mercoledì 26 febbraio 2025

The Hellacopters - Overdriver (Nuclear Blast, 2025)

 


Tra il 1994 e il loro scioglimento, avvenuto nel 2008, gli Hellacopters hanno prodotto sette scalmanati album di rock and roll con influenze punk, facendo propria l’eredità di band come MC5, New York Dolls, Ramones e Motörhead. Dopo essersi riuniti, nel 2016, per suonare in un tour dedicato al 20° anniversario del loro album di debutto, Supershitty To The Max!, da allora, la band svedese ha calcato con continuità il circuito dei festival, almeno fino a quando è stato possibile (vedi covid), e finalmente, nel 2021, ha annunciato di aver raggiunto un accordo con l'etichetta discografica tedesca Nuclear Blast e di essere pronta a tornare sulle scene con un nuovo disco di materiale originale.

Nel 2022, esce Eyes Of Oblivion, primo passo della leggendaria band svedese nel futuro, un disco che sfoderava il consueto armamentario di rock'n'roll e spavalderia, in dieci canzoni per trentacinque minuti di assalti all'arma bianca, esuberanza innodica e melodie scartavetrate dal graffio di chitarre in acido.

A distanza di tre anni, questo nuovo Overdriver conferma l’ottimo stato di salute del quartetto capitanato dal cantante Nicke Andersson e dal chitarrista Dregen, quantunque l’approccio alla composizione si è fatto meno ruvido e l’urgenza che animava i precedenti lavori si è attenuata a favore di un surplus melodico, che talvolta rasenta il mainstream, e di un pizzico di malinconia, che si coglie nella seconda parte dell’album, decisamente meno battagliera della prima.

Nulla, tuttavia, che snaturi il suono di una band che ha fatto dell’aggressività la sua lancia più acuminata: quando il disco parte a manetta con "Token Apologies", è chiaro fin da subito chi sono gli Hellacopters. Riff incarognito, immersione totale negli anni ’60 più grevi, per una sberla elettrica che sembra nata dallo schianto fra MC5 e The Who. Fila dritta come un fuso "Don’t Let Me Bring You Down", ancora più ruvida se non fosse per quel fantastico ritornello che trapana il cervello in un nano secondo, mentre la successiva "(I Don’t Wanna Be) Just A Memory" è sfrontata, allegra e incredibilmente catchy.

Se nelle undici in scaletta nessun ritornello, ma proprio nessuno, va sprecato, la band, però, alterna momenti di antico furore con altri decisamente più morbidi, senza perdere, tuttavia, un grammo di un’ispirazione che regge alla grande le angherie del tempo.

"Wrong Face On" ringhia punk’n’roll a ogni nota, "Soldier On" è più cadenzata, oscura e bluesy, mentre "Doomsday Dreams" viaggia rapida e melodica sull’onda di un riff di chitarra acuminato, ricordando i tempi gloriosi di "By The Grace Of God".

E se "Faraway Looks" inchioda all’ascolto con il suo piglio punk, salvo emozionare con il consueto ritornello da cantare a squarciagola, il mestissimo arpeggio che apre "Coming Down" porta la band nei territori della power ballad malinconica, una bella scartavetrata sul cuore grazie anche la voce ispida e traboccante sentimento di Andersson.

Cambia ulteriormente registro la successiva "Do You Fell Normal", un jangle rock leggerissimo, il cui ritornello coglie il centro del bersaglio grazie a un gioco di accenti spostati, mentre "The Stench" spinge i raggi di sole in una cupa foschia blues, creando un momento di intensa malinconia. Chiude la scaletta "Leave a Mark", la cui linea di basso ombrosa e distorta riconnette la band con la propria attitudine garage, anche se nello specifico declinata con agrodolce sapore nostalgico.  

Qualcuno potrebbe storcere un po’ il naso di fronte a un approccio evidentemente ingentilito e meditativo, ma ciò non toglie nulla a Overdriver, che resta un ottimo disco rock. Gli Hellacopters continuano a sfrecciare a bordo della loro spider decapottabile, ma se un tempo il divertimento era prendere in pieno le pozzanghere per schizzare le vecchiette, oggi, il senso è quello di godersi il viaggio, il panorama, il vento nei capelli e il sole all’orizzonte, sfruttando il tempo dei chilometri macinati per riflettere sul senso del tutto. Meno cattivi, forse, ma egualmente consapevoli.

Voto: 8

Genere: Rock, Garage

 


 


Blackswan, mercoledì 26/02/2025

martedì 25 febbraio 2025

Twist In My Sobriety - Tanita Tikaram (Wea/Reprise, 1988)

 


Di origini malesi, sorella dell'attore Ramon Tikaram (My Spy Family, Il Trono di Spade, etc.) Tanita pubblica, nel 1988, il suo album d’esordio, Ancient Heart (prodotto da Rod Argent e Peter Van Hoote), quando ha solo diciannove anni. Il disco vende benissimo ovunque (complessivamente sei milioni di copie) e raggiunge ottime posizioni di classifica anche in Italia, trainato da due singoli che lasciano tutti a bocca a perta: Good Tradition e Twist In My Sobriety. Sembra l’inizio di una carriera entusiasmante, e invece, nonostante un filotto di dischi tutti di livello (l’ultimo Closer To The People del 2016), la Tikaram esce da tutti i radar che contano, diventando artista di culto per una ristretta nicchia di fan. Di lei, almeno nel nostro paese, si ricorda soprattutto Twist In My Sobriety, singolo che entra prepotentemente anche nella top ten italiana.

La canzone inizia con una suggestiva citazione letteraria: "Tutti i figli di Dio hanno bisogno di scarpe da viaggio". La strofa riprende il titolo di un libro della romanziera, poetessa e saggista statunitense, Maya Angelou, un romanzo autobiografico in cui la scrittrice racconta del suo sogno di tornare finalmente in Africa e riabbracciare le proprie radici, come donna nera americana che ha vissuto tanti anni lontano da casa. Tikaram usò quelle parole senza un reale motivo, solo perché le suonavano incredibilmente poetiche e spirituali, e perché voleva trasmettere al pubblico la sua grande passione per la letteratura (qui e là, nell’album, si trovano anche citazioni da Virginia Wolf).

La canzone, in realtà, parla di come, a diciotto anni (età in cui la Tikaram compose il brano) è difficile comprendere il mondo circostante, di come gli adolescenti si sentano soli, isolati, incapaci di prendere decisioni, percependo tutti gli altri come distanti, freddi, ostili. A diciotto anni, secondo la songwriter, il rapporto emotivo con il mondo è di chiusura, si fa fatica a interagire, a commuoversi per le cose belle di ogni giorno, e si coltiva una sorta di distorto distacco (sobriety) che porta inevitabilmente all’isolamento (“e non farò mai ciò che dici, non ti ascolterò mai”).  Una canzone, come affermò la stessa musicista, qualche anno dopo a un’intervista per rivista Q, che parla “dell'essere troppo spaventati per farsi coinvolgere nelle cose”.

Nel 1989, Liza Minnelli fece una cover della canzone per il suo album Visible Results, prodotto dai Pet Shop Boys. La Tikaram, però, non sapeva assolutamente chi fosse la Minelli, e solo successivamente, diventando adulta, comprese il grande omaggio che le era stato fatto dall’ iconica cantante americana. Tuttavia, Tanita ritenne che la Minelli non avesse colto il senso del brano, interpretandolo in modo molto “americano”. In America, infatti, al termine “sobriety” viene dato un significato specifico, che ha a che fare con la fine della dipendenza dall’alcol, dopo un lungo periodo di riabilitazione, mentre in Inghilterra il termine viene usato nel senso di essere seri e sobri nel modo di comportarsi con gli altri.

 


 

 

Blackswan, martedì 25/02/2025

lunedì 24 febbraio 2025

Jean-Philippe Postel - Il Mistero Arnolfini (Skira, 2017)

 


Il Ritratto dei coniugi Arnolfini dipinto da Jan van Eyck nel 1434 è il celeberrimo oggetto di questa indagine, un’opera che chiunque abbia visto non può più dimenticare. Amata e ammirata nei secoli, protagonista di innumerevoli studi, cela tuttavia un mistero, un significato nascosto, che continua a sfuggire anche allo sguardo più attento. L'occhio clinico di un medico scrittore svela i misteri di uno dei massimi capolavori pittorici di tutti i tempi. I misteri storici, iconografici e tecnici "nascosti" sotto la perfezione del capolavoro di Van Eyck.

 

E che io stesso ho letto in un treno ad alta velocità, inchiodato dalla suspense, con la curiosità e il fiato sospeso con cui si legge un romanzo poliziesco, sul serio!

(Daniel Pennac, prefazione)

 

Queste due righe, estrapolate dalla prefazione al saggio a cura di Daniel Pennac, suggeriscono immediatamente che Il Mistero Arnolfini è qualcosa in più dell’opera erudita su uno dei massimi capolavori dell’arte fiamminga. Addentrarsi nelle centododici pagine di questo libro è, infatti, esattamente come essere risucchiati in prima persona nelle pieghe di un mistero lontanissimo nel tempo, e assistere sul campo a un’indagine che tiene avvinti fino all’ultima pagina, in un rincorrersi di colpi di scena di cui solo un thriller palpitante è capace.

Se deciderete di approcciarvi a questo libricino denso di emozioni, per prima cosa, prendetevi il tempo di dare un’occhiata a questa magnifica tela, esposta alla National Gallery di Londra (su internet troverete un florilegio di immagini) e, solo dopo, fatevi prendere per mano dalla prosa colta, ma abbordabilissima, di Postel. Entrate, dunque, nella stanza che vedete rappresentata nel quadro di Jan van Eyck, e lasciatevi condurre alla scoperta di quest’opera tanto enigmatica quanto inquietante, un dipinto che, a distanza di secoli, vede ancora schiere di studiosi adoperarsi per svelare l’arcano che sottende la pennellata precisa e armoniosa del grande pittore fiammingo.

 


 

Tanti sono gli interrogativi a cui dare risposta.

Chi sono l’uomo e la donna rappresentati nel quadro, che secondo l’interpretazione tradizionale corrisponderebbero al mercante lucchese Giovanni Arnolfini (che negli altri suoi ritratti coevi non mostra alcuna somiglianza fisica con questo dipinto) e a sua moglie, Giovanna Cenami? Cosa stanno facendo? Dove sono rivolti i rispettivi sguardi, quello dell’uomo che appare impaurito, e quello della donna, focalizzato, invece, sul braccio del marito?

E ancora. Perché il cagnolino, simbolo di fedeltà coniugale, non è riflesso dallo specchio che, come un occhio di verità, ci fissa dal muro alle spalle dei protagonisti? Chi sono le due figure riflesse nello specchio, che stanno ferme sull’uscio della stanza? Quale significato anno gli zoccoli, le pianelle e le arance rappresentate nel dipinto? Perché un’unica candela è rimasta accesa sul lampadario, in pieno giorno, mentre le altre sono spente? È forse un indizio di morte? Quali altri segreti nasconde questo dipinto straordinario e affascinante?

A tutte queste domande, Postel dà la propria risposta, giungendo a conclusioni diverse da quelle date da molti altri studiosi. Il lettore privo di competenze in storia dell’arte, come il sottoscritto, non è ovviamente in grado di dare un giudizio di valore alla tesi proposta dallo scrittore francese, anche se ogni passaggio è suffragato da prove che appaiono del tutto plausibili. Fatta questa premessa, la lettura è avvincente e ha il merito di spingere il lettore alla riscoperta di un mondo antico ricco di fascino e ad approfondire l’opera di Jan van Eyck, un pittore della cui vita si conosce poco, ma le cui straordinarie opere sono patrimonio dell’umanità.

 

Blackswan, lunedì 24/02/2025

giovedì 20 febbraio 2025

Toto - Isolation (Columbia, 1984)

 



Superfluo dirlo, ma è davvero difficile pescare male nella discografia dei Toto, mentre se peschi bene, il più delle volte, è probabile trovarsi per le mani un album, per cui la parola “capolavoro” non è spesa invano. E’ il caso, ad esempio, di Isolation, anno domini 1984, e successore di quel best seller che porta il nome di Toto IV. E’ possibile mantenere le vette celestiali raggiunte da un disco che inanellava nella propria scaletta un filotto di canzoni superlative, fra cui le hit sempiterne "Africa" e "Rosanna"?

I Toto, due anni dopo, ci provarono, e ovviamente, ci riuscirono, tra l’altro in un momento storico complicato da qualche problema interno. Bobby Kimball, storico cantante della band, viene cacciato per l’incapacità di gestire la dipendenza da droga e alcool (alcune sue parti vocali sono ugualmente mantenute sull'album) e se ne va anche il bassista David Hungate (che tornerà successivamente, nel 2015, per Toto XIV). Al loro posto, vengono reclutati Fergie Frederiksen alla voce (che presenzierà anche nel successivo Fahrenheit) e al basso Mike Porcaro, fratello di Steve e Jeff, già al servizio della band dal 1982. Due sostituzioni di peso, ma il cui livello tecnico mantiene costante la forza propulsiva della band, che inanella dieci canzoni di cristallina bellezza.

Isolation è un disco solo un po’ più rock del suo predecessore, i cui punti di forza, come di consueto, sono le melodie celestiali, il suono e gli arrangiamenti scintillanti (il sestetto si autoproduce e ne ha ben donde) e l’elevatissimo tasso tecnico dei componenti, tra cui spiccano David Paich e Steve Porcaro, le cui tastiere onnipresenti contornano la chitarra griffata di Steve Lukather, che dispensa riff cromati e assoli stellari con la sapienza di un vero e proprio califfo delle sei corde.

Come dicevamo, il disco mantiene le aspettative dal primo all'ultimo brano, a partire dall’opener "Carmen", l’ennesima canzone che porta il nome di una donna, vera e propria mania della band californiana. Partenza di slancio, velocità massima e un suono rotondo, che mette in evidenza il perfetto interplay fra le voci di Paich e Frederiksen, il sontuoso lavoro di Lukather alla chitarra e, come da tradizione, un ritornello da mandare a memoria al volo. La successiva "Lion" gioca con ritmiche vicine al funky, grande lavoro al basso e alla batteria dei fratelli Porcaro e ennesimo strabiliante contributo di Lukather che cuce il brano con la consueta fantasia.

"Stranger In Town", il primo singolo tratto dal disco, vede nuovamente Paich e Frederiksen scambiarsi il microfono, il ritornello è memorabile, e il sax che attraversa la canzone ne esalta il mood sensuale.

Difficile mantenere il livello di questa tripletta iniziale, ma la band vive un momento di grazia, trasformando in oro tutto quello che tocca. Ecco, allora, "How Does It Feel", zuccherina ballata che vede Lukather cimentarsi egregiamente alla voce, "Angel Don’t Cry" che sprinta veloce accendendo la fiamma del rock prima di un ritornello spettacolare, "Endless" che spinge verso il dancefloor col suo groove funky, e la title track, la cui spavalderia melodica mette nuovamente in evidenza il gusto della band nel creare arrangiamenti spettacolari. Chiude la scaletta "Holyanna", un divertito rock’n’roll dal gusto retrò, in cui Paich è protagonista assoluto al pianoforte e alla voce.

Isolation non riuscì nell’impresa di bissare le vendite del suo predecessore, ma si portò a casa, comunque, un disco d’oro, e non entrò nemmeno nelle grazie della critica, che vedevano in questo album un tentativo della band di clonare il suono dei Journey, gruppo che, all’epoca, vendeva milioni di dischi solo negli States. Tuttavia, come spesso accade, il tempo ha rimesso a posto le cose, e riascoltato oggi, Isolation si colloca nella top five dei migliori dischi dei Toto, oltre a rappresentare uno dei vertici dell’Aor di quel decennio.

 


 

Blackswan, giovedì 20/02/2025

 

martedì 18 febbraio 2025

Larkin Poe - Bloom (Tricki - Woo Records, 2025)

 


Sono passati ben undici anni dal loro debutto, e le sorelle Lovell, al secolo meglio conosciute come Larkin Poe, si sono costruite una reputazione e una solida base di fan, a colpi di ottimi dischi, grandi canzoni e di un suono, che seppur riconducibile a territori già abbondantemente battuti, ha saputo, nel tempo, vestirsi di una propria immediata riconoscibilità.

Oggi, il duo è maturo e consapevole, esperto al punto da poter viaggiare con il pilota automatico, senza sforzo apparente e senza rischiare disastri. Così, quando il disco inizia con "Mockingbird", si capisce che siamo di fronte a due ragazze esperte, che sanno esattamente come trattare la materia rock blues, forse senza stupire più, ma con la consapevolezza di chi è arrivato e fa le cose in grazia di Dio.

Il focus come sempre è puntato sul rock’n’roll, mentre, in questo disco, il blues trova meno spazio, a favore di una sempre maggiore attenzione per le melodie. I punti di forza, quindi non mancano, e quando parte "Easy Love Part 1", un grintoso southern rock sporco abbastanza per fare invidia ai migliori interpreti del genere, si capisce che le ragazze sanno graffiare a fondo, senza dimenticarsi di piazzare un ritornello irresistibile.

Con "Little Bit" l’atmosfera cambia, la canzone vibra di contentezza, è rilassata senza tuttavia perdere la sua anima rock, e tutto funziona benissimo, dal turbinio dell’organo, al riff harrisoniano fino al favoloso assolo di Rebecca.

Coprodotto dalle due ragazze insieme al chitarrista texano Tyler Bryant (Tyler Bryant & the Shakedown), che è anche il marito di Rebecca, Bloom dispiega tutto l’armamentario delle sorelle, così come l’abbiamo conosciuto nel tempo: dal rock blues granitico e dagli echi zeppeliniani di "Bluephoria", alla ballata in chiave soul di "Easy Love Part 2", forse risaputa ma traboccante di sentimento, dalle sciabolate slide della viscerale "Nowhere Fast", fino alla polvere blues che soffia sulla cadenzata "If God Was a Woman", in cui Rebecca Lowell sogghigna “se Dio era una donna, allora lo è anche il Diavolo”.

E c’è spazio anche per una ballata intensa, "Bloom Again", che chiude delicatamente il disco, con tanto di arrangiamento d’archi e la languida lap steel di Megan come protagonista.

Bloom è, in definitiva, un disco riuscito, l’ennesimo di una discografia sempre all’altezza della fama che le due sorelle si sono costruite. L’impressione, ma forse è proprio solo un’impressione, è che queste nuove canzoni siano più figlie del mestiere che di quell’urgenza espressiva che animava i lavori precedenti, e che il reiterarsi di certi clichè, che funzionano perfettamente, tolgano un po’ di profondità alle composizioni. Il disco, però, è abbastanza vario per conquistare svariati ascolti, e qualche episodio, le citate "Easy Love Part 1", "If God Was A Woman" e "Little Bit", testimoniano che le sorelle Lovell non hanno perso il vizio di scrivere gran belle canzoni.

Voto: 7

Genere: Rock, Blues




Blackswan, martedì 18/02/2025

lunedì 17 febbraio 2025

Don't Look Back In Anger - Oasis (Creation, 1995)

 


Due ladri d’auto di Manchester con gli spartiti dei Beatles”, afferma ironicamente, a proposito degli Oasis, il protagonista di Kill Your Friends, pungente e mordace pellicola del 2015, diretta da Owen Harris e ispirata all’omonimo romanzo dello scrittore John Niven.

Una battuta salace e volutamente cattiva, a cui dobbiamo dar credito almeno nella parte in cui vengono citati i Fab Four. E’ abbastanza evidente, infatti, che i Beatles, e soprattutto John Lennon, hanno avuto un'enorme influenza sugli Oasis, e quell'influenza è forse più evidente che mai in Don't Look Back in Anger, quarta traccia del secondo album pubblicato dalla band, intitolato (What’s The Story) Morning Glory?

L'introduzione al pianoforte, infatti, è stata presa da Imagine di Lennon, il verso "So I start a revolution from my bed" è un riferimento al cantante, che ha messo in scena un famoso "bed-in" per promuovere la pace, così come il verso “Cause you said the brains I had went to my head” è estrapolato dagli appunti registrati da Lennon, per un libro di memorie che aveva intenzione di scrivere prima della sua morte.

A prescindere dagli evidenti riferimenti al quartetto di Liverpool, il brano, scritto da Noel Gallagher, è d’ispirazione autobiografica. Ogni anno, infatti, il giorno di San Patrizio, la madre dei fratelli Gallagher scattava una foto ai suoi figli e la mandava alla nonna che viveva in Irlanda. La famiglia viveva in una piccola casa popolare, e l’angolo più accogliente era quello dove si trovava un piccolo fuoco a gas che chiamavano “camino”.  La frase: "Alzati accanto al caminetto, togli quello sguardo dalla faccia" ricorda proprio questo momento, e siccome Noel, aveva sempre lo sguardo scocciato di chi viene obbligato a mettersi in posa contro la sua volontà, la madre lo apostrofava, dicendogli di togliersi quello sguardo dalla faccia.

La canzone nacque per caso quando gli Oasis erano a Parigi per suonare con i Verve e, durante un soundcheck, Noel stava strimpellando alla chitarra acustica le prime note di Don’t Look Back In Anger. Liam gli si avvicinò chiedendogli cosa stesse cantando, e Noel rispose che stava semplicemente inventando delle parole senza senso su alcuni accordi di chitarra. “Strano” rispose Liam “mi sembrava di aver sentito chiaramente che cantavi un verso, So Sally Can Wait”. Lampo di genio, pensò Noel, che entrò nello spogliatoio dell’arena insieme al fratello e in poche ore compose la canzone, che poi, quella sera, lui stesso cantò davanti al pubblico, in acustico, seduto su uno sgabello. La canzone rimase, successivamente, appannaggio di Noel, che inizialmente avrebbe dovuto cantare Wonderwall, altro grande successo dal secondo album in studio, ma che, successivamente, Liam pretese di tenere per sé stesso.

Don't Look Back In Anger segnò anche l’allontanamento dagli Oasis del batterista Tony McCarroll, il quale, pur essendo uno dei membri fondatori della band, fu cacciato in malo modo perché incapace, nonostante svariati tentativi, di suonare correttamente il brano.

La canzone, anni dopo, balzò nuovamente agli onori della cronaca, per una circostanza tristissima. Il 22 maggio 2017, un attacco suicida alla Manchester Arena, avvenuto al termine del concerto Ariana Grande, provocò 23 morti e 250 feriti.  Tre giorni dopo l’orribile attentato, le gente si radunò nel centro della città per osservare un minuto di silenzio in onore delle vittime. Dopo il silenzio, le persone presenti iniziarono a cantare spontaneamente Don’t Look Back In Anger, come fosse un abbraccio collettivo, una risposta d’amore e di speranza all’insensata violenza dell’estremismo. 

 

Esci perché l'estate è in fiore

Alzati accanto al camino

Togli quello sguardo dalla tua faccia

Perché non brucerai mai il mio cuore..

Non guardare indietro con rabbia” 




Blackswan, lunedì 17/02/2025

venerdì 14 febbraio 2025

Avatarium - Between You, God, The Devil And The Dead (AFM Records, 2025)


 

Un disco ogni due anni, pubblicato con metodica precisione. Gli svedesi Avatarium, spin off dei Candlemass, il cui membro, Leif Edling, è l’artefice e fondatore del progetto insieme alla moglie Jennie-Ann Smith, tornano con il loro sesto album in studio, probabilmente il migliore di una carriera fin qui assolutamente impeccabile.

Un disco, questo Between You, God, The Devil and The Dead, che si allontana sempre più dalle alchimie doom degli esordi (pur senza rinnegarle completamente), per abbracciare, come già nel precedente Death, Where is Your Sting, un suono meno roccioso, che fonde hard rock, psichedelia e progressive in un connubio che paga debito alla gloriosa stagione anni ’70.

Solo un filo più spigoloso del suo predecessore, il nuovo lavoro degli Avatarium condensa in otto canzoni, per circa tre quarti d’ora di musica, una scrittura profonda, elegante e complessa, che dà vita ad atmosfere capaci di fondere dolcezza e sensualità (merito della grande performance di Jennie-Ann Smith) a momenti più cupi e drammatici, carichi di pathos e forieri di un retrogusto spesso malinconico. La band funziona a meraviglia, abbinando tecnica a trasporto emotivo, ma è evidente che la parte del leone la fanno i due coniugi: Edling è un vero califfo della sei corde, ricama atmosfere, sfodera riff aggressivi, si abbandona a soli lussureggianti, mentre l’istrionica Jennie-Ann Smith seduce con il proprio timbro versatile e sensuale, intessendo passaggi di teatrale drammaticità.

Il retroterra doom non è stato abbandonato completamente, prova ne è l’opener "Long Black Waves", che evoca il passo tenebroso dei Black Sabbath pur contornandolo di rock blues di matrice settantiana. Una canzone fantastica, che come l’onda evocata dal titolo, si schianta furiosa sulla risacca e poi si ritira, per continuare il suo movimento ipnotico, tra un suono d’organo retrò e uno straordinario lavoro di cesello da parte di Edling.

"I See You Better In The Dark", pubblicata come singolo qualche mese fa, cambia registro, è meno cupa e più aggressiva, innesta le proprie radici nel rock anni ’70 e sfodera un ritornello trascinante che evoca i Jefferson Airplane con un piglio quasi radiofonico, mentre Edling giganteggia nuovamente alla chitarra, piazzando a metà brano un solo devastante.

La Smith è protagonista di una prova magistrale per tutta la durata del disco, ha un approccio al canto assolutamente teatrale, è impostata, ma sa trasmettere autentiche vibrazioni, sia quando veste i panni della sofferenza nella cupa e drammatica "My Hair Is On Fire (But I’ll Take Your Hand)" sia quando intride di sensuale inquietudine il passo lento e minaccioso di "Until Forever And Again".

Il disco si chiude con la strumentale "Notes From The Underground", brano che, nel suo incedere sinuoso e ipnotico (salvo la chiosa decisamente doom), mostra nuovamente la grande abilità di Edling nel far convivere tecnica e fantasia, e con la title track, ballata malinconica, che spegne la tensione elettrica accumulata precedentemente e in cui la Smith dà vita a una languida performance, tutta palpiti e brividi.

Una chiosa da applausi, che sigilla l’ennesimo grande disco di una band che, pur senza rinnegare il proprio passato, ha saputo metterlo al servizio di una musica più ariosa e complessa, che guarda agli anni ’70 e li rilegge con idee, pathos e grande consapevolezza.

Voto: 8

Genere: Rock, Classic Rock

 


 


Blackswan, venerdì 14/02/2025

mercoledì 12 febbraio 2025

Talkin' 'bout a Revolution - Tracy Chapman (Elektra, 1988)

 


Scrivo canzoni da quando avevo otto anni ed è tutta una questione di amore per la musica. Poi gli argomenti di cui parlano le mie canzoni, derivano davvero da qualunque cosa mi ispira."

Con queste semplici parole, a fine anni ’80, una giovane Tracy Chapman spiegava ai microfoni della BBC la sua passione per la musica, e quel talento precoce che la portò, inaspettatamente, poco più che ventenne, a essere considerata la stella più luminosa del firmamento folk rock di quel decennio.

Quando nel 1988 la Chapman pubblica il suo omonimo album d’esordio, il mondo della musica guarda altrove: dominano dance, synth pop e new wave, e già si colgono i prodromi di quel fenomeno, il grunge, che dalla piovosa Seattle si appresta a conquistare le classifiche americane ed europee. Eppure, quasi in punta di piedi, si affaccia sulle scene una piccola ragazzina di colore, che con la chitarra a tracolla, canta di diseredati e amori impossibili, riaccendendo negli ascoltatori la passione vissuta per altre due grandi artiste, quali Joni Mitchell e Joan Baez.

Ad aprire la scaletta del disco è Talkin’ ‘bout a Revolution, quella che può essere considerata la signature song dell’oggi sessantenne cantautrice statunitense.

Il brano fu scritto dalla Chapman quando aveva sedici anni ed era una studentessa a Wooster, un collegio a Danbury, nel Connecticut. Lei, cresciuta in un quartiere operaio di Cleveland, dove aveva mangiato il pane duro di una vita travagliata, era finita in una scuola d’elite, grazie a una borsa di studio. Quell’ambiente, però, era davvero lontanissimo da ciò che era stata fino ad allora l’esistenza dell’adolescente Tracy.

Nelle aule e nei dormitori studenteschi, infatti, si respirava il privilegio di famiglie abbienti e la superficialità di ragazzi che godevano delle loro prerogative, disinteressandosi di tutto ciò che avveniva fuori dalla ristretta cerchia scolastica. Questi suoi coetanei non pensavano mai, e probabilmente nemmeno sapevano, che oltre quelle mura vi fossero persone che non avevano soldi o che facevano fatica a sbarcare il lunario, e nemmeno concepivano la necessità di un cambiamento né la possibilità di lottare e manifestare perché quel cambiamento avvenisse. Talkin’ ‘bout a Revolution nacque, dunque, come reazione a questo universo inconsapevole, che viveva in un liquido amniotico impenetrabile da ogni fermento politico e sociale.

 

“…Mentre stanno in fila per il welfare

Piangere alle soglie di quegli eserciti di salvezza

Perdere tempo nelle code alla disoccupazione

Seduto in attesa di una promozione…

I poveri si ribelleranno

E otterranno la loro parte” 

 

Quando, poi, la Chapman iniziò a frequentare la Tufts University, si trovò a vivere in un ambiente diverso, in cui giovani si impegnavano fattivamente per quel cambiamento che lei aveva sempre sognato, fin da ragazzina. In particolare, all’epoca, i campus universitari negli Stati Uniti stavano davvero aprendo la strada alla sensibilizzazione delle persone su ciò che stava accadendo in Sud Africa e alla lotta contro l’apartheid. Ecco, allora, che quelle risolute parole si accesero di nuova luce e abbracciarono un nuovo ideale. La Chapman, quindi, registrò una scarnissima demo presso la stazione radio del campus, che finì poi nelle mani di un altro studente, Brian Koppelman, un’attivista dei diritti umani, il cui padre Charles era il co-proprietario di una piccola etichetta, la SBK. Charles si innamorò perdutamente della musica della giovane Tracy, l’aiutò a realizzare un vero demo, ottenendole, poi, un contratto con una major, l’Elektra Records.

Chapman ottenne molta visibilità quando eseguì questa canzone solamente con la sua chitarra acustica per chiudere il suo set al concerto gratuito in onore di Nelson Mandela, svoltosi nello stadio di Wembley, l'11 giugno 1988, due mesi dopo l'uscita del suo album di debutto. Il concerto è stato trasmesso dalle televisioni di tutto il mondo, dando a molte persone la possibilità di vedere all’opera per la prima volta la giovane songwriter americana. Dal momento che la Chapman era un’esordiente, la sua performance era posta all'inizio del concerto, ma ore dopo, quando Stevie Wonder ebbe un problema tecnico, Tracy venne richiamata sul palco, dove eseguì altre due canzoni, inclusa Fast Car, che era il suo primo singolo. Questa ulteriore esposizione accese ancor di più l'interesse per la Chapman, e in seguito, il suo album, insieme al singolo Fast Car, ha scalato le classifiche di tutto il mondo. Nella sua nativa America, il disco arrivò al numero 1 il 27 agosto, mentre Fast Car raggiunse la posizione numero 6 di Billboard. Quel che si dice una vera e propria epifania.

 


 

 

Blackswan, martedì 12/02/2025

martedì 11 febbraio 2025

Vega4 - Satellites (Taste Media, 2002)

 


Strano destino quello dei Vega4, talentuosa band nata durante la seconda ondata brit pop, sparita dai radar in un batter d’occhio e finita nel mare magnum dell’oblio musicale, dopo solo due album. Strano, perchè la proposta musicale del gruppo, che si affiancava a quella dei coevi Starsailor, Coldplay, Keane, solo per citare alcune delle band più in voga del momento, era di assoluto valore dal punto di vista della scrittura, che seppur in linea le sonorità imperanti nel momento storico, si distingueva per guizzi di cristallina bellezza.

Formatisi a Londra nel 1999, i Vega4 erano composti da Johnny McDaid (cantante e mente pensante del gruppo), Bruce Gainsford (chitarra), Gavin Fox (bassista) e Bryan McLellan (batterista), nessuno dei quali, strano a dirsi, di nazionalità britannica (McDaid e Fox erano irlandesi, McLellan canadese e Gainsford neozelandese). All’alba del nuovo millennio, i quattro firmano un contratto con l'etichetta indipendente Taste Media, e successivamente con due major, la Columbia Records per il Regno Unito e la Epic Records per gli Stati Uniti, a testimonianza del valore di un progetto che, invece, si concretizzò in solo due dischi, Satellites (2002) prodotto da John Cornfield e Ron Aniello, e You and Others (2006), prodotto da Jacknife Lee.

Se il primo disco fu un completo flop, il secondo ebbe un discreto successo negli Stati Uniti, trainato dal singolo "Life Is Beautiful", che finì anche nella colonna sonora di Grey’s Anatomy, e dai reiterati gossip sulla liaison fra il chitarrista Bruce Gainsford e Scarlett Johansson. Nonostante i numerosi concerti tenutisi nel periodo, la piccola stella Vega4 smise di brillare in poco tempo, e la band, nel 2008, si sciolse nell’indifferenza generale.

Eppure, i due album pubblicati fino ad allora erano dannatamente buoni, soprattutto l’esordio, di cui non si accorse nessuno e che oggi è stato quasi del tutto dimenticato, anche da coloro che a quella seconda ondata di brit pop avevano guardato con interesse.

Satellites è un viaggio sonoro di circa cinquanta minuti in territori le cui coordinate erano state abbondantemente tracciate, che evoca paragoni con le band più illustri del periodo, ma che denota anche la forte volontà di dare un connotato personale al suono. In tal senso, se le belle melodie richiamano gli anni d’oro del brit pop, i brani sono innervati da un surplus di elettricità, con la chitarra di Gainsford sempre in bell’evidenza, sia che traini il brano, sia come sottofondo disturbante o aggregante.

L’opener "Drifting Away Violently" è, in tal senso, un ottimo esempio di come i Vega4 concepivano i brani: riff grintosissimo, melodia cristallina nella sua immediatezza, e la chitarra che sotto traccia scartavetra con piglio psichedelico, accompagna accattivante, e sferra rumorose bordate elettriche, che ricordano un po’ i Radiohead dei primi anni. La stessa cosa avviene nella struggente e infuocata "Shoot Up Hill", in cui le scorribande elettriche di Gainsford imperversano per tutto il brano, distorte e malevole, nonostante il tema melodico malinconicissimo (un approccio che ai tempi era marchio di fabbrica anche degli scozzesi Idlewild).

La bravura dei Vega4, tuttavia, si concentrava soprattutto nella scrittura di midtempo dall’appeal radiofonico, come l’irresistibile "Radio Song" (titolo azzeccatissimo) o "Sing", più spigolosa ma confezionata (vedi la coda del brano) per un divertente singalong da stadio, e per l’indubbia capacità di ricamare dolci ballate agrodolci, cariche di struggente malinconia. E’ il caso della splendida "Loves Breaks Down", una specie di "Sonnet" dei Verve con una bustina di zucchero in più, della delicata "Burn And Fade Away", ballata per pianoforte e groppo in gola, o della conclusiva e lunga "Halleluja", anche questa in quota Radiohead, il cui drive melodico s’infrange contro il muro di una coda elettrica distorta e sferragliante.

Come questo disco sia riuscito a perdersi nell’oblio resta un mistero. Forse, era troppa l’offerta brit pop del periodo, e forse gli ascoltatori ne avevano fin sopra i capelli di una formula rimasticata per un decennio. Eppure, le undici canzoni in scaletta, pur non inventando nulla di nuovo, avrebbero meritato ben altra sorte, grazie a una scrittura consapevole e alla bravura della band di mettere fremente elettricità al servizio di melodie, non dissimili per brillantezza, a quelle di tante band coeve, che ebbero maggior successo.

 


 

 

Blackswan, martedì 11/02/2025

lunedì 10 febbraio 2025

David Gray - Dear Life (Laugh A Minute Records, 2025)

 


Non si può parlare di David Gray prescindendo da White Ladder, l’album che, nel 1998, dopo tre dischi anonimi, diede l’agognato successo internazionale (centomila copie vendute solo in Irlanda, prima posizione in Inghilterra, top 40 negli Stati Uniti) al songwriter britannico. Da quel momento in avanti la strada avrebbe dovuto essere tutta in discesa, eppure, pur mantenendo una solida fanbase, la stella di Gray si è fatta nel tempo molto meno luminosa, complici anche dischi non sempre ispiratissimi.

Alti e bassi, dunque, ma anche una coerenza artistica invidiabile, attraverso la quale il musicista inglese ha tenuto fede al proprio credo musicale, costruito su un tenue melange di folk e pop, spesso avvolto nella morbida coltre di un’elettronica minimale e gentile, cercando, tuttavia, disco dopo disco, di evitare il copia incolla del suo più grande successo, per arricchire la proposta di nuove sfumature.

Dear Life, tredicesimo album in studio, raccoglie tredici canzoni che declinano, più o meno, tutto ciò che Gray ha suonato nei suoi dischi precedenti, ad un livello d’ispirazione, in questo caso, altissimo.

Un disco che suona come una lunga conversazione, a notte fonda, davanti al camino, il tepore di un single malt come abbrivio per sciogliere la lingua e trovare le parole giuste, figlie di uno stato d’animo introspettivo che riflette sulla vita e su tutte le questioni complesse che riguardano la nostra esistenza, l’amore, la morte, la fede, l’illusione, la capacità di accettare il destino, la bellezza, la caducità. Ne deriva un’opera articolata, composta di momenti scarni e intimisti ed altri più briosi, di luce e di penombra, di speranza e di malinconia. Il tutto raccontato con il consueto stile, elegante, discreto, eppure così sincero e appassionato.

L'album ha richiesto molto tempo, David ha iniziato a scriverlo originariamente nel 2019 (l’anno di Gold In A Brass Age), ma a causa della pandemia del 2020 e poi del tour riprogrammato per il ventesimo anniversario di White Ladder, Dear Life è passato in secondo piano. Lo scorrere del tempo, però, e quella visione più chiara che deriva dalla lentezza, hanno fornito a Gray la giusta prospettiva, per rifinire il suono e scegliere fra ben trenta canzoni, le tredici che sarebbero confluite in scaletta. Il titolo del disco, poi, à stato preso in prestito da una raccolta di racconti di Alice Munro, vera fonte di ispirazione per cogliere l’essenza della vita, affrontata in quello che è probabilmente il disco più lirico di Gray, che accosta, in un flusso lungo un’ora e dieci minuti, intensità, fragilità, spazio per respirare, penombra per meditare, lo stupore di sentirsi vivi, il rimpianto per ciò che non è stato (in "Leave Talking", Gray canta “di aggrapparsi con tutto il cuore a ciò che non è mai stato mio").

Un disco doppio, e decisamente lungo, a cui manca una "Babylon", ma a cui non mancano le belle canzoni, alcune decisamente splendide, altre meno brillanti, ma perfettamente inserite in un contesto estremamente coeso, per quanto volubile come i diversi stati d’animo di Gray. Alcuni episodi sono tra le cose più intense mai scritte dal cantautore britannico, come ad esempio la fragile e toccante "That Day Must Surely Come", agrodolce riflessione sulla morte e sulla finitezza umana, un brano struggente che veicola, però, un pacato senso di accettazione, che rende meno salato il sapore delle lacrime.

A livelli altissimi sono anche "Sunlight On Water", riflessione malinconica sugli errori commessi ("come farò a rimettere a posto tutti i pezzi?") e l’apertura poetica, contemplativa e strutturata di "After The Harvest", struggente combinazione fra infiorescenze orchestrali, un fragile arpeggio acustico e il cantato sincero, spontaneo e intenso di Gray.

Dalle riflessioni sulle relazioni e le scelte che ne derivano raccontate in "The First Stone", in cui Gray s’immerge in una vaporosa elettronica, creando un’avvolgente dimensione amniotica, mentre si chiede perché "dovevi essere tu a lanciare la prima pietra", alla contemplazione della nostra fragile presenza nell’immensità dell'universo attraverso l’incedere ipnotico di "The Only Ones", David affronta ogni aspetto della vita, alternando argomenti più cupi e toccanti, a molti momenti luminosi grazie alle melodie cristalline e una produzione mirata, discreta, che si poggia su piccole, ma non irrilevanti sfumature.

Dear Life è un album di contrasti: vita e morte, speranza e disperazione, oscurità e luce. E quando il sole splende alto, Gray cesella il suono fresco e accattivante di "Plus & Minus", electro-pop cantato in duetto con Talia Rae, un brano leggiadro ed effervescente nella sua irresistibile progressione melodica.

Meditativo, sincero, traboccante di dolcezza e di malinconia, Dear Life è una lettera d'amore che il cinquantaseienne musicista indirizza alla vita, per raccontarne la complessità, per fare un bilancio delle relazioni che compongono gli intrecci dell’esperienza umana, per riflettere sul tempo che scorre, sulla perdita, sul nostro inesorabile destino. Tra le righe, tuttavia, è implicito anche un ringraziamento, per la bellezza, per le gioie, per i sentimenti che rendono l’esistenza un viaggio affascinante, unico. Non solo rimorsi e rimpianti, ma anche speranza e ottimismo, la felicità di svegliarsi al mattino e contemplare quel mistero, ricco di fascino e di imprevisti, che è l’esistenza.

Voto: 8

Genere: Pop, Folktronica

 


 

 

Blackswan, lunedì 10/02/2025

venerdì 7 febbraio 2025

Katarzyna Bonda - Non Esistono Buone Intenzioni (Piemme, 2018)

 


La ex poliziotta e profiler Sasza Zaluska, trentasei anni e i capelli rosso fuoco, ne sa qualcosa di pessime scelte. Ma adesso è tornata a casa, a Danzica, sulla costa ventosa del mar Baltico, ed è decisa a ricominciare, insieme alla piccola Karolina. Senza un uomo, e senza l'alcol: non ha più bisogno di nessuno dei due. Ma sfuggire al passato non è facile. E per Sasza Zaluska c'è un richiamo più forte di tutto: quello della vecchia vita. Così, quando un ex sbirro della polizia di Danzica la rintraccia per un lavoretto di profiling, Sasza suo malgrado accetta. Ben presto, maledicendosi per il tempo sottratto alla figlia, e per la voglia di bere che torna prepotente, si troverà a indagare sull'omicidio di un cantante famoso e a fare coppia di nuovo con il commissario Duchnowski detto Duch, un uomo che ne ha viste abbastanza per decidere che nella vita non ci sono amici, c'è solo l'alcol. Finiranno così a navigare insieme il sottobosco criminale di una Danzica cupa e ottenebrata, tra donne che hanno perso tutto, compresi gli scrupoli, preti che non credono in Dio, e gente piena di buone intenzioni finite molto male. Fino a imbattersi in una vecchia storia d'amore diventata storia di vendetta, come cantava il cantante ammazzato nella sua unica hit, Ragazza del Nord.

Ex poliziotta ed ex alcolista, Sasza Zaluska, schiva e abile profiler, appena tornata dall’Inghilterra a Danzica, sua terra natale, viene coinvolta dalla polizia locale per tracciare il profilo dell’assassino di un cantante famoso, ma ormai ai margini della scena musicale polacca. Una testimone, sopravvissuta al delitto, indica immediatamente il colpevole, una giovane barista che lavora nel club frequentato dal cantante. Ma qualcosa non quadra e le indagini, che coinvolgono un prete famoso, la mafia, poliziotti corrotti e i loschi intrighi di una finanziaria che ha sede in tutto il Paese, finiscono presto in un cul de sac. Saranno la testarda profiler, un ispettore di polizia anarchico e intollerante alle gerarchie, e un bonario agente della scientifica a far luce sul complesso caso, la cui soluzione sta tutta nel testo di una canzone di successo.

Non Esistono Buone Intenzioni è un romanzo costruito, capitolo dopo capitolo, con sapienza e con precisione certosina, dando respiro alla storia di tutti i personaggi coinvolti, grazie a una prima parte in cui vengono ricostruiti gli antefatti di quella che poi sarà la vicenda principale. La scrittura è ottima, così come la capacità della scrittrice di indagare su quel male di vivere chiamato alcolismo e di raccontare la realtà di un paese, la Polonia, che sembra vivere in una terra di mezzo fra modernità (le tecniche di investigazione, un certo lusso di facciata sfoggiato scimmiottando l’occidente, etc) e una cultura cattolica radicatissima in un tessuto sociale che appare ancora legato a doppio filo agli anni della guerra fredda.

Se questi sono gli elementi più interessanti del romanzo, per converso, si assiste a una complicatissima messa in scena in cui, e questo è forse un limite del lettore occidentale, i ritmi sono tutt’altro che frenetici e i colpi di scena centellinati col misurino. La lettura, poi, è, forse, resa più complessa da nomi di personaggi che, vista la distanza lessicale con l’Est Europa, non sono facilissimi da memorizzare, e qualcosa si perde, inevitabilmente, a causa della lunghezza del libro, che supera le seicento pagine, rendendo più sfumato il filo narrativo. Non Esistono Buone Intenzione è, in definitiva, una lettura inconsueta e piacevole, ma difficile da poter inserire tout court nel filone thriller, che ha bisogno di qualche palpito in più.

 

Blackswan, venerdì 07/02/2025

mercoledì 5 febbraio 2025

Black Pumas - Live From Brooklyn Paramount (Ato Records/Pias, 2024)

 


Originari di Austin, Texas, progetto messo in piedi dal cantante Eric Burton (con la T, fate bene attenzione) e da Adrian Quesada, songwriter, chitarrista, produttore e vincitore di un Grammy Award con la band di provenienza, i Grupo Fantasma, i Black Pumas hanno pubblicato due soli album, entrambi bellissimi (l’esordio omonimo del 2019 e Chronicles Of a Diamond del 2023),  capaci di catturare l’essenza del soul e del funk più classici, infondendola con uno spirito decisamente contemporaneo e un tocco di eccitante retro psichedelia.

Un mix di eleganza e passione, di raffinatezza e urgenza espressiva, che è valso loro l’apprezzamento della critica e un robusto riconoscimento commerciale, grazie anche a un paio di singoli che hanno stazionato nelle parti alte delle classifiche. Un successo, peraltro, che si deve anche ai loro emozionanti spettacoli dal vivo, uno dei quali, tenutosi al Brooklyn Paramount di New York la notte del 30 luglio dello scorso anno, è stato pubblicato sul finire del 2024 sotto l’etichetta Ato Records, in cd e vinile.

Questo live cattura perfettamente l’energia delle loro esibizioni esplosive, fotografando Adrian Quesada, Eric Burton e la loro incandescente backing band in uno stato di grazia superlativo. La produzione è incredibilmente chiara, così incontaminata che sembra quasi una registrazione in studio con l'aggiunta del rumore del pubblico. E questo è, lo dico sempre, l’unico limite di un live che, pur trasudando di incontaminata energia, avrebbe reso meglio con un lavoro di post produzione meno accurato. Anche perché la band è pimpantissima e interagisce di continuo con il pubblico, la cui presenza, però, è relegata quasi totalmente a un modesto rumore di sottofondo.

La voce soul di Burton, poi, è intensa e appassionata come nelle versioni in studio, mentre il lavoro di chitarra psichedelica di Quesada e la sezione ritmica serrata creano un groove a dir poco ipnotico.

La scaletta è un viaggio attraverso il repertorio della band, con ovvia attenzione alle canzoni preferite dai fan (non mancano "Colors" e "More Than a Love Song") e, come sorpresa (anche se dal vivo è un momento consolidato) un'intensa interpretazione di "Fast Car" di Tracy Chapman durante i bis, un brano che mette in risalto la versatilità della band e si adatta perfettamente al loro sound soul-psichedelico, in bilico tra modernità e classicismo.

Poco altro da dire: Live From Brooklyn Paramount è un disco dal vivo travolgente, perfetto compendio della musica dei Black Pumas, band straordinariamente abile nel tradurre neo-soul, rock psichedelico ed energia urbana in una formula unica e contagiosa. Se già avete visto la band dal vivo, questo è il modo migliore per portarvi a casa il ricordo di un’esperienza unica, se invece siete totalmente neofiti, questo live è il modo più rapido per conoscere i Black Pumas, un gruppo di cui sentiremo parlare per molto tempo ancora.
 
Voto: 8
Genere: Live, Rock, Soul, R'n'B
 
 

 

 
Blackswan, mercoledì 05/02/2025

martedì 4 febbraio 2025

The Vines - Highly Evolved (Capitol, 2002)

 


Non proprio meteore, ma quasi. La storia degli australiani The Vines ha avuto inizio con la luce accecante di un esordio che fece gridare molti al miracolo, e si è, poi, lentamente ma inesorabilmente affievolita: la band è diventata patrimonio di pochi fedeli fan, ha perso la centralità mediatica conquistata gagliardamente nel 2002, anno del debutto, continuando a rilasciare dischi onesti ma privi della brillante ispirazione che aveva conquistato tutti con l’opera prima, Highly Evolved.  

Il gruppo nasce a metà degli anni ’90 nei sobborghi di Sydney, dove il cantate Craig Nicholls e il bassista Patrick Matthews sbarcano il lunario come camerieri di un McDonals. Ai due, che iniziano a coltivare sogni di rock’n’roll, si unisce il batterista David Oliffe, dando vita così al primo progetto chiamato inizialmente Rishikesh, nome scelto da Nicholls in riferimento a un luogo in India visitato, anni prima, dai membri del suo gruppo preferito, i Beatles.

Quando iniziarono a farsi conoscere suonando nei locali della natia Sydney, i giornali locali, però, per un errore di stampa, cambiarono il nome in Rishi Chasms, così i tre decisero di chiamarsi The Vines, nome suggerito dal padre di Nicholls, frontman di una cover band di Elvis Presley chiamata, appunto, The Vynes. La band, che nel frattempo aveva composto numeroso materiale, si trasferì a Los Angeles per iniziare le registrazioni del debutto, ma siccome i fondi scarseggiavano, il progetto naufragò quasi subito, Oliffe mollò il colpo (salvo poi rientrare alla base), e nella line up entrò a far parte Ryan Griffiths alla chitarra.

Ripresi i lavori, i Vines firmarono, quindi, un contratto con la Heavenly Records nel Regno Unito e con Emi in Australia (successivamente il disco fu distribuito dalla Capitol), mentre la title track pubblicata come singolo volava nelle classifiche di mezzo mondo. Quando l’album fu pubblicato (14 luglio del 2002), ottenne il consenso unanime della critica (la band finì in copertina su Rolling Stone e NME) e un inaspettato successo commerciale, piazzandosi al terzo posto in Inghilterra, al quinto in Australia e all’undicesimo negli Stati Uniti (merito anche di un altro singolo, "Get Free", che fece il botto ovunque).

Qual era, dunque, il motivo di questo successo travolgente? Semplice: la capacità di Nicholls e compagni di accostare nel loro sound due pilastri della musica rock: da un lato le asprezze grunge degli americani Nirvana, dall’altro, il tocco british di melodie prese in prestito ai Beatles, che, come accennato, era la band preferita del leader. L'originalità del disco non deriva, ovviamente, dall'imitazione pedissequa delle due icone musicali, quanto semmai dal mescolarle insieme, in un unicum omogeneo che solo i migliori artisti sono in grado di padroneggiare. Inoltre, la voce del frontman Craig Nicholls riusciva facilmente evocare il tormento di Cobain quanto l’eleganza tutta inglese della coppia Lennon/McCartney.

Il miracolo fu che, invece di un pasticcio, il disco suonava equilibrato, feroce e melodico al contempo, suscitando notevole entusiasmo in tutti coloro che, amanti del classic rock, si sentivano eccitati da un accostamento apparentemente dissonante e invece perfettamente riuscito.

Le distorsioni e le urla di Nicholls sono il propellente della title track, che sfreccia per un minuto e mezzo verso Seattle. Una potenza di fuoco che si spegne immediatamente in "Autumn Shade", ballata acustica, malinconica e vagamente psichedelica, che nel suo incedere strascicato ricorda i Fab Four, salvo perdersi, poi, in una coda strumentale che si dissolve nell’eco di una distorsione. "Outtathaway", secondo singolo estratto, è più realista del re, nel riprendere la pulsione grezza di certi brani di Cobain, in cui tuttavia non manca un piglio melodico lascivo e infuocato, così come "Homesick" è una delle canzoni più betlesiane mai ascoltate da fine carriera dei Fab Four. E se "Get Free" è un lanciafiamme esiziale insufflato di ustionante Seattle sound, "Factory" è un curioso tentativo di rileggere "Ob-La-Di, Ob-La-Da" in un’inconsueta chiave ska, che improvvisamente derapa, però, in contorsioni elettriche nirvaniane.

Se la versatilità dei Vines e la gamma vocale di Nicholls sono impressionanti, la band, però, aveva bisogno anche di dare vita a idee meno derivative, di uscire dal binomio Seattle /Liverpool, cosa che avviene con la rock disco psichedelica del midtempo "Sunshinin", guarda caso, uno dei brani migliori in scaletta.  

Per la maggior parte, tuttavia, i fantasmi di Lennon ("Mary Jane") e Cobain ("In The Jungle") sono i capitani di questa nave pirata e battagliera, pregio e limite di un’avventura musicale finita, praticamente, con il seducente esordio. Che, se da un lato ha rappresentato il conturbante sogno erotico di ogni eugenetista musicale, dall’altro, ha abbagliato con l’urgenza espressiva, l’intensità e il furore di quattro ventenni capaci di riaccendere, anche se per una breve stagione, la miccia del rock’n’roll. Non un disco epocale, ma un piccolo, eccitante contributo alla storia, che merita di essere riscoperto.

 


 

 

Blackswan, martedì 04/02/2025

domenica 2 febbraio 2025

Take Me To Church - Hozier (Rubyworks/Island, 2013)

 


Una voce possente, quella dell'artista irlandese Andrew Hozier Byrne, meglio conosciuto come Hozier, e una canzone bellissima e controversa, Take Me To Church, che ebbe un successo clamoroso: il brano, infatti, è stato il più ascoltato in streaming a livello globale su Spotify nel 2014, con 87 milioni di click, è arrivato in cima alle classifiche in diversi paesi, tra cui Austria, Belgio, Portogallo, Svezia e Svizzera, mentre ha raggiunto la seconda piazza nel paese natale di Hozier, l’Irlanda,  e poi in Canada, Francia, Germania, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti.

Una canzone bellissima, abbiamo scritto, ma anche foriera di polemiche, visto i temi affrontati nelle liriche, che metaforicamente paragonano un amante alla religione.

 

“Portami in chiesa

Adorerò come un cane il santuario delle tue bugie

Ti racconterò i miei peccati e tu potrai affilare il tuo coltello

Offrimi quella morte immortale

Buon Dio, lascia che ti doni la mia vita”

 

Hozier compose il brano come reazione alla rottura con la sua fidanzata di allora, avendo in animo di scrivere una canzone sull’amore, che però avesse anche ulteriori implicazioni di natura etica, oltre che sentimentale. Fu lo stesso Hozier a spiegarlo in un’intervista all’Irish Time: "Ho scoperto che l'esperienza di innamorarsi o essere innamorati era una morte, la morte di tutto. In un certo senso ti guardi morire in un modo meraviglioso e sperimenti per un brevissimo istante – se ti vedi per un momento con gli occhi degli altri – che tutto ciò in cui credevi su te stesso se n'è andato, nel senso di morte e rinascita.”

Ma c’è di più. Hozier ha attirato ulteriore attenzione e polemiche grazie alla video clip del brano, diretta da Brendan Canty, che critica la repressione dei gay in Russia e l’approccio retrivo e conservatore della chiesa d’Irlanda nei confronti della sessualità. La Chiesa cattolica, secondo il songwriter, è un’organizzazione ipocrita e ferocemente reazionaria, sempre pronta a scagliarsi contro le minoranze sessuali.

Una presa di posizione esplicita e diretta, quella di Hozier, come appare evidente da una dichiarazione dell’epoca rilasciata alla rivista The Cut: "La sessualità e l'orientamento sessuale, indipendentemente da quale sia questo orientamento, sono semplicemente naturali. Un atto sessuale è una delle cose più umane che esista. Ma un'organizzazione come la Chiesa, ad esempio, attraverso la sua dottrina, minerebbe l'umanità insegnando che un diverso orientamento sessuale rispetto a quello etero è peccaminoso e offende Dio. La canzone significa affermare te stesso e rivendicare la tua umanità attraverso un atto d'amore."

Take Me To Church, che è stato il brano con la parola Church inserita nel titolo a raggiungere la posizione più alta nelle classifiche americane (la precedente era Church of the Poison Mind dei Culture Club nel 1983) fu scritta da Hozier al pianoforte, mentre la voce fu registrata alle tre di una mattinata di gennaio del 2013 utilizzando un laptop, e solo successivamente mixata alla melodia.

Pochi mesi dopo che Hozier pubblicò Take Me To Church, un'altra cantante irlandese, Sinéad O'Connor, inserì un brano con lo stesso titolo in quello che sarebbe stato il suo ultimo album in studio, I'm Not Bossy, I'm The Boss. Si era trattato di un caso, ovviamente, ma che evidenziava lo stretto legame fra due artisti capaci di andare controcorrente e di prendere, nella cattolicissima Irlanda, posizioni impopolari contro le istituzioni religiose. Qualche anno dopo, Hozier riconobbe pubblicamente quanto fosse stato ispirato dalla O’Connor: “Non credo che un musicista della mia generazione avrebbe mai avuto il coraggio di scrivere Take Me To Church sulla chiesa cattolica romana istituzionalizzata e sulla sua eredità in Irlanda, se non fosse stato per artisti come Sinéad".   




Blackswan, lunedì 02/02/2025