mercoledì 24 dicembre 2025

Emanuele Atturo - Il Mito Dei Bomber Di Provincia. Un Almanacco Sentimentale (Einaudi, 2025)

 


Avevano un coro personalizzato allo stadio, un soprannome immaginifico, una tifoseria devota. Hübner, Protti, Zampagna, Luiso, Flachi, Riganò... Ognuno di loro è stato ed è tuttora oggetto di un culto diverso, ma insieme esprimono un mondo dimenticato. Mentre il calcio è sempre piú professionalizzato, questo libro è una frenata a mano sul cuore: un omaggio appassionato a quei bomber che hanno fatto della provincia il loro regno e della porta avversaria il loro destino.

 

Frombolieri spietati, visionari della giocata impossibile, operai del goal voluto con feroce determinazione: Hubner, Protti, Flachi, Riganò e Zampagna sono solo alcuni dei nomi di quei bomber di provincia raccontati con appassionata meraviglia da Emanuele Atturo, in questo libro emozionante e godibilissimo.

Vite semplici di uomini semplici, che sono stati straordinari attaccanti, senza, tuttavia, entrare mai a far parte della storia che conta: per scelta di vita, per amore di una maglia, per scelte esistenziali incoerenti con le regole rigide dello sport, o per uno sgambetto del fato, difensore più arcigno di qualunque stopper sia mai sceso in campo.

Giocatori che, però, si sono conquistati un posto d’onore in quella mitologia da bar fatta di aneddoti curiosi, di ricordi indelebili, di partite epiche, di goal fotografati in un attimo eterno e da mandare a memoria ai propri figli. I bar della Gazzetta letta sul frigorifero dei gelati, delle chiacchiere sportive fugaci come un caffè e un saluto, o di quella prosopopea calcistica, un po’ alticcia ed estenuante, accompagnata da una teoria inarrestabile di bianchini spruzzati.

Grandi campioni, spietati killer dell’aria di rigore, che le grandi squadre le hanno solo incrociate, ambendo orizzonti troppo lontani per le loro carriere sportive di piccolo cabotaggio, ma che Atturi rende vividi e immortali, in questo libro di poco più di duecento pagine, che si legge d’un fiato e che ha come fil rouge la nostalgia.

La nostalgia per un calcio che non c’è più, risucchiato in un vortice grigio dalla spietata logica del profitto, che ha duplicato all’infinito il numero delle partite, troppe e una uguale all’altra, togliendo al calcio la sua forza evocativa: quella legata alla commozione del ricordo, dell’epicità dell’evento e della poesia dell’attimo. Atteggiamenti da ticktocker, musica trap pompata come habitus culturale, tatuaggi che nemmeno nella più sordida prigione venezuelana, abiti ignobili sfoggiati con non curante e stolida arroganza da chi può tutto, dall’alto di un contratto milionario. E alla prima spintarella, tutti giù per terra, urlanti come agnelli al mattatoio. Questi, per buona parte, sono i calciatori di oggi, questo il calcio che viviamo.

Come si fa, allora, a non provare nostalgia per Darione Hubner, un bisonte asfalta difese e refrattario al dolore, che nell’intervallo della partita si fumava una sigaretta e non rifiutava mai un buon bicchiere di grappa?

Troverete tutto questo, e molto altro, in Il Mito Dei Bomber Di Provincia, un libro che intreccia storie di calcio al tessuto socio culturale del momento, che snocciola gustosissimi aneddoti, che racconta i goal come se li vedessimo in diretta, e che, oltretutto, è scritto benissimo da chi, come noi, ama questo sport (un tempo) meraviglioso.

 

Blackswan, Mercoledì 24/12/2025

martedì 23 dicembre 2025

Wucan - Axioms (Long Branch Records, 2025)


 

Tutto nasce dalla grande passione per il classic rock della cantante, chitarrista e flautista Francis Tobolsky, che nel dicembre del 2011, pubblicò un annuncio su una rivista studentesca intitolato "Cercasi Blues Brothers", con l'intenzione di formare una band. Risposero all’annuncio il chitarrista Tim George e il batterista "Pätz", che iniziano a suonare insieme per tutto il 2012, anno in cui la formazione fu completata quando il bassista Patrik Dröge si unì alla line up a novembre. Nel 2013, con un bagaglio di canzoni già pronte per l’uso, i Wucan iniziano a suonare nei locali di Dresda, loro città di origine, trovando lentamente riscontri positivi anche su tutto il territorio nazionale.

Svariati cambi di formazione, non hanno fermato l’ascesa del progetto, sempre saldamente in mano alla frontwoman Tobolsky e arrivato oggi al quarto album in studio, intitolato Axioms, cioè assiomi. Principi indiscutibili come quelli su cui si è sempre basata la musica del gruppo tedesco, i cui piedi son ben piantati nell’hard rock di derivazione settantiana, riletto però con accenti che vanno dal prog, allo stoner e al doom. Eppure, questo nuovo album, alla faccia degli assioni, pur mantenendo invariate le fonti d’ispirazione, esce dalla comfort zone proponendo eleganti e incisive variazioni sul tema.

La proposta è, dunque, stratificata e richiede tempo per essere esplorata, i brani si fanno strutturalmente più complessi avvicinandosi parecchio al mondo progressive, senza che tuttavia vengano meno le sciabolate hard e la consueta dose di melodia.

Il brano di apertura, "Spectres of Fear", offre un primo entusiasmante assaggio dell'album, è una cavalcata rapida, quasi rabbiosa, la voce della Tobolsky è tirata al limite e quel flauto che imperversa ovunque rimanda inevitabilmente ai Jethro Tull, ma a dei Jethro Tull strafatti di anfetamine.

Una bella botta, seguita dall’incandescente derapata intitolata "Irons in the Fire" in quota NWOBHM, con una parte centrale sostenuta da un basso impetuoso su cui si muovono vertiginose le scorribande della sei corde.

L'inizio del funky "Wicked, Sick and Twisted" è caratterizzato dalla volontà della band di sperimentare con l'elettronica, il groove è contagioso e mette in mostra la versatilità del gruppo tedesco, che gira intorno alla linea di basso con eleganti tessiture jazzy.

La volontà di uscire dai soliti schemi è ben evidente anche nella successiva e sorprendente "KTNSAX", in cui l’elettronica è messa al servizio di una sezione ritmica quadrata e di una melodia ipnotica, le cui chitarre nervose chiamano in causa addirittura i Blondie.

"Holz auf Holz", cantata in tedesco, è uno dei brani più complessi dell'album, sottolineando le qualità tecniche della band e la volontà di uscire dall’ovvio, il piede sempre pigiato sull’acceleratore, ma in direzione prog rock.

L'inizio evocativo di "Pipe Dreams" è solo uno specchietto per le allodole, perché la canzone parte poi rapidissima tirando fuori una propensione quasi metal e mettendo in evidenza la strabiliante estensione della Tobolsky, la cui voce si eleva altissima in mezzo a uno sferragliare di chitarre agguerrite. Una corsa a rotta di collo che evapora di fronte alle iniziali trame evanescenti e ai colori pastello della title track, che si immerge lentamente nel prog rock anni ’70, richiamando ancora alla mente i Jethro Tull.  

Chiude la scaletta "Fountain of Youth", arpeggio di chitarra, la voce straordinaria della frontwoman, traboccante soul, e un’improvvisa accelerazione che aumenta l’intensità di un brano sempre più vibrante e travolgente. In un certo senso, "Fountain of Youth" riunisce in sette minuti tutti gli elementi della musica dei Wucan, formando un capitolo finale in cui convivono rock, folk, prog e propensione alla jam, declinati con la consueta eleganza tecnica e dirompente energia.

Con Axioms, i Wucan, pur non rinnegando completamente le proprie fonti d’ispirazione, prendono una direzione diversa, rendono la loro musica più versatile e, in certi casi, meno immediata, guadagnandone però in fascino e, dopo quasi tre lustri, aprendo a una seconda fase di carriera decisamente intrigante.

Voto: 8

Genere: Hard rock, Prog Rock

 


 


Blackswan, martedì 23/12/2025

 

lunedì 22 dicembre 2025

We Are The World - USA For Africa (Columbia, 1985)


 

La risposta americana alla britannica Band Aid e a "Do They Know It’s Christmas" (1984): "We Are The World" degli USA For Africa fu pubblicata l’anno successivo come iniziativa benefica per le vittime della carestia in Etiopia, raccogliendo oltre cento milioni di dollari devoluti tutti alle popolazioni afflitte dal disastro climatico.

A scriverla furono Michael Jackson e Lionel Richie, mentre Quincy Jones la produsse. Questo talentuoso trio era perfetto per il lavoro: Quincy Jones era il produttore più in voga del momento, Richie aveva scritto canzoni che erano arrivate al primo posto della Hot 100 in ciascuno dei sette anni precedenti, mentre Michael Jackson aveva pubblicato l'album di maggior successo del 1984 con Thriller (prodotto da Jones) ed era la star più in voga del momento.

Il progetto USA For Africa (United Support of Artists for Africa), tuttavia, nacque da un'idea del cantante calypso Harry Belafonte, che aveva l’intenzione di organizzare un concerto di beneficenza coinvolgendo solo musicisti neri. Alla fine di dicembre del 1984, alla ricerca di artisti da arruolare, Belafonte chiamò Ken Kragen, che gestiva un impressionante gruppo di talenti, tra cui Lionel Richie. Kragen convinse Belafonte che avrebbero potuto raccogliere più fondi e avere un impatto maggiore con una canzone originale invece che con un singolo concerto. Belafonte accettò e Richie si unì immediatamente ai due per dare una mano. Kragen, allora, chiese a Quincy Jones di produrre il brano, e Jones arruolò Michael Jackson. Richie coinvolse anche Stevie Wonder, una scelta che fu l’abbrivio decisivo per rendere partecipi molti membri dell'industria musicale, che accettarono di collaborare.

 

Il progetto, dall'ideazione alla registrazione, durò circa un mese e, come accennato, fu modellato sui Band Aid, il gruppo britannico formato da Bob Geldof l'anno prima per registrare "Do They Know It's Christmas?". I Band Aid, che includevano Bono, Phil Collins, David Bowie, Paul McCartney e Sting, furono d’ispirazione, dimostrando come un gruppo eterogeneo di artisti famosi potesse riunirsi in un giorno per registrare una canzone ed avere un incredibile successo.

Il singolo fu registrato agli A&M Studios di Los Angeles il 28 gennaio 1985, la sera degli American Music Awards, che si tennero al vicino Shrine Auditorium. Dato che gli artisti erano tutti in città per la premiazione, fu molto più facile riunirli per registrare il singolo.

Le star che cantarono da solisti furono, nell'ordine, Lionel Richie, Stevie Wonder, Paul Simon, Kenny Rogers, James Ingram, Billy Joel, Tina Turner, Michael Jackson, Diana Ross, Dionne Warwick, Willie Nelson, Al Jarreau, Bruce Springsteen, Kenny Loggins, Steve Perry, Daryl Hall, Michael Jackson (di nuovo), Huey Lewis, Cyndi Lauper e Kim Carnes. Anche Bob Dylan e Ray Charles parteciparono al brano e vennero ripresi in primo piano nel video. Harry Belafonte, che aveva avuto l'idea originale del progetto, cantò nel ritornello ma non ottenne un assolo, unendosi, invece, a Bette Midler, Smokey Robinson, The Pointer Sisters, LaToya Jackson, Bob Geldof (unico non americano a partecipare al progetto), Sheila E. e Waylon Jennings come corista.

A Prince fu chiesto di unirsi al progetto e Quincy Jones si aspettava la sua presenza, ma il genio di Minneapolis non si presentò, non perché non fosse d’accordo con gli intenti benefici ella canzone, ma in quanto restio a collaborare con altri artisti. A ogni modo, diede il suo contributo, donando un brano esclusivo intitolato "4 The Tears In Your Eyes" che venne inserito nel successivo 33 giri, anch'esso intitolato "We Are The World" e pubblicato il mese successivo.

Il singolo da 7 pollici (la versione radiofonica) dura 6 minuti e 22 secondi, ma fu pubblicato anche un singolo da 12 pollici di 7 minuti e 19 secondi. Michael Jackson e Lionel Richie dovettero rendere la canzone così lunga per poter ospitare il maggior numero possibile di cantanti: si trattava di trovare un equilibrio tra l'inserimento di più assoli di star e il mantenimento di una durata sufficiente per la trasmissione radiofonica. 

Quincy Jones, oltre a produrre, era anche il responsabile della gestione di tutte le star coinvolte, alcune, come immaginabile, con un ego smisurato. Eppure, andò tutto liscio, nonostante alcuni artisti molto famosi non riuscirono a cantare nemmeno una strofa. Prima dell'inizio della sessione, Jones decise dove tutti si sarebbero piazzati. Mise del nastro adesivo sul pavimento con il nome di ogni cantante. C'era una politica di "niente ego", ma Jones elargì alcune cortesie, come, ad esempio, mettere Diana Ross in prima fila.

La canzone ha solo due strofe e segue una struttura base: strofa-ritornello-strofa-ritornello-bridge-ritornello. Ci sono sette cantanti nella prima strofa, ma solo tre nella seconda; la maggior parte degli assoli avviene durante le linee del ritornello.

Il brano vinse il Grammy Award come miglior canzone dell'anno, e superò le aspettative in termini di vendite. Pubblicato il 7 marzo 1985, inizialmente furono date alle stampe 800.000 copie, che andarono esaurite nel primo fine settimana. Grazie all'ampia gamma di star, le stazioni radio misero il brano in heavy rotation e MTV diede ampio spazio al video. Il singolo raggiunse, così, il primo posto negli Stati Uniti il 13 aprile, dove rimase per quattro settimane. Nel Regno Unito, raggiunse la vetta il 20 aprile e vi rimase per due settimane.

La sessione di registrazione per le parti vocali (Quincy Jones aveva registrato in precedenza le tracce strumentali) durò circa 12 ore, il che è quasi un miracolo, considerando la portata del progetto e un po’ di tensione che serpeggiò in studio. Molti artisti, infatti, ritenevano la canzone artisticamente modesta, tanto che, per fare un esempio, Cyndi Lauper, la definì, in uno scambio di vedute con Billy Joel, “uno spot per la Pepsi”. La cantante non smise di polemizzare e, anzi, continuò a creare disturbo durante la registrazione facendo tintinnare i suoi braccialetti vicino al microfono, facendo perdere la pazienza a un solitamente compassato Quincy Jones, che le disse, senza mezzi termini, che era libera di andarsene dallo studio.

Fu Bruce Springsteen a fare da collante alla serata e a convincere tutti della bontà del progetto, dando prova di spirito altruistico. Il Boss, infatti, concluse la tappa nordamericana del suo tour Born In The U.S.A. la sera prima a Syracuse, New York, e volò a Los Angeles il giorno dopo, recandosi in studio di registrazione in auto, saltando gli American Music Awards. Secondo Ken Kragen, Springsteen contribuì a placare le tensioni in studio, poiché i rocker non erano soddisfatti del brano e temevano per la propria credibilità. Springsteen diede l'esempio con la sua partecipazione incondizionata, convincendo tutti che lo scopo meritorio dell’operazione fosse più importante del valore artistico della canzone.

Ci è voluto un po' di tempo prima che le royalties di "We Are The World" arrivassero a destinazione, il che ha dato a Kragen e al suo staff il tempo di pianificare come usufruirne. Si concentrarono così sulla fornitura di cibo e di beni di prima necessità a quelle organizzazioni che avevano dimostrato impegno per la causa e la capacità di saper utilizzare le donazioni in modo efficace. E poco importa se la canzone fu bistrattata dalla critica specializzata: le vendite del singolo e dell’album salvarono la vita a migliaia di bambini affamati.

 


 

 

Blackswan, lunedì 22/12/2025

giovedì 18 dicembre 2025

Florence + The Machine -. Everybody Scream (Polydor, 2025)

 


Deve essere bello essere un uomo e fare musica noiosa solo perché puoi"

 

Con questo verso contenuto in "One of the Greats", seconda traccia tratta da questo nuovo Everybody Scream, Florence Welch ribadisce l’inclinazione femminista della sua musica, che è anche uno dei temi portanti e più sfacciatamente esibiti dell’album. D’altra parte, in tal senso, la copertina è abbastanza esplicita: la foto mostra la Welch inquadrata in un tipico atteggiamento maschile (e machista) con le gambe aperte e lo sguardo spavaldo, in una posa che suggerisce un bel dito medio mostrato agli innumerevoli concetti patriarcali della società odierna.

Non solo. Alla base del disco c’è un dramma personale, l’aborto spontaneo avvenuto durante il tour per la promozione di Dance Fever nel 2023. In Everybody Scream, però, la Welch fa molto più che descrivere dettagliatamente il trauma e dare forma al dolore attraverso le note. La riflessione è profonda e lacerante, ma, come evidente nel titolo, c’è anche un implicito invito a se stessa e all’ascoltatore a reagire, a liberare, attraverso un urlo catartico, la rabbia e la tristezza represse.

Questo disco è, dunque, un'opera in cui la Welch raggiunge il punto di ebollizione estrema e condensa questo mondo di dolore e confusione in dodici canzoni che non si risparmiano mai dal punto di vista emotivo. Qui ci sono alcune delle sue musiche più sincere composte fino ad oggi e, anche se il mondo sembra crollarle addosso, la songwriter londinese sembra uscirne più saggia e audace, consapevole come non mai.

Everybody Scream è anche un disco che si sviluppa in alternanza fra luci (poche) e ombre, mettendo ancora una volta sul piatto l’alone di mistero e il lato gotico che sono due elementi distintivi dell’artista anglosassone. Quell’estetica stregonesca alla Stevie Nicks, su cui la Welch ha sempre giocato, e non solo da un punto di vista estetico, emerge più che mai in questo disco, che, come detto, nasce in un momento buio e traumatico per la cantante.

Anche se la sua stella brilla sempre più luminosa ogni volta che viene menzionato il suo nome, quell’episodio traumatizzante e l'inevitabile tumulto emotivo che ne è conseguito, hanno gettato un'ombra oscura sulla sua vita. La vicinanza con la morte ha fatto scattare una molla decisiva, e quella strega che è sempre stata un sotto testo delle sue canzoni, emerge con forza e diventa protagonista della title track e della clip che l’accompagna, in cui la musicista accompagnata dal Deep Throat Choir, ensemble tutto al femminile (il suo "coro delle streghe", come lei stessa lo definisce), costruisce un mondo sonoro intriso di ritualità e liberazione: “La stregoneria, la medicina, gli incantesimi e le iniezioni / Il raccolto, l’ago, proteggimi dal male / La magia e la miseria, la follia e il mistero”.

Qui, la Welch personifica un'estetica che i suoi fan, e non solo, hanno sempre associato alla musica dei Machine, quella di una strega che scappa nei boschi per maledire coloro che le hanno fatto del male.

Per quanto ammantato di un alone crepuscolare, Everybody Scream è, comunque, ben lontano dall'essere solo un flusso di coscienza, un’immersione nel buio del dolore, un'analisi delle insidie che si celano nel realizzare i propri sogni, e, soprattutto, si tiene lontano dal tentativo di ripetere i successi passati.

La scaletta rappresenta semmai il momento in cui Welch si distingue dai suoi colleghi pop e si tuffa senza paura in un art-pop spazioso plasmato con il folk anni ‘70, sostenuto da percussioni incalzanti e levigato da una produzione che gioca per sottrazione, lasciando che siano l’immaginario vivido e sentimenti senza filtri a guidare i brani.

La strumentazione del disco, anche nei suoi momenti più esplosivi, come nella trascinante traccia che dà il titolo all'album e nella struggente "You Can Have It All", s’incentra su percussioni a cascata e incandescenti crescendo, lasciando però che la stella più luminosa sia sempre la Welch, il suo inarrivabile vibrato, la sua emotività trascinante.

Traumatica e incredibilmente sincera, la musica di Florence continua a muovere l'ago della bilancia in una cultura pop che è stata ridotta a canzoni abbastanza brevi da diventare virali in un video di TikTok. Lo stile barocco e la passione per l’art pop dei Florence + the Machine potrebbero sembrare in qualche modo anacronistici e fuori luogo in un contesto musicale attuale, eppure questa proposta ha mantenuto un certo livello di rilevanza in un'industria satura di inautenticità. E questo urlo, catartico e liberatorio, rende onore al genere, irrorandolo di sangue, bagnandolo di lacrime e pervadendolo di emozioni contraddittorie, ma mai così vere e totalizzanti.

Voto: 8

Genere: Indie Rock, Art Pop

 


 


Blackswan, giovedì 18/12/2025

martedì 16 dicembre 2025

The Avett Brothers & Mike Patton - AVTT/PTTN (Thirty Tigers / Ramseur Records / Ipecac Recordings, 2025)

 


Avete presente quel giochino che si faceva da ragazzini e che consisteva nell’accostare due gusti tra di loro inconciliabili per vedere chi riusciva a creare l’abbinamento più bizzarro? Una cosa tipo cozze e nutella, per intenderci. Ecco, tra le collaborazioni musicali più improbabili vince a mani basse quella fra gli Avett Brothers e Mike Patton. Un accostamento all’apparenza senza senso, di quelli che lasciano perplessi, tanto da farci grattare la testa, come di fronte a un problema apparentemente irrisolvibile.

D’altra parte, è la storia che parla. Mike Patton è stato il papà dell’alternative metal e del crossover a capo dei leggendari Faith No More, ha guidato progetti di rock sperimentale come Fantomas e Mr. Bungle, ha fatto suo uno sguardo irriverente e iconoclasta, sovvertendo i canoni dei generi e flirtando spesso con le ali estreme del rumore. E gli Avett Brothers? La band capitanata dai fratelli Seth e Scott Avett potrebbe essere definita come i Mumford & Sons della Carolina del Nord, sono dei bravi americani timorati di Dio, che suonano il loro buon vecchio folk rock da stadio per dei bravi americani timorati di Dio. Ma sono dei Mumford & Sons che ce l’hanno fatta, perché a ben vedere i loro dischi, funzionano dannatamente bene e si fanno ascoltare con piacere. Possiedono un raro gusto della melodia (per quanto spesso figlia di un certo manierismo radiofonico) e un’esuberanza caciarona che li rende irresistibili dal vivo.

Due mondi a parte, dunque, due filosofie musicali apparentemente intangibili, che, tuttavia, in questo AVTT/PTTN, progetto nato dalla stima reciproca fra i musicisti coinvolti, producono un risultato più che positivo.

Patton canta con un timbro southern basso che si bilancia in armonia con le voci melodiose dei due fratelli, contribuendo in un modo molto intrigante a un interplay rodatissimo, rinfrescando, quindi, dinamiche costruite da tempo con grande mestiere. Le canzoni si muovono con sicurezza in ambito folk rock, a cui la mano di Patton aggiunge al classicismo tocchi inaspettati, che rendono la scaletta molto meno prevedibile.

L'album inizia con "Dark Night Of My Soul", che si apre con un delicato finger picking e la voce condivisa tra Patton e gli Avett, trasmettendo un senso di calore avvolgente, di cose antiche che riscaldano il cuore, per poi evolversi in qualcosa di spazioso e cinematografico verso la fine del brano.

"To Be Known" inizia morbidissima su note di piano sgocciolate, coretti carezzevoli, un banjo pizzicato e una batteria scarna, mentre i fratelli aprono le parti cantate per poi lasciar spazio a Patton, in quello che è il brano più Avett Brothers del disco.

Due tracce che dimostrano subito come una collaborazione così insolita possa avere un senso a tutto tondo. Patton si adatta bene al mood e si mette al servizio delle splendide armonie e del suono delicato che sono un marchio di fabbrica degli Avett.

Poi arriva "Heavens Breath", che è senza dubbio la canzone più lontana dal dna dei due fratelli e che ha un’impronta più decisa di Patton: chitarre fuzz, accordi ipnotici e granulosi e inserti di synth accompagnano la voce ruvida e profonda dell’ex Faith No More, in una stravaganza sonora che lambisce il post punk. L’assolo di chitarra, bruciante e quasi sbilanciato e il finale noise, trasformano la canzone nel punto esclamativo della scaletta.  

Uscendo dall'energia punk di "Heavens Breath", si scivola nel miele di "Too Awesome", una canzone d'amore intrisa di folk, una ballata dolce e carezzevole, in cui il cantato di Patton e dei Brothers, condiviso e stratificato, contribuisce a rendere il brano uno dei migliori dell’album. 

"Disappearing" è un altro brano simile a un classico degli Avett Brothers, ma con Patton che imposta la sua voce in stile country old school, ricco di bassi, in una sorta di immedesimazione con Johnny Cash.

È difficile non amare il modo in cui Patton e i fratelli si alternano nelle parti vocali da una traccia all'altra, un elemento che fa sì che questo album sembri una collaborazione a tutto tondo e molto meno un album di canzoni "con Mike Patton". Sembra quasi che lui si sia insinuato silenziosamente fra i due come se fosse un terzo fratello, cosa che funziona alla perfezione in "Eternal Love", il singolo tratto dall’album, che vanta alcune delle migliori parti vocali dell'intera scaletta.

"The Ox Driver's Song", unica cover presente, un bluesaccio dal ritmo tribale e con inserti elettronici, è il brano in teoria più classico ma anche più sperimentale del disco, l’anomalia curiosa di un gruppo di amici che si ritrova esplorare le possibilità della collaborazione, divertendosi.

Chiudono il disco, l’atmosferica "The Things I Do", avvolta da un’aura quasi cinematografica e "Received", ultima traccia che funge da caloroso addio, avvolgendoci tra braccia amorevoli e aprendoci la porta d'uscita con un dolce sorriso. Quello che nasce da un connubio che poteva trasformarsi in farsa e che, invece, ci tiene stretti a sé con un pugno di canzoni che vince e convince, e si fa riascoltare con rinnovato piacere.

Voto: 7,5

Genere: Country, Folk, Americana

 

 



Blackswan, Martedì 16/12/2025

lunedì 15 dicembre 2025

Sunny - Bobby Hebb (Philips Records, 1966)

 


Un incredibile ever green, uno standard soul che a distanza di decenni continua a conquistare e scaldare il cuore degli ascoltatori di ogni età. "Sunny" parla di un amore edificante che porta conforto nel dolore. A differenza di molte canzoni con questo messaggio, il termine "Sunny" è molto ambiguo: potrebbe riferirsi a un uomo, una donna, un genitore, un figlio, un amante o un amico. Potrebbe persino parlare di Dio, come alcuni hanno ipotizzato.

 

"Sunny, ieri la mia vita era piena di pioggia

Sunny, mi hai sorriso e hai davvero alleviato il dolore

I giorni bui sono andati e i giorni luminosi sono qui

La mia Sunny splende così sincera

Sunny così vera, ti amo"

 

Bobby Hebb non ha mai attribuito un'ispirazione specifica alla canzone, ma la morte di suo fratello, Hal Hebb (anche lui musicista), assassinato a coltellate il 23 novembre 1963, il giorno dopo l'assassinio di John F. Kennedy, è stata probabilmente l’abbrivio per la composizione. Hebb ha spiegato che la canzone gli ha portato equilibrio e speranza per un futuro migliore, un messaggio, questo, che fu condiviso da molti ascoltatori. Nella canzone, infatti, l'artista intende esprimere la sua predisposizione a vedere le cose positive e solari della vita, anche di fronte a simili tragedie.

Per quanto concerne la genesi del brano, Hebb raccontò: "Lavoravo al Brandy's, un bar e ristorante a New York City, sull'84esima strada, vicino alla Second Avenue. Avevo bevuto parecchio Tennessee Whiskey, davvero tanto. A dire il vero, ero così sotto l'effetto dell’alcool che avevo paura di provare ad addormentarmi. Alzai lo sguardo e vidi un cielo viola. Avevo la chitarra in mano e, senza toccare una matita, iniziai a scriverla. Ed è così che nacque il brano. Ho colto nel segno".

Hebb registrò il brano con il produttore Joe Renzetti, che si avvalse di diversi musicisti di studio newyorkesi come band di supporto, tra cui il duo Ashford & Simpson (Nick Ashford e Valerie Simpson) che cantava i cori insieme a Melba Moore.

Hebb è morto nel 2010 all'età di 72 anni, e al momento del suo decesso "Sunny" era la diciottesima canzone più eseguita nel catalogo BMI (ente che raccoglie e distribuisce le royalties per le esecuzioni pubbliche delle opere musicali dei suoi membri). 

La canzone, infatti, è una delle più coverizzate di tutti i tempi, essendo stata reinterpretata da Frank Sinatra, James Brown, Stevie Wonder, Marvin Gaye e centinaia di altri artisti, tra cui Cher, che l'ha registrata negli anni '60 come tributo al suo compagno, Sonny Bono. L'originale di Hebb, tuttavia, è l'unica versione ad essere entrata in classifica in America, mentre in Europa, una versione dance del 1976 dei Boney M. è stata un enorme successo, raggiungendo il terzo posto nel Regno Unito e il primo in Germania, Austria e Paesi Bassi.

Hebb aprì il concerto dei Beatles durante il loro ultimo tour, che si tenne in America dal 12 al 29 agosto 1966, quando "Sunny" era in vetta alle classifiche dell'epoca, avendo raggiunto il secondo posto il 20 agosto. L'ultimo concerto del tour si tenne a San Francisco, dove Hebb eseguì la canzone mentre sulla serata calava una fitta nebbia. Ironia della sorte.

 


 

 

Blackswan, lunedì 15/12/2025

giovedì 11 dicembre 2025

Alan Sparhawk - With Trampled By Turtles (Sub Pop, 2025)

 


Quello di Alan Sparhawk è un nome fondamentale per la musica alternativa statunitense, essendo stato leader, insieme alla moglie Mimi Parker, di una delle più grandi band degli ultimi 30 anni, i Low, i cui dischi (sceglietene uno a caso fra i tredici pubblicati e avrete in mano un gioiellino) hanno riletto con audacia le radici americane, attraverso una commistione sperimentale con slow core, indie rock, dream pop, dai tempi dilatati e arrangiamenti minimalisti.

Il 5 novembre del 2022, la Parker, a soli cinquantacinque anni, ci ha lasciati per un brutto male, mettendo fine inevitabilmente alla storia della band, e lasciando il proprio coniuge in uno stato di dolore e prostrazione ancora in fase di rielaborazione.

Il secondo album solista di Sparhawk, White Roses, My God uscito nel 2024, due anni dopo la morte di Mimi Parker, era un album che cercava lenimento al lutto nell'emozione della creazione sperimentale, evitando per quanto possibile stati d'animo malinconici e crepuscolari, che peraltro sono stati sempre il pane quotidiano dei Low.  

Questo nuovo With Trampled by Turtles, alla luce delle due distinte carriere, sembrerebbe quasi un azzardo. Gli ultimi due album dei Low, in particolare Hey What (2021), hanno esplorato estremi musicali apparentemente inconciliabili con la proposta dei Trampled by Turtles, una jam band di bluegrass e folk, fortemente legata alle radici. Eppure, fra le due realtà, entrambe provenienti dal Minnesota, da tempo si era creato un legame di reciproca ammirazione e collaborazione, e così, dopo un tour del 2023, in cui Sparhawk ha suonato insieme al gruppo, il progetto di poter fare un album insieme è diventato realtà, pare, con un solo giorno di registrazioni.

Per quanto sperimentale possa essere stata la musica dei Low e per quanto più classica quella dei Trampled By Turtles, questo album funziona benissimo. I Turtles non solo esaltano la bellezza delle nove canzoni in scaletta, ma danno respiro al dolore di Sparhawk in modo più diretto rispetto a White Roses, My God, dove l'uso di sintetizzatori ed effetti vocali tendeva a mitigare lo struggimento.

Qui, completamente esposto nella propria fragilità, Sparhawk mette a nudo le sue emozioni senza filtri, mentre banjo, chitarre acustiche e violini lo riconnettono alle radici di un suono. Molto più del disco precedente, queste nove canzoni sono intrise di dolore, di assenza, di desiderio, di oscura devastazione.

Ciò è più che evidente nel lamento straziante di "Not Broken", che vede la partecipazione di Hollis, la figlia di Sparhawk e Parker, la cui voce si sostituisce a quella della madre, e per una frazione di secondo pensi che questa possa essere una canzone perduta dei Low, invece che una nuova. E’inevitabile il groppo in gola, inevitabile percepire la perdita, anche se si insinua nell’ascolto un refolo di speranza e di luce.

Forse nulla parla più apertamente del dolore della nuova versione di Heaven, originariamente registrata su White Roses, My God. Invece di sintetizzatori e vocoder, la resa acustica porta le emozioni di Sparhawk in superficie, come sangue rappreso sui lembi di una ferita ancora aperta. Mentre canta "Heaven, It's a lonely place if you're alone, I wanna be there with the people I love", si raggruma nel suono del banjo un incredibile senso di malinconia che si sposa con la percezione di caducità del brano, allontanandolo dalla fredda e distaccata versione originale e conferendogli un tono più sorprendentemente spirituale.

I Trampled by Turtles sono una scelta perfetta per l’atmosfera che avvolge questa raccolta di canzoni, sanno come lasciare spazio a Sparhawk come all'inizio di Screaming Song, in cui il musicista mette a nudo le sue emozioni ("Quando sei volata fuori dalla finestra e verso il tramonto, Pensavo che non avrei mai smesso di urlare, Pensavo che non avrei mai smesso di urlare il tuo nome"), salvo poi accendere l’anima di disperazione con il corrosivo assolo di violino di Ryan Young, un vero e proprio urlo nel buio del dolore, un grido straziante che mette a nudo i fili scoperti di un inconsolabile crepacuore.

E poi c'è la traccia finale, "Torn & in Ashes", un’altra pagina che parla di dire addio, a chi, però, non si è ancora pronti a lasciare andare del tutto. È una canzone al contempo triste e tenera, eppure trabocca di una comprensibile rabbia per l'ingiustizia della prematura morte della compagna.

With Trampled by Turtles è un disco che, a poco a poco, ti contagia, ti cattura in una ragnatela, ti rende partecipe delle emozioni così esplicitamente esposte, da intrappolarti in mezz’ora di musica in cui amore e dolore diventano la quint’essenza della malinconia. Una musica che è ricordo agrodolce, un tributo sincero e toccante a una vita e a un amore che il fato insensibile ha portato via per sempre. E troppo presto.

Voto: 7,5

Genere: Country

 


 


Blackswan, giovedì 11/12/2025

mercoledì 10 dicembre 2025

White Lies - Night Light (PIAS, 2025)

 


Sono passati ormai sedici anni dal loro album di debutto, To Lose My Life…, un disco che fece gridare molti al miracolo e che raggiunse il primo posto nelle classifiche del Regno Unito, grazie a un suono che sembrava una versione light, ma non banale, di quello plasmato qualche tempo prima da band come Editors o Interpol.

Tuttavia, il trio londinese ha dimostrato di essere qualcosa in più di un gruppo di semplici replicanti. Nel corso degli anni, i White Lies, ovvero Harry McVeigh, Charles Cave e Jack Lawrence-Brown, hanno affinato la loro arte, cimentandosi con generi diversi e trasformandosi, pur senza rinnegare del tutto la sintassi musicale che li aveva portati al successo con il loro esordio.

Con Night Light, il primo materiale pubblicato dal 2022, il trio ha cambiato approccio alla registrazione, componendo prima i brani a casa del cantante, Harry McVeigh, provandoli quindi dal vivo e infine, con le idee più chiare, registrandoli in forma definitiva. Il disco, inoltre, si orienta verso una direzione musicale diversa, le sonorità sono decisamente meno oscure e più fruibili, alternando momenti introspettivi ad altri più esuberanti, guardando di più agli anni ’70, e abbracciando generi diversi come rock, disco e funky.

Il disco fila via che è un piacere, gli arrangiamenti sono brillanti e d’ampio respiro, e la scelta di inserire in scaletta solo nove canzoni, tiene lontano dal rischio di filler.

"Nothing On Me" è una bella botta iniziale, aperta da un synth gorgogliante e trainata da un groove ossessivo e aggressivo, che innerva il breve brano di una giusta dose di tensione. Che si allenta subito dopo con la sinuosa "All The Best", un brano a due velocità, emotivamente struggente quando rallenta, intensa ed esuberante quando accelera, e in cui le linee vocali ben si adattano alla ricchezza degli arrangiamenti e all’andamento ondivago dello spartito.

Una canzone audace rispetto agli standard della band, così come la successiva "Keep Up", che piazza un ritornello irresistibile in una struttura dalla ritmica complessa e da suoni che potresti trovare in un album di Peter Gabriel.

"Juice", con quel leggero velo di malinconia, che ricorda un po’ gli Editors, è uno dei brani più innodici del disco, a sottolineare la capacità dei White Lies di creare melodie semplici, ma efficaci, perfette per esaltare la band sul palco.

Il cuore dell’album è, poi, occupato da "Everything Is Ok", una ballata per pianoforte e avvolta di calda elettronica, che suona molto Bruce Springsteen, un brano emotivamente profondo, che trasmette al contempo intensità e fragilità ("Ho detto che va tutto bene, altrimenti niente sarebbe più andato bene"). Le atmosfere del New Jersey sfumano di fronte all’inebriante "Going Nowhere", in cui si respira un’aria da fine anni settanta, e un piacevole dejavù che sa di New York e Talking Heads.

I tre brani che chiudono l’album sono perfettamente all’altezza di quanto già ascoltato: la title track si dipana su splendide trame melodiche, che spingono verso un finale in pulsante crescendo, "I Just Wanna Win One Time" è grintosa, quasi rabbiosa, ma nasconde un’anima prog nel drumming leggermente in controtempo e nei rigogliosi arrangiamenti, mentre "In The Middle", la conclusiva traccia dell’album (che è anche la più lunga), coi suoi synth pulsanti e una linea di basso incalzante riconnette i White Lies alla loro vera natura, arricchita da un tocco prog nel finale, e chiude di slancio un disco assolutamente riuscito.

L'approccio live al processo di scrittura ha permesso al trio di enfatizzare il contributo di ogni membro e di abbandonarsi all’intuizione del momento. Così in Night Light, i White Lies catturano l'attimo e si divertono, prendendo stili diversi e fondendoli con il nucleo musicale che li ha sempre contraddistinti. Un approccio che dovrebbe preparare la band alla prossima fase della carriera.

Voto: 7,5

Genere: Post Punk, Rock, Pop

 


 

 

Blackswan, mercoledì 10/12/2025

lunedì 8 dicembre 2025

Rocket Queen - Guns n' Roses (Geffen, 1987)

 


Composto da un filotto di canzoni strepitose, Appetite For Distruction (1987), debut album dei Guns N’ Roses, è un disco che, piaccia o meno, ha lasciato il segno, un’opera tanto discussa, quanto iconica e trasgressiva. Tanto trasgressiva, che l’ultima canzone in scaletta ha fatto venire i sudori freddi a tanti ben pensanti dell’epoca e a quei genitori i cui figli ascoltavano a tutto volume, nella propria cameretta, quel concentrato di hard rock e sesso.

Ma andiamo con ordine. La "Rocket Queen" della canzone è una donna di nome Barbi Von Greif, almeno secondo le note di copertina di Appetite For Destruction, che ringraziano proprio "Barbi (Rocket Queen) Von Greif".

La ragazza frequentava la band fin dagli esordi insieme alla sua compagna di stanza, Pamela Manning. Secondo la Manning, lei e Von Greif avevano fondato una band per un breve periodo (Barbi cantava, Pamela suonava la batteria) che la Von Greif voleva chiamare "Rocket Queen". All'epoca Barbi aveva solo 18 anni, ma era una ragazza piena di talento e passione, tanto che Slash la definì "una regina della scena underground". Riguardo a Barbi Von Greif, Axl Rose, che si era innamorato della ragazza, disse: "Mi ha tenuto in vita per un po'", tanto da omaggiarla, nei versi finali della canzone:

"Non lasciarmi mai

Dì che ci sarai sempre

Tutto ciò che ho sempre voluto

Era che tu sapessi che ci tengo"


Un messaggio esplicito che parla d’amore, o d’amicizia, di un sentimento puro, di un legame che si vorrebbe indissolubile.

Eppure, "Rocket Queen", chi la conosce lo sa, è una canzone traboccante di sesso. C'è una storia, infatti, legata a questo brano, che sembra essere vera: i gemiti e gli altri suoni a sfondo sessuale che compaiono nel mezzo della canzone furono registrati mentre Axl Rose scopava con una donna nello studio di registrazione. Quella ragazza era la fidanzata del batterista della band, Steven Adler (che in seguito fu cacciato perun'esiziale dipendenza dalla droga).

Il suo nome è Adriana Smith, e si concesse a Axl una notte in cui era furiosa con Adler. "Per quella canzone c'era anche qualcosa che ho cercato di elaborare con diverse persone: un atto sessuale registrato", ha spiegato Axl Rose. "È stato in qualche modo spontaneo ma premeditato; qualcosa che volevo mettere sul disco. Era una canzone a sfondo sessuale ed è stata una notte selvaggia in studio."

Ma veniamo ai fatti. La Smith arrivò in studio con l'intenzione di far ingelosire Adler, ed è allora che Axl le propose di scopare e di registrare l'atto. I fonici microfonarono il pavimento di una cabina vocale, abbassarono le luci e premettero il pulsante rosso mentre Rose e Smith ci davano dentro. Secondo Smith, fu tutto molto imbarazzante, perché Axl voleva che lei si lasciasse andare completamente, cosa estremamente difficile da realizzare in quelle circostanze. Ci è voluto un po' di tempo (e un po' di alcol), ma alla fine il risultato fu raggiunto.

Michael Barbiero, che mixò l'album, non voleva, però, avere niente a che fare con la registrazione della scena di sesso messa in atto in studio, e quindi, dopo aver sistemato i microfoni, la fece registrare dall'assistente fonico Victor Deyglio. Nell'album, Deyglio è indicato come "Victor 'The F--kin' Engineer' Deyglio" per via di questo suo estemporaneo contributo.

La Smith visse momenti difficili in seguito, affermando che quel sordido e patetico atto sessuale "le pesava sull'anima". Tutto ciò che ne ricavò fu una bottiglia di Jack Daniel's e una certa infamia che la segnò a lungo. Finite le registrazioni, la band partì per un tour, divenne incredibilmente famosa e tutti i membri si scordarono completamente dell’esistenza della povera Smith. Che divenne tossicodipendente e passò molto, molto tempo a elaborare la vergogna che provava. Tanto che, a coloro che le dicevano che, quella scopata, tutto sommato, la fece entrare nella leggenda, lei ha sempre risposto: “In qualche modo sono diventata la Rocket Queen. Ma non ho mai, non ho mai detto "sono la Rocket Queen". Non sono io. La vera Rocket Queen è Barbi”.  




Blackswan, lunedì 08/12/2025

venerdì 5 dicembre 2025

Scott Turow - Presunto Colpevole (Mondadori, 2025)

 


A settantasette anni Rusty Sabich è un giudice in pensione che vive con la sua compagna Bea in una bella casa sul lago nel Midwest. La loro tranquilla esistenza viene turbata dall'improvvisa sparizione di Aaron, il figlio adottivo di Bea, un ragazzo nero poco più che ventenne che ha avuto guai con la giustizia per questioni di droga ed è in libertà vigilata: se non tornerà a casa, andrà in carcere. Quando finalmente riappare, Aaron racconta in modo piuttosto confuso di essere stato in campeggio con Mae, la sua ragazza, e di essersene poi andato lasciandola sola nel bosco dopo una litigata furibonda. Di Mae però si sono perse le tracce; iniziano le ricerche e dopo un paio di settimane viene ritrovata morta. Tutti i sospetti ricadono su Aaron che viene accusato di omicidio di primo grado e arrestato. Nonostante gli indizi a suo carico sembrino schiaccianti, Bea è convinta dell'innocenza del figlio e prega Rusty di diventare suo avvocato difensore, e lui, dapprima riluttante, accetta. Ma il sistema giudiziario al quale Rusty ha dedicato la sua intera vita può davvero garantire giustizia a chi è presunto colpevole? Dopo Presunto innocente, il romanzo che ha ridefinito il legal thriller, torna per l'ultima volta in tribunale l'indimenticabile giudice e avvocato Rusty Sabich, alle prese con un caso che fin dall'inizio si prospetta disperato e un processo complesso dalle forti implicazioni razziali, che non risparmia colpi di scena fino all'ultima pagina.

 

Quando nel 1987, l’avvocato penalista e aspirante scrittore, Scott Turow, pubblicò il suo esordio, Presunto Innocente, nemmeno lui si sarebbe mai immaginato che quel romanzo sarebbe stato un best seller a livello mondiale, garantendogli gloria imperitura. Quel debutto, che anche da noi fu un clamoroso successo editoriale, divenne qualche anno dopo un avvincente film diretto da Alan Pakula e interpretato da un bravissimo Harrison Ford, mentre l’anno scorso, a testimonianza della validità di un’opera refrattaria allo scorrere del tempo, è stato trasposto in una mini serie televisiva (la trovate su Apple Tv), con protagonista un convincente Jake Gyllenhall (il finale, però, è diverso dall’originale).

Quasi quarant’anni dopo, Turow, oggi affermato romanziere, torna in libreria con un nuovo romanzo, che riprende, modificandolo, il titolo del suo celeberrimo debutto, e rimette al centro del villaggio l’ex vice procuratore distrettuale, Rozat "Rusty" Sabich, ai tempi accusato dell’omicidio dell’amante Carolyn Polhemus.

Oggi, Sabich ha settantasette anni, è un giudice in pensione, che offre sporadiche consulenze, e che vive una vita tranquilla con la compagna, l’amatissima Bea, con cui condivide una splendida casa sul lago. L’unico problema che affligge la coppia è il figlio adottivo di lei, Aaron, un inquieto giovane di colore, con precedenti penali per droga. Aaron, che sembra aver messo la testa a posto ed è in libertà vigilata, vive una tumultuosa storia d’amore con la bellissima Mae, la giovane e scapestrata figlia del Procuratore Distrettuale. Dopo che Aaron e Mae decidono, all’insaputa di tutti, di andare in capeggio per qualche giorno a programmare un possibile matrimonio, l’apparentemente armonia fra Rusty e Bea inizia a vacillare, soprattutto dopo che Aaron, in evidente stato confusionale, torna a casa, senza Mae. Della ragazza non si sa più nulla, fino a quando, quindici giorni dopo, ne viene ritrovato il corpo, vittima di quello che sembra uno strangolamento. Dell’omicidio viene accusato Aaron, e Rusty, dopo anni di assenza dai tribunali, si trova costretto a tornare in aula, come avvocato difensore del figlioccio.

Nelle prime cento pagine del romanzo, il ritmo è compassato. Turow si prende il tempo per costruire l’ambientazione di una provincia americana fondata sull’agricoltura, ma ricca e prosperosa, in cui il paternalismo progressista delle classi più abbienti vive in un connubio perfetto con il pragmatismo e il moralismo di facciata di una popolazione di contadini legati alle proprie tradizioni, ostile ai forestieri, e maldisposta nei confronti della gente di colore.

Lo scrittore americano, inoltre, scava in profondità sulle dinamiche famigliari che legano Rusty e Bea, una coppia affiatata, il cui amore, però, verrà messo duramente alla prova da una tragedia, che farà emergere verità troppo a lungo taciute.

E’ solo quando Aaron viene accusato di omicidio, però, che il romanzo decolla veramente, e chiarisce perché Scott Turow è considerato uno dei maestri indiscussi del legal thriller.

Per quanto ponderoso nella sua lunghezza, quando Presunto Colpevole apre le porte dell’aula del tribunale, il ritmo aumenta, i colpi di scena, seppur centellinati, tengono desto il pathos e l’attenzione, mentre le schermaglie fra accusa e difesa e le rispettive strategie processuali risucchiano il lettore in una trama gestita magistralmente, che si conclude con un esito inaspettato e disturbante, che farà luce sulla fine della povera Mae.

Un vero gioiello per tutti quei lettori che amano alla follia il genere.

 

Blackswan, venerdì 05/12/2025

mercoledì 3 dicembre 2025

Rocket - R Is For Rocket (Transgressive, 2025)

 


La musica ai tempi dei social imbocca strade su cui si corre velocemente verso la notorietà. Che sia un bene o un male, non sta a noi giudicare. Sta di fatto che i Rocket, quattro ventenni di Los Angeles, che hanno iniziato a fare musica nel 2021, si sono trovati a gestire in breve tempo un hype in crescendo, tanto che nel biennio tra la loro formazione e l’EP di debutto Versions Of You, dopo una gavetta in piccoli locali della zona, si sono trovati ad aprire i concerti di quelle band che adoravano durante l’adolescenza, come Ride e Smashing Pumpkins. E questo, uscendo indenni dalla crisi pandemica e senza aver pubblicato un album completo.

Un specie di miracolo artistico che li ha portati alla pubblicazione di R Is For Rocket, esordio sulla lunga distanza, che ha ulteriormente rafforzato la loro immagine agli occhi della critica e di una fanbase sempre più numerosa.

Che la band abbia talento è abbastanza chiaro fin da un primo ascolto dell’album, ma è altrettanto vero che le dieci canzoni in scaletta si allineano a uno stiloso revival dell’alt rock anni ’90, che fonde con intelligenza shoegaze, noise, dream pop e schegge di grunge, in un connubio equilibrato di chitarre propulsive e melodie eteree.

R Is for Rocket è, tuttavia, un album di debutto insolitamente sicuro, che dimostra come quest'ondata di nostalgia per l'apogeo dell'alternative possa essere riletta con consapevolezza ed evidente devozione, a volte fin troppa, per band seminali come i citati Ride e Smashing Pumpkins, oltre che Breeders e Sonic Youth.

L’iniziale "The Choice" apre il disco con scintillanti tessiture di chitarra e si sviluppa su un crescendo che lentamente divampa, mentre nella successiva "Act Your Title" il basso ronza accompagnato da un drumming quadrato, che scalda l’atmosfera senza saturare eccessivamente il mix. Una chitarra squillante e leggermente distorta crea scintillio e spazio, mentre la voce di Alithea Tuttle entra non come una rivelazione, morbida, intima, composta.

C'è una certa audacia nel modo in cui la frontwoman si appropria dei brani. La sua voce si insinua negli arrangiamenti con una chiarezza che risulta ipnotizzante, è lei a dettare il ritmo della band, permettendo alle dinamiche di emergere in modo naturale e, così facendo, inquadra l'architettura emotiva della scaletta con inarrivabile precisione.

L’elemento distintivo dei Rocket è dunque il pop-rock teso e trascinante che li avrebbe portati a riempire le arene tre decenni fa: "One Million" accosta un riff irresistibile a una melodia che aleggia, coinvolgendo emotivamente l’ascoltatore, mentre "Pretending" flirta, rumorosa ma acchiappona, con lo shoegaze.

I Rocket portano le loro influenze ben impresse nella memoria e ci sono momenti, in particolare nella seconda metà dell'album, in cui la devozione al suono fa virare i brani verso una pericolosa prevedibilità, finchè la title track, con il suo crescendo rumoroso, chiude il cerchio palesando un indiscutibile talento.

In definitiva, R Is For Rocket mette in scena una band che sta testando i propri limiti, esplicitando, però, anche tutte quelle qualità atte a superarli. Non è, dunque, un disco impeccabile, ma finisce per essere comunque avvincente: in tre parole, derivativo, interessante, promettente.

Voto: 7

Genere: Indie Rock 




Blackswan, mercoledì 03/12/2025

martedì 2 dicembre 2025

Laura Cox - Trouble Coming (ear@music, 2025)

 


Dal debutto datato 2019 e intitolato Burning Bright (in realtà, era già stato pubblicato precedentemente un disco come Laura Cox Band), la cantante e chitarrista francese ha iniziato a ritagliarsi uno spazio sempre più ampio nel novero delle migliori interpreti femminili del genere rock blues. Il successivo e bellissimo Head Above Water del 2023, ne ha confermato la caratura e il talento, non solo conquistando la critica, ma allargando sensibilmente il bacino della sua fanbase.

Questo nuovo Trouble Coming vede la Cox ancora più consapevole dei suoi mezzi e perfettamente a suo agio con una backing band diversa dalla precedente, che ha saputo assecondare la nuova visione della chitarrista, alle prese con un approccio più libero e molto meno legato al passato.

Il risultato è un disco che, senza rinnegare la propria comfort zone, vede la Cox cercare un suono più rotondo e meno prevedibile, più moderno e meno ancorato ai consueti tropi rock blues. Decisamente più radiofonico, anche, senza che però questo aspetto abbia sminuito un songwriting sempre solido e ispirato.

"No Need To Try Harder" è l’inizio che ci saremmo aspettato e riprende il discorso interrotto con Head Above Water: un rock blues che alterna momenti muscolari ad altri più introspettivi, in un connubio in cui la musicista francese esibisce la propria tecnica eccelsa con misura e senza inutili sbrodolamenti.

"A Way Home" si apre con un bel riff schiaccia sassi, ma l’andamento del brano è ben poco lineare, accostando momenti innodici ad altri di stasi melodica, impacchettati da un paio di assoli brevi ma ficcanti.

La title track apre al blues più classico, ma l’atmosfera è abbastanza cupa, nonostante la tessitura melodica ben congegnata.

"Inside The Storm" è lo specchio di un nuovo modo di concepire le canzoni, il rock non manca, ma la declinazione è decisamente più indie, il ritornello è folgorante, il mood vagamente malinconico, gli arrangiamenti decisamente più accurati. Un passo di lato rispetto al passato, e decisamente riuscito.

"What Do You Know?" è una ballata cadenzata e avvolta in spire crepuscolari, le trame sotterranee sono bluesy, lo svolgimento denso di pathos.

Il basso distorto e pulsante che apre "Dancing Around the Truth" stuzzica fantasie quasi new wave, mettendo l’accento sulla versatilità del disco, così come "The Broken", pervasa a tratti da un’urgenza quasi punk.

Più in linea con l’antico spirito, l’intensa ballata "Out Of The Blue", in cui la Cox si cimenta al banjo, donando al brano un tocco molto americano, e il rock blues pesante e stazzonato di "Rise Together".

Chiudono il disco il ringhio ribelle di "Do I Have Your Attention?" una sorta di chiamata alle armi di tutti i suoi fan (e che assolo!) e la conclusiva "Strangers Today", che alterna strofe scarne e ispide a un ritornello avvolgente e sensuale.

Con Trouble Coming la Cox ha rifinito il suo suono, spaziando fra i generi e rendendolo appetibile per un pubblico più vasto, grazie ad arrangiamenti decisamente moderni. Non si è snaturata, grazie a Dio, e le radici rock blues sono ancora ben presenti, ma in un contesto forse più malinconico e cupo, e volutamente più libero e coraggioso.

Voto: 7,5

Genere: Rock, Blues

 


 


Blackswan, maredì 02/12/2025

lunedì 1 dicembre 2025

Sunny Afternoon - The Kinks (Pye, 1966)

 


Nonostante il titolo, questa non è una canzone estiva spensierata e allegra. Il protagonista è figlio di un élite benestante, un giovane rampollo la cui villa è stata svuotata dal fisco, che gli ha persino sequestrato lo yacht. Anche la fidanzata l’ha lasciato, portandosi via la macchina. Non ha più nulla e tutto ciò che gli resta è godersi un pomeriggio soleggiato, sorseggiando birra ghiacciata.

La canzone è stata scritta dal frontman dei Kinks, Ray Davies, che stava attraversando un periodo molto difficile. I Kinks erano nel mezzo di un'improvvisa ascesa alla fama, ma le tensioni del gruppo, le cause legali, un carico di lavoro irrealistico e un management vile li rendeva infelici. Davies stava anche affrontando la paternità e si prese una pausa dal gruppo per dedicarsi alla figlioletta.

Il cantante scrisse "Sunny Afternoon" proprio durante questo periodo di stasi, prima componendo la musica e poi le liriche, attraverso le quali creò un alter ego per esprimere, filtrandoli, i propri sentimenti. E L'unico modo per poterlo fare, era quello di inventarsi la figura di un aristocratico polveroso e decaduto che proveniva da una famiglia ricca, e che ben esprimeva lo stato d’animo apatico del songwriter, la cui agiatezza, però, era stata raggiunta con il duro lavoro di musicista.

Tuttavia, temendo che gli ascoltatori potessero simpatizzare con questo triste, annoiato e decadente riccastro, Davies lo trasformò in un mascalzone che malmenava la sua ragazza dopo una notte di ubriachezza (“In estate, La mia ragazza è scappata con la mia macchina, Ed è tornata dai suoi genitori, Raccontando storie di ubriachezza e crudeltà”).

A proposito della genesi del brano, Davies disse: “Vivevo in una casa arredata in perfetto stile anni '60. Le pareti erano arancioni e i mobili verdi. Mia figlia di un anno gattonava sul pavimento e io scrissi il riff iniziale. Lo ricordo vividamente. Indossavo un maglione a collo alto." All’epoca, inoltre, il leader dei Kinks, che come detto viveva un momento di profonda apatia, non ascoltava musica, ad eccezione di Frank Sinatra, Bob Dylan e Bach, che riproduceva in loop dal giradischi di casa e che, disse, siano state le sue uniche fonti d’ispirazione.

Il giorno della registrazione, Davies aveva un forte raffreddore, che gli alterava la voce. Quando a fine giornata fu il turno di registrare "Sunny Afternoon", il cantante era molto sofferente, ma ci provò lo stesso. Il risultato, a suo dire, fu pessimo e chiese di poterla provare un’altra volta. Tuttavia, il tempo della sessione era finito e non si potè far altro che tener buona quella traccia, a proposito della quale il musicista, qualche tempo dopo, disse: “avevo 22 anni, ma la mia voce sembrava quella di uno sui 40, che ha passato momenti difficili”.  

Pubblicata come singolo a giugno del 1966 (e poi confluita nella scaletta di Face To Face, uscito a ottobre dello stesso anno), "Sunny Afternoon" fu il terzo (e ultimo) successo numero 1 nel Regno Unito per i Kinks, dopo "You Really Got Me" e "Tired of Waiting for You". Gli americani, invece, non apprezzarono i Kinks come fecero con i Beatles e i Rolling Stones, e dal 1965 al 1969 una disputa sindacale impedì alla band di andare in tournée in quel paese e riuscire, quindi, a fare nuovi proseliti. Ciononostante, i loro primi singoli andarono abbastanza bene anche negli States, tanto che "Sunny Afternoon" raggiunse la posizione numero 14.

Un’ultima annotazione. Il verso” Salvami da questa stretta, Ho una mamma grande e grassa che cerca di spezzarmi” non si riferisce solo alla mamma di Davies, che era un donnone, ma contiene soprattutto una velata critica politica. La mamma grassa, infatti, non è altro che il governo britannico che, con le sue politiche, cerca di spezzare la vita dei propri cittadini.

 


 

 

Blackswan, lunedì 01/12/2025