoni in scaletta, come succede in Swimmer (rivisitazione di un brano già comparso su Carrying Lightning del 2011), racconto di un amore intenso ma non corrisposto (“Giuro che annegherò solo per averti” canta con evidente tristezza, Amanda), in White Feather, riflessione sull’incomunicabilità (“È facile essere silenziosi e tacere, quando si ha paura di quello che non si comprende”) o nella conclusiva, ruvida e straziante, Wasn’t Paying Attention, cronaca senza filtri del suicidio di un tossicodipendente.
E ci sono, poi, contrasti riuscitissimi, come quello fra Charms, ukulele, voce e melodia avvolta da leggeri tocchi elettronici, e l’urlo belluino che apre la successiva Eve’s Daughter,
terremoto elettrico che travolge con la chitarra di Isbell, che
rispolvera il suono Drive-By Trucker. Un disco vario, dunque, in cui la
scrittura della Shires trova una definitiva maturità, sia da un punto di
vista testuale (liriche dure, che scandagliano l’animo umano
raccontando storie al limite) che musicale: per la prima volta c’è molto
più rock che Americana, e c’è la necessità di uscire dai consueti
steccati, sperimentando inconsuete sonorità (la citata Parking Lot Pirouette, e la livida elettricità new wave di Take On The Dark).
Insomma,
a casa Isbell/Shires le cose vanno a gonfie vele: fioccano ottimi
dischi perché entrambi, evidentemente, cercano di dimostrare di
meritarsi l’amore e l’attenzione dell’altro. Una sfida in famiglia che
produce un surplus di creatività e rende molto felici tutti i fan.
Il musicista e cantautore
Andy Burrows e l’autore di bestseller
Matt Haig annunciano il loro album collaborativo
Reasons To Stay Alive,
in uscita il 01 febbraio su Fiction Records/ Caroline International,
distribuzione Universal. I due, dopo essersi conosciuti su Twitter,
hanno trascorso gli ultimi
anni condividendo idee per creare una raccolta di brani ispirati agli
amati romanzi di Matt Haig, tra cui
Reasons To Stay Alive e How To Stop Time, con i testi di Haig e le musiche di Burrow. Il primo singolo tratto dall’album
“Barcelona” è disponibile ora. Andy Burrows portarà il nuovo album in tour da febbraio. In Italia avremo la possibilità di vederlo live il
29 novembre al Paladozza di Bologna, in apertura agli Editors.
Reasons to Stay Alive
è un progetto unico con i suoi richiami ai tema e alle influenze del
libro autobiografico di Haig: un cantautorato ricco, colorato e
coraggioso. Con richiami che vanno
da Elton John ai Supertramp, passando per i Queen, l’album è
caratterizzato da un sottofondo che non potrebbere essere più rilevante
nel mondo di oggi. Insieme, Burrows e e Haig raccontano storie d’amore,
viaggiano nel tempo e nello spazio, celebrano le anime
gemelle e si muovono in modo deciso negli angoli più sensibili della
mente.
Dopo la prima fase di scrittura a L.A., Burrows ha composto l’album a
casa sua a Hackeny, con il suo piano e lo ha registrato in un fienile a
Wittersham, nel Kent con il suo amico e collaboratore di lunga data
Tim Baxter (che ha lavorato ai suoi precedenti album
Company, Funny Looking Angels e alla colonna sonora per
The Snowman and the Snowdog). Burrows ha suonato molti degli strumenti presenti – tastiere, chitarra e batteria – mentre Dom Howard
il batterista dei Muse e il chitarrista dei
We Are Scientists (di cui Burrows è ex membro)
Keith Murray appaiono come ospiti.
Tom Smith degli
Editors ha contribuito ai cori,
Joe Auckland della band jazz
The Horne Section ha suonato il flicorno soprano e
Max Clilverd è presente ai soli di chitarra aggiuntivi.
Confesso che la dichiarazione di Alessandro Di
Battista, verso il quale non ho alcun preconcetto, mi ha lasciata un po'
sbalordita. E non tanto per il ricorso a un sostantivo (peraltro di largo uso
nel comune linguaggio) che evoca il mestiere più antico del mondo, quanto per
categorizzare certi giornalisti, rei di avere infangato la sindaca Virginia
Raggi, assolta con formula piena dall'accusa di falso documentale per la nomina
di Renato Marra alla direzione del dipartimento Turismo del comune di Roma.
Siamo tutti d'accordo che in Italia il fenomeno di editori in conflitto di
interessi sia diffuso ma lasciarsi andare ad apprezzamenti dal sapore sessista
lascia amareggiati.
E non perché sia una femminista dell'ultima ora. Se Dibba,
da libero cittadino qual è attualmente, esprime un'opinione più o meno
condivisibile nei toni possiamo anche storcere il naso, ma quando un
vicepremier, nonché ministro, aggiunge un carico da 90 definendo i giornalisti
"infimi sciacalli", mi pare che il ruolo istituzionale sia andato a
farsi benedire. E non nel senso che intende Silvietto quando agita lo spettro
di anticamera della dittatura.
Viene da ridere: il bue dice cornuto
all'asino. L'editto bulgaro che segno' la cacciata dalla Rai di Santoro,
Luttazzi e Biagi, e'ancora impresso nelle nostre menti. Così come la recente
epurazione di Paolo Del Debbio, Mario Giordano e Maurizio Belpietro, rei della
sconfitta elettorale di Forza Italia a causa delle loro presunte simpatie per
il Carroccio.
A questo scenario squallido si aggiunge a pieno titolo il Pd
renziano con l'allontanamento di Massimo Giannini, dopo le polemiche seguite
alla puntata del programma televisivo sul caso Etruria e l'allora ministra
Boschi. Tutto il mondo è paese, dunque, e i giornalisti non sono tutti santi.
Nel caso del Movimento 5 Stelle che si professa in totale discontinuita' col
passato, e' mancata la forma. Apostrofare i nemici con epiteti offensivi e
spregevoli non è pertinente con una carica istituzionale. Diceva Oscar Wilde:
"Avere avuto una buona educazione, oggi, e' un grande svantaggio. Ti
esclude da tante cose". Il fatto grave e' che le persone educate sembrano
ormai escluse da tutto.