Avevano
un coro personalizzato allo stadio, un soprannome immaginifico, una
tifoseria devota. Hübner, Protti, Zampagna, Luiso, Flachi, Riganò...
Ognuno di loro è stato ed è tuttora oggetto di un culto diverso, ma
insieme esprimono un mondo dimenticato. Mentre il calcio è sempre piú
professionalizzato, questo libro è una frenata a mano sul cuore: un
omaggio appassionato a quei bomber che hanno fatto della provincia il
loro regno e della porta avversaria il loro destino.
Frombolieri
spietati, visionari della giocata impossibile, operai del goal voluto
con feroce determinazione: Hubner, Protti, Flachi, Riganò e Zampagna
sono solo alcuni dei nomi di quei bomber di provincia raccontati con
appassionata meraviglia da Emanuele Atturo, in questo libro emozionante e
godibilissimo.
Vite
semplici di uomini semplici, che sono stati straordinari attaccanti,
senza, tuttavia, entrare mai a far parte della storia che conta: per
scelta di vita, per amore di una maglia, per scelte esistenziali
incoerenti con le regole rigide dello sport, o per uno sgambetto del
fato, difensore più arcigno di qualunque stopper sia mai sceso in campo.
Giocatori
che, però, si sono conquistati un posto d’onore in quella mitologia da
bar fatta di aneddoti curiosi, di ricordi indelebili, di partite epiche,
di goal fotografati in un attimo eterno e da mandare a memoria ai
propri figli. I bar della Gazzetta letta sul frigorifero dei gelati,
delle chiacchiere sportive fugaci come un caffè e un saluto, o di quella
prosopopea calcistica, un po’ alticcia ed estenuante, accompagnata da
una teoria inarrestabile di bianchini spruzzati.
Grandi
campioni, spietati killer dell’aria di rigore, che le grandi squadre le
hanno solo incrociate, ambendo orizzonti troppo lontani per le loro
carriere sportive di piccolo cabotaggio, ma che Atturi rende vividi e
immortali, in questo libro di poco più di duecento pagine, che si legge
d’un fiato e che ha come fil rouge la nostalgia.
La
nostalgia per un calcio che non c’è più, risucchiato in un vortice
grigio dalla spietata logica del profitto, che ha duplicato all’infinito
il numero delle partite, troppe e una uguale all’altra, togliendo al
calcio la sua forza evocativa: quella legata alla commozione del
ricordo, dell’epicità dell’evento e della poesia dell’attimo.
Atteggiamenti da ticktocker, musica trap pompata come habitus culturale,
tatuaggi che nemmeno nella più sordida prigione venezuelana, abiti
ignobili sfoggiati con non curante e stolida arroganza da chi può
tutto, dall’alto di un contratto milionario. E alla prima spintarella,
tutti giù per terra, urlanti come agnelli al mattatoio. Questi, per
buona parte, sono i calciatori di oggi, questo il calcio che viviamo.
Come
si fa, allora, a non provare nostalgia per Darione Hubner, un bisonte
asfalta difese e refrattario al dolore, che nell’intervallo della
partita si fumava una sigaretta e non rifiutava mai un buon bicchiere di
grappa?
Troverete tutto questo, e molto altro, in Il Mito Dei Bomber Di Provincia,
un libro che intreccia storie di calcio al tessuto socio culturale del
momento, che snocciola gustosissimi aneddoti, che racconta i goal come
se li vedessimo in diretta, e che, oltretutto, è scritto benissimo da
chi, come noi, ama questo sport (un tempo) meraviglioso.
Tutto
nasce dalla grande passione per il classic rock della cantante,
chitarrista e flautista Francis Tobolsky, che nel dicembre del 2011,
pubblicò un annuncio su una rivista studentesca intitolato "Cercasi Blues Brothers",
con l'intenzione di formare una band. Risposero all’annuncio il
chitarrista Tim George e il batterista "Pätz", che iniziano a suonare
insieme per tutto il 2012, anno in cui la formazione fu completata
quando il bassista Patrik Dröge si unì alla line up a novembre. Nel
2013, con un bagaglio di canzoni già pronte per l’uso, i Wucan iniziano a
suonare nei locali di Dresda, loro città di origine, trovando
lentamente riscontri positivi anche su tutto il territorio nazionale.
Svariati
cambi di formazione, non hanno fermato l’ascesa del progetto, sempre
saldamente in mano alla frontwoman Tobolsky e arrivato oggi al quarto
album in studio, intitolato Axioms, cioè assiomi. Principi
indiscutibili come quelli su cui si è sempre basata la musica del gruppo
tedesco, i cui piedi son ben piantati nell’hard rock di derivazione
settantiana, riletto però con accenti che vanno dal prog, allo stoner e
al doom. Eppure, questo nuovo album, alla faccia degli assioni, pur
mantenendo invariate le fonti d’ispirazione, esce dalla comfort zone
proponendo eleganti e incisive variazioni sul tema.
La
proposta è, dunque, stratificata e richiede tempo per essere esplorata,
i brani si fanno strutturalmente più complessi avvicinandosi parecchio
al mondo progressive, senza che tuttavia vengano meno le sciabolate hard
e la consueta dose di melodia.
Il
brano di apertura, "Spectres of Fear", offre un primo entusiasmante
assaggio dell'album, è una cavalcata rapida, quasi rabbiosa, la voce
della Tobolsky è tirata al limite e quel flauto che imperversa ovunque
rimanda inevitabilmente ai Jethro Tull, ma a dei Jethro Tull strafatti
di anfetamine.
Una
bella botta, seguita dall’incandescente derapata intitolata "Irons in
the Fire" in quota NWOBHM, con una parte centrale sostenuta da un basso
impetuoso su cui si muovono vertiginose le scorribande della sei corde.
L'inizio
del funky "Wicked, Sick and Twisted" è caratterizzato dalla volontà
della band di sperimentare con l'elettronica, il groove è contagioso e
mette in mostra la versatilità del gruppo tedesco, che gira intorno alla
linea di basso con eleganti tessiture jazzy.
La
volontà di uscire dai soliti schemi è ben evidente anche nella
successiva e sorprendente "KTNSAX", in cui l’elettronica è messa al
servizio di una sezione ritmica quadrata e di una melodia ipnotica, le
cui chitarre nervose chiamano in causa addirittura i Blondie.
"Holz
auf Holz", cantata in tedesco, è uno dei brani più complessi
dell'album, sottolineando le qualità tecniche della band e la volontà di
uscire dall’ovvio, il piede sempre pigiato sull’acceleratore, ma in
direzione prog rock.
L'inizio
evocativo di "Pipe Dreams" è solo uno specchietto per le allodole,
perché la canzone parte poi rapidissima tirando fuori una propensione
quasi metal e mettendo in evidenza la strabiliante estensione della
Tobolsky, la cui voce si eleva altissima in mezzo a uno sferragliare di
chitarre agguerrite. Una corsa a rotta di collo che evapora di fronte
alle iniziali trame evanescenti e ai colori pastello della title track,
che si immerge lentamente nel prog rock anni ’70, richiamando ancora
alla mente i Jethro Tull.
Chiude
la scaletta "Fountain of Youth", arpeggio di chitarra, la voce
straordinaria della frontwoman, traboccante soul, e un’improvvisa
accelerazione che aumenta l’intensità di un brano sempre più vibrante e
travolgente. In un certo senso, "Fountain of Youth" riunisce in sette
minuti tutti gli elementi della musica dei Wucan, formando un capitolo
finale in cui convivono rock, folk, prog e propensione alla jam,
declinati con la consueta eleganza tecnica e dirompente energia.
Con Axioms,
i Wucan, pur non rinnegando completamente le proprie fonti
d’ispirazione, prendono una direzione diversa, rendono la loro musica
più versatile e, in certi casi, meno immediata, guadagnandone però in
fascino e, dopo quasi tre lustri, aprendo a una seconda fase di carriera
decisamente intrigante.
La risposta americana alla britannica Band Aid e a "Do They Know It’s Christmas" (1984): "We Are The World" degli
USA For Africa fu pubblicata l’anno successivo come iniziativa benefica
per le vittime della carestia in Etiopia, raccogliendo oltre cento
milioni di dollari devoluti tutti alle popolazioni afflitte dal disastro
climatico.
A
scriverla furono Michael Jackson e Lionel Richie, mentre Quincy Jones
la produsse. Questo talentuoso trio era perfetto per il lavoro: Quincy
Jones era il produttore più in voga del momento, Richie aveva scritto
canzoni che erano arrivate al primo posto della Hot 100 in ciascuno dei
sette anni precedenti, mentre Michael Jackson aveva pubblicato l'album
di maggior successo del 1984 con Thriller (prodotto da Jones) ed era la star più in voga del momento.
Il progetto USA For Africa (United Support of Artists for Africa),
tuttavia, nacque da un'idea del cantante calypso Harry Belafonte, che
aveva l’intenzione di organizzare un concerto di beneficenza
coinvolgendo solo musicisti neri. Alla fine di dicembre del 1984, alla
ricerca di artisti da arruolare, Belafonte chiamò Ken Kragen, che
gestiva un impressionante gruppo di talenti, tra cui Lionel Richie.
Kragen convinse Belafonte che avrebbero potuto raccogliere più fondi e
avere un impatto maggiore con una canzone originale invece che con un
singolo concerto. Belafonte accettò e Richie si unì immediatamente ai
due per dare una mano. Kragen, allora, chiese a Quincy Jones di produrre
il brano, e Jones arruolò Michael Jackson. Richie coinvolse anche
Stevie Wonder, una scelta che fu l’abbrivio decisivo per rendere
partecipi molti membri dell'industria musicale, che accettarono di
collaborare.
Il
progetto, dall'ideazione alla registrazione, durò circa un mese e, come
accennato, fu modellato sui Band Aid, il gruppo britannico formato da
Bob Geldof l'anno prima per registrare "Do They Know It's Christmas?".
I Band Aid, che includevano Bono, Phil Collins, David Bowie, Paul
McCartney e Sting, furono d’ispirazione, dimostrando come un gruppo
eterogeneo di artisti famosi potesse riunirsi in un giorno per
registrare una canzone ed avere un incredibile successo.
Il
singolo fu registrato agli A&M Studios di Los Angeles il 28 gennaio
1985, la sera degli American Music Awards, che si tennero al vicino
Shrine Auditorium. Dato che gli artisti erano tutti in città per la
premiazione, fu molto più facile riunirli per registrare il singolo.
Le
star che cantarono da solisti furono, nell'ordine, Lionel Richie,
Stevie Wonder, Paul Simon, Kenny Rogers, James Ingram, Billy Joel, Tina
Turner, Michael Jackson, Diana Ross, Dionne Warwick, Willie Nelson, Al
Jarreau, Bruce Springsteen, Kenny Loggins, Steve Perry, Daryl Hall,
Michael Jackson (di nuovo), Huey Lewis, Cyndi Lauper e Kim Carnes. Anche
Bob Dylan e Ray Charles parteciparono al brano e vennero ripresi in
primo piano nel video. Harry Belafonte, che aveva avuto l'idea originale
del progetto, cantò nel ritornello ma non ottenne un assolo, unendosi,
invece, a Bette Midler, Smokey Robinson, The Pointer Sisters, LaToya
Jackson, Bob Geldof (unico non americano a partecipare al progetto),
Sheila E. e Waylon Jennings come corista.
A
Prince fu chiesto di unirsi al progetto e Quincy Jones si aspettava la
sua presenza, ma il genio di Minneapolis non si presentò, non perché non
fosse d’accordo con gli intenti benefici ella canzone, ma in quanto
restio a collaborare con altri artisti. A ogni modo, diede il suo
contributo, donando un brano esclusivo intitolato "4 The Tears In Your Eyes" che venne inserito nel successivo 33 giri, anch'esso intitolato "We Are The World" e pubblicato il mese successivo.
Il
singolo da 7 pollici (la versione radiofonica) dura 6 minuti e 22
secondi, ma fu pubblicato anche un singolo da 12 pollici di 7 minuti e
19 secondi. Michael Jackson e Lionel Richie dovettero rendere la canzone
così lunga per poter ospitare il maggior numero possibile di cantanti:
si trattava di trovare un equilibrio tra l'inserimento di più assoli di
star e il mantenimento di una durata sufficiente per la trasmissione
radiofonica.
Quincy
Jones, oltre a produrre, era anche il responsabile della gestione di
tutte le star coinvolte, alcune, come immaginabile, con un ego
smisurato. Eppure, andò tutto liscio, nonostante alcuni artisti molto
famosi non riuscirono a cantare nemmeno una strofa. Prima dell'inizio
della sessione, Jones decise dove tutti si sarebbero piazzati. Mise del
nastro adesivo sul pavimento con il nome di ogni cantante. C'era una
politica di "niente ego", ma Jones elargì alcune cortesie, come, ad
esempio, mettere Diana Ross in prima fila.
La
canzone ha solo due strofe e segue una struttura base:
strofa-ritornello-strofa-ritornello-bridge-ritornello. Ci sono sette
cantanti nella prima strofa, ma solo tre nella seconda; la maggior parte
degli assoli avviene durante le linee del ritornello.
Il
brano vinse il Grammy Award come miglior canzone dell'anno, e superò le
aspettative in termini di vendite. Pubblicato il 7 marzo 1985,
inizialmente furono date alle stampe 800.000 copie, che andarono
esaurite nel primo fine settimana. Grazie all'ampia gamma di star, le
stazioni radio misero il brano in heavy rotation e MTV diede ampio
spazio al video. Il singolo raggiunse, così, il primo posto negli Stati
Uniti il 13 aprile, dove rimase per quattro settimane. Nel Regno Unito,
raggiunse la vetta il 20 aprile e vi rimase per due settimane.
La
sessione di registrazione per le parti vocali (Quincy Jones aveva
registrato in precedenza le tracce strumentali) durò circa 12 ore, il
che è quasi un miracolo, considerando la portata del progetto e un po’
di tensione che serpeggiò in studio. Molti artisti, infatti, ritenevano
la canzone artisticamente modesta, tanto che, per fare un esempio, Cyndi
Lauper, la definì, in uno scambio di vedute con Billy Joel, “uno spot per la Pepsi”.
La cantante non smise di polemizzare e, anzi, continuò a creare
disturbo durante la registrazione facendo tintinnare i suoi braccialetti
vicino al microfono, facendo perdere la pazienza a un solitamente
compassato Quincy Jones, che le disse, senza mezzi termini, che era
libera di andarsene dallo studio.
Fu
Bruce Springsteen a fare da collante alla serata e a convincere tutti
della bontà del progetto, dando prova di spirito altruistico. Il Boss,
infatti, concluse la tappa nordamericana del suo tour Born In The U.S.A.
la sera prima a Syracuse, New York, e volò a Los Angeles il giorno
dopo, recandosi in studio di registrazione in auto, saltando gli
American Music Awards. Secondo Ken Kragen, Springsteen contribuì a
placare le tensioni in studio, poiché i rocker non erano soddisfatti del
brano e temevano per la propria credibilità. Springsteen diede
l'esempio con la sua partecipazione incondizionata, convincendo tutti
che lo scopo meritorio dell’operazione fosse più importante del valore
artistico della canzone.
Ci è voluto un po' di tempo prima che le royalties di "We Are The World"
arrivassero a destinazione, il che ha dato a Kragen e al suo staff il
tempo di pianificare come usufruirne. Si concentrarono così sulla
fornitura di cibo e di beni di prima necessità a quelle organizzazioni
che avevano dimostrato impegno per la causa e la capacità di saper
utilizzare le donazioni in modo efficace. E poco importa se la canzone
fu bistrattata dalla critica specializzata: le vendite del singolo e
dell’album salvarono la vita a migliaia di bambini affamati.
“Deve essere bello essere un uomo e fare musica noiosa solo perché puoi"
Con questo verso contenuto in "One of the Greats", seconda traccia tratta da questo nuovo Everybody Scream,
Florence Welch ribadisce l’inclinazione femminista della sua musica,
che è anche uno dei temi portanti e più sfacciatamente esibiti
dell’album. D’altra parte, in tal senso, la copertina è abbastanza
esplicita: la foto mostra la Welch inquadrata in un tipico atteggiamento
maschile (e machista) con le gambe aperte e lo sguardo spavaldo, in una
posa che suggerisce un bel dito medio mostrato agli innumerevoli
concetti patriarcali della società odierna.
Non solo. Alla base del disco c’è un dramma personale, l’aborto spontaneo avvenuto durante il tour per la promozione di Dance Fever nel 2023. In Everybody Scream,
però, la Welch fa molto più che descrivere dettagliatamente il trauma e
dare forma al dolore attraverso le note. La riflessione è profonda e
lacerante, ma, come evidente nel titolo, c’è anche un implicito invito a
se stessa e all’ascoltatore a reagire, a liberare, attraverso un urlo
catartico, la rabbia e la tristezza represse.
Questo
disco è, dunque, un'opera in cui la Welch raggiunge il punto di
ebollizione estrema e condensa questo mondo di dolore e confusione in
dodici canzoni che non si risparmiano mai dal punto di vista emotivo.
Qui ci sono alcune delle sue musiche più sincere composte fino ad oggi
e, anche se il mondo sembra crollarle addosso, la songwriter londinese
sembra uscirne più saggia e audace, consapevole come non mai.
Everybody Scream
è anche un disco che si sviluppa in alternanza fra luci (poche) e
ombre, mettendo ancora una volta sul piatto l’alone di mistero e il lato
gotico che sono due elementi distintivi dell’artista anglosassone.
Quell’estetica stregonesca alla Stevie Nicks, su cui la Welch ha sempre
giocato, e non solo da un punto di vista estetico, emerge più che mai in
questo disco, che, come detto, nasce in un momento buio e traumatico
per la cantante.
Anche
se la sua stella brilla sempre più luminosa ogni volta che viene
menzionato il suo nome, quell’episodio traumatizzante e l'inevitabile
tumulto emotivo che ne è conseguito, hanno gettato un'ombra oscura sulla
sua vita. La vicinanza con la morte ha fatto scattare una molla
decisiva, e quella strega che è sempre stata un sotto testo delle sue
canzoni, emerge con forza e diventa protagonista della title track e
della clip che l’accompagna, in cui la musicista accompagnata dal Deep
Throat Choir, ensemble tutto al femminile (il suo "coro delle streghe", come lei stessa lo definisce), costruisce un mondo sonoro intriso di ritualità e liberazione: “La
stregoneria, la medicina, gli incantesimi e le iniezioni / Il raccolto,
l’ago, proteggimi dal male / La magia e la miseria, la follia e il
mistero”.
Qui, la
Welch personifica un'estetica che i suoi fan, e non solo, hanno sempre
associato alla musica dei Machine, quella di una strega che scappa nei
boschi per maledire coloro che le hanno fatto del male.
Per quanto ammantato di un alone crepuscolare, Everybody Scream
è, comunque, ben lontano dall'essere solo un flusso di coscienza,
un’immersione nel buio del dolore, un'analisi delle insidie che si
celano nel realizzare i propri sogni, e, soprattutto, si tiene lontano
dal tentativo di ripetere i successi passati.
La
scaletta rappresenta semmai il momento in cui Welch si distingue dai
suoi colleghi pop e si tuffa senza paura in un art-pop spazioso plasmato
con il folk anni ‘70, sostenuto da percussioni incalzanti e levigato da
una produzione che gioca per sottrazione, lasciando che siano
l’immaginario vivido e sentimenti senza filtri a guidare i brani.
La
strumentazione del disco, anche nei suoi momenti più esplosivi, come
nella trascinante traccia che dà il titolo all'album e nella struggente
"You Can Have It All", s’incentra su percussioni a cascata e
incandescenti crescendo, lasciando però che la stella più luminosa sia
sempre la Welch, il suo inarrivabile vibrato, la sua emotività
trascinante.
Traumatica
e incredibilmente sincera, la musica di Florence continua a muovere
l'ago della bilancia in una cultura pop che è stata ridotta a canzoni
abbastanza brevi da diventare virali in un video di TikTok. Lo stile
barocco e la passione per l’art pop dei Florence + the Machine
potrebbero sembrare in qualche modo anacronistici e fuori luogo in un
contesto musicale attuale, eppure questa proposta ha mantenuto un certo
livello di rilevanza in un'industria satura di inautenticità. E questo
urlo, catartico e liberatorio, rende onore al genere, irrorandolo di
sangue, bagnandolo di lacrime e pervadendolo di emozioni
contraddittorie, ma mai così vere e totalizzanti.
Avete
presente quel giochino che si faceva da ragazzini e che consisteva
nell’accostare due gusti tra di loro inconciliabili per vedere chi
riusciva a creare l’abbinamento più bizzarro? Una cosa tipo cozze e
nutella, per intenderci. Ecco, tra le collaborazioni musicali più
improbabili vince a mani basse quella fra gli Avett Brothers e Mike
Patton. Un accostamento all’apparenza senza senso, di quelli che
lasciano perplessi, tanto da farci grattare la testa, come di fronte a
un problema apparentemente irrisolvibile.
D’altra
parte, è la storia che parla. Mike Patton è stato il papà
dell’alternative metal e del crossover a capo dei leggendari Faith No
More, ha guidato progetti di rock sperimentale come Fantomas e Mr.
Bungle, ha fatto suo uno sguardo irriverente e iconoclasta, sovvertendo i
canoni dei generi e flirtando spesso con le ali estreme del rumore. E
gli Avett Brothers? La band capitanata dai fratelli Seth e Scott Avett
potrebbe essere definita come i Mumford & Sons della Carolina del
Nord, sono dei bravi americani timorati di Dio, che suonano il loro buon
vecchio folk rock da stadio per dei bravi americani timorati di Dio. Ma
sono dei Mumford & Sons che ce l’hanno fatta, perché a ben vedere i
loro dischi, funzionano dannatamente bene e si fanno ascoltare con
piacere. Possiedono un raro gusto della melodia (per quanto spesso
figlia di un certo manierismo radiofonico) e un’esuberanza caciarona che
li rende irresistibili dal vivo.
Due mondi a parte, dunque, due filosofie musicali apparentemente intangibili, che, tuttavia, in questo AVTT/PTTN, progetto nato dalla stima reciproca fra i musicisti coinvolti, producono un risultato più che positivo.
Patton
canta con un timbro southern basso che si bilancia in armonia con le
voci melodiose dei due fratelli, contribuendo in un modo molto
intrigante a un interplay rodatissimo, rinfrescando, quindi, dinamiche
costruite da tempo con grande mestiere. Le canzoni si muovono con
sicurezza in ambito folk rock, a cui la mano di Patton aggiunge al
classicismo tocchi inaspettati, che rendono la scaletta molto meno
prevedibile.
L'album
inizia con "Dark Night Of My Soul", che si apre con un delicato finger
picking e la voce condivisa tra Patton e gli Avett, trasmettendo un
senso di calore avvolgente, di cose antiche che riscaldano il cuore, per
poi evolversi in qualcosa di spazioso e cinematografico verso la fine
del brano.
"To
Be Known" inizia morbidissima su note di piano sgocciolate, coretti
carezzevoli, un banjo pizzicato e una batteria scarna, mentre i fratelli
aprono le parti cantate per poi lasciar spazio a Patton, in quello che è
il brano più Avett Brothers del disco.
Due
tracce che dimostrano subito come una collaborazione così insolita
possa avere un senso a tutto tondo. Patton si adatta bene al mood e si
mette al servizio delle splendide armonie e del suono delicato che sono
un marchio di fabbrica degli Avett.
Poi
arriva "Heavens Breath", che è senza dubbio la canzone più lontana dal
dna dei due fratelli e che ha un’impronta più decisa di Patton: chitarre
fuzz, accordi ipnotici e granulosi e inserti di synth accompagnano la
voce ruvida e profonda dell’ex Faith No More, in una stravaganza sonora
che lambisce il post punk. L’assolo di chitarra, bruciante e quasi
sbilanciato e il finale noise, trasformano la canzone nel punto
esclamativo della scaletta.
Uscendo
dall'energia punk di "Heavens Breath", si scivola nel miele di "Too
Awesome", una canzone d'amore intrisa di folk, una ballata dolce e
carezzevole, in cui il cantato di Patton e dei Brothers, condiviso e
stratificato, contribuisce a rendere il brano uno dei migliori
dell’album.
"Disappearing"
è un altro brano simile a un classico degli Avett Brothers, ma con
Patton che imposta la sua voce in stile country old school, ricco di
bassi, in una sorta di immedesimazione con Johnny Cash.
È
difficile non amare il modo in cui Patton e i fratelli si alternano
nelle parti vocali da una traccia all'altra, un elemento che fa sì che
questo album sembri una collaborazione a tutto tondo e molto meno un
album di canzoni "con Mike Patton". Sembra quasi che lui si sia
insinuato silenziosamente fra i due come se fosse un terzo fratello,
cosa che funziona alla perfezione in "Eternal Love", il singolo tratto
dall’album, che vanta alcune delle migliori parti vocali dell'intera scaletta.
"The
Ox Driver's Song", unica cover presente, un bluesaccio dal ritmo
tribale e con inserti elettronici, è il brano in teoria più classico ma
anche più sperimentale del disco, l’anomalia curiosa di un gruppo di
amici che si ritrova esplorare le possibilità della collaborazione,
divertendosi.
Chiudono il disco, l’atmosferica "The Things I Do", avvolta da un’aura
quasi cinematografica e "Received", ultima traccia che funge da caloroso
addio, avvolgendoci tra braccia amorevoli e aprendoci la porta d'uscita
con un dolce sorriso. Quello che nasce da un connubio che poteva
trasformarsi in farsa e che, invece, ci tiene stretti a sé con un pugno
di canzoni che vince e convince, e si fa riascoltare con rinnovato
piacere.
Un
incredibile ever green, uno standard soul che a distanza di decenni
continua a conquistare e scaldare il cuore degli ascoltatori di ogni
età. "Sunny" parla di un amore edificante che porta conforto nel dolore.
A differenza di molte canzoni con questo messaggio, il termine "Sunny" è
molto ambiguo: potrebbe riferirsi a un uomo, una donna, un genitore, un
figlio, un amante o un amico. Potrebbe persino parlare di Dio, come
alcuni hanno ipotizzato.
"Sunny, ieri la mia vita era piena di pioggia
Sunny, mi hai sorriso e hai davvero alleviato il dolore
I giorni bui sono andati e i giorni luminosi sono qui
La mia Sunny splende così sincera
Sunny così vera, ti amo"
Bobby
Hebb non ha mai attribuito un'ispirazione specifica alla canzone, ma la
morte di suo fratello, Hal Hebb (anche lui musicista), assassinato a
coltellate il 23 novembre 1963, il giorno dopo l'assassinio di John F.
Kennedy, è stata probabilmente l’abbrivio per la composizione. Hebb ha
spiegato che la canzone gli ha portato equilibrio e speranza per un
futuro migliore, un messaggio, questo, che fu condiviso da molti
ascoltatori. Nella canzone, infatti, l'artista intende esprimere la sua
predisposizione a vedere le cose positive e solari della vita, anche di
fronte a simili tragedie.
Per quanto concerne la genesi del brano, Hebb raccontò: "Lavoravo
al Brandy's, un bar e ristorante a New York City, sull'84esima strada,
vicino alla Second Avenue. Avevo bevuto parecchio Tennessee Whiskey,
davvero tanto. A dire il vero, ero così sotto l'effetto dell’alcool che
avevo paura di provare ad addormentarmi. Alzai lo sguardo e vidi un
cielo viola. Avevo la chitarra in mano e, senza toccare una matita,
iniziai a scriverla. Ed è così che nacque il brano. Ho colto nel segno".
Hebb
registrò il brano con il produttore Joe Renzetti, che si avvalse di
diversi musicisti di studio newyorkesi come band di supporto, tra cui il
duo Ashford & Simpson (Nick Ashford e Valerie Simpson) che cantava i
cori insieme a Melba Moore.
Hebb
è morto nel 2010 all'età di 72 anni, e al momento del suo decesso
"Sunny" era la diciottesima canzone più eseguita nel catalogo BMI (ente
che raccoglie e distribuisce le royalties per le esecuzioni pubbliche
delle opere musicali dei suoi membri).
La
canzone, infatti, è una delle più coverizzate di tutti i tempi, essendo
stata reinterpretata da Frank Sinatra, James Brown, Stevie Wonder,
Marvin Gaye e centinaia di altri artisti, tra cui Cher, che l'ha
registrata negli anni '60 come tributo al suo compagno, Sonny Bono.
L'originale di Hebb, tuttavia, è l'unica versione ad essere entrata in
classifica in America, mentre in Europa, una versione dance del 1976 dei
Boney M. è stata un enorme successo, raggiungendo il terzo posto nel
Regno Unito e il primo in Germania, Austria e Paesi Bassi.
Hebb
aprì il concerto dei Beatles durante il loro ultimo tour, che si tenne
in America dal 12 al 29 agosto 1966, quando "Sunny" era in vetta alle
classifiche dell'epoca, avendo raggiunto il secondo posto il 20 agosto.
L'ultimo concerto del tour si tenne a San Francisco, dove Hebb eseguì la
canzone mentre sulla serata calava una fitta nebbia. Ironia della
sorte.
Quello
di Alan Sparhawk è un nome fondamentale per la musica alternativa
statunitense, essendo stato leader, insieme alla moglie Mimi Parker, di
una delle più grandi band degli ultimi 30 anni, i Low, i cui dischi
(sceglietene uno a caso fra i tredici pubblicati e avrete in mano un
gioiellino) hanno riletto con audacia le radici americane, attraverso
una commistione sperimentale con slow core, indie rock, dream pop, dai
tempi dilatati e arrangiamenti minimalisti.
Il
5 novembre del 2022, la Parker, a soli cinquantacinque anni, ci ha
lasciati per un brutto male, mettendo fine inevitabilmente alla storia
della band, e lasciando il proprio coniuge in uno stato di dolore e
prostrazione ancora in fase di rielaborazione.
Il secondo album solista di Sparhawk, White Roses, My God uscito
nel 2024, due anni dopo la morte di Mimi Parker, era un album che
cercava lenimento al lutto nell'emozione della creazione sperimentale,
evitando per quanto possibile stati d'animo malinconici e crepuscolari,
che peraltro sono stati sempre il pane quotidiano dei Low.
Questo nuovo With Trampled by Turtles, alla luce delle due distinte carriere, sembrerebbe quasi un azzardo. Gli ultimi due album dei Low, in particolare Hey What(2021),
hanno esplorato estremi musicali apparentemente inconciliabili con la
proposta dei Trampled by Turtles, una jam band di bluegrass e folk,
fortemente legata alle radici. Eppure, fra le due realtà, entrambe
provenienti dal Minnesota, da tempo si era creato un legame di reciproca
ammirazione e collaborazione, e così, dopo un tour del 2023, in cui
Sparhawk ha suonato insieme al gruppo, il progetto di poter fare un album
insieme è diventato realtà, pare, con un solo giorno di registrazioni.
Per
quanto sperimentale possa essere stata la musica dei Low e per quanto
più classica quella dei Trampled By Turtles, questo album funziona
benissimo. I Turtles non solo esaltano la bellezza delle nove canzoni in
scaletta, ma danno respiro al dolore di Sparhawk in modo più diretto
rispetto a White Roses, My God, dove l'uso di sintetizzatori ed effetti vocali tendeva a mitigare lo struggimento.
Qui,
completamente esposto nella propria fragilità, Sparhawk mette a nudo le
sue emozioni senza filtri, mentre banjo, chitarre acustiche e violini
lo riconnettono alle radici di un suono. Molto più del disco precedente,
queste nove canzoni sono intrise di dolore, di assenza, di desiderio,
di oscura devastazione.
Ciò
è più che evidente nel lamento straziante di "Not Broken", che vede la
partecipazione di Hollis, la figlia di Sparhawk e Parker, la cui voce si
sostituisce a quella della madre, e per una frazione di secondo pensi
che questa possa essere una canzone perduta dei Low, invece che una
nuova. E’inevitabile il groppo in gola, inevitabile percepire la
perdita, anche se si insinua nell’ascolto un refolo di speranza e di
luce.
Forse nulla parla più apertamente del dolore della nuova versione di Heaven, originariamente registrata su White Roses, My God.
Invece di sintetizzatori e vocoder, la resa acustica porta le emozioni
di Sparhawk in superficie, come sangue rappreso sui lembi di una ferita
ancora aperta. Mentre canta "Heaven, It's a lonely place if you're alone, I wanna be there with the people I love",
si raggruma nel suono del banjo un incredibile senso di malinconia che
si sposa con la percezione di caducità del brano, allontanandolo dalla
fredda e distaccata versione originale e conferendogli un tono più
sorprendentemente spirituale.
I
Trampled by Turtles sono una scelta perfetta per l’atmosfera che
avvolge questa raccolta di canzoni, sanno come lasciare spazio a
Sparhawk come all'inizio di Screaming Song, in cui il musicista mette a nudo le sue emozioni ("Quando
sei volata fuori dalla finestra e verso il tramonto, Pensavo che non
avrei mai smesso di urlare, Pensavo che non avrei mai smesso di urlare
il tuo nome"), salvo poi accendere l’anima di disperazione con il
corrosivo assolo di violino di Ryan Young, un vero e proprio urlo nel
buio del dolore, un grido straziante che mette a nudo i fili scoperti di
un inconsolabile crepacuore.
E
poi c'è la traccia finale, "Torn & in Ashes", un’altra pagina che
parla di dire addio, a chi, però, non si è ancora pronti a lasciare
andare del tutto. È una canzone al contempo triste e tenera, eppure
trabocca di una comprensibile rabbia per l'ingiustizia della prematura
morte della compagna.
With Trampled by Turtles
è un disco che, a poco a poco, ti contagia, ti cattura in una
ragnatela, ti rende partecipe delle emozioni così esplicitamente
esposte, da intrappolarti in mezz’ora di musica in cui amore e dolore
diventano la quint’essenza della malinconia. Una musica che è ricordo
agrodolce, un tributo sincero e toccante a una vita e a un amore che il
fato insensibile ha portato via per sempre. E troppo presto.
Sono passati ormai sedici anni dal loro album di debutto, To Lose My Life…,
un disco che fece gridare molti al miracolo e che raggiunse il primo
posto nelle classifiche del Regno Unito, grazie a un suono che sembrava
una versione light, ma non banale, di quello plasmato qualche tempo
prima da band come Editors o Interpol.
Tuttavia,
il trio londinese ha dimostrato di essere qualcosa in più di un gruppo
di semplici replicanti. Nel corso degli anni, i White Lies, ovvero Harry
McVeigh, Charles Cave e Jack Lawrence-Brown, hanno affinato la loro
arte, cimentandosi con generi diversi e trasformandosi, pur senza
rinnegare del tutto la sintassi musicale che li aveva portati al
successo con il loro esordio.
Con Night Light,
il primo materiale pubblicato dal 2022, il trio ha cambiato approccio
alla registrazione, componendo prima i brani a casa del cantante, Harry
McVeigh, provandoli quindi dal vivo e infine, con le idee più chiare,
registrandoli in forma definitiva. Il disco, inoltre, si orienta verso
una direzione musicale diversa, le sonorità sono decisamente meno oscure
e più fruibili, alternando momenti introspettivi ad altri più
esuberanti, guardando di più agli anni ’70, e abbracciando generi
diversi come rock, disco e funky.
Il
disco fila via che è un piacere, gli arrangiamenti sono brillanti e
d’ampio respiro, e la scelta di inserire in scaletta solo nove canzoni,
tiene lontano dal rischio di filler.
"Nothing
On Me" è una bella botta iniziale, aperta da un synth gorgogliante e
trainata da un groove ossessivo e aggressivo, che innerva il breve brano
di una giusta dose di tensione. Che si allenta subito dopo con la
sinuosa "All The Best", un brano a due velocità, emotivamente struggente
quando rallenta, intensa ed esuberante quando accelera, e in cui le
linee vocali ben si adattano alla ricchezza degli arrangiamenti e
all’andamento ondivago dello spartito.
Una
canzone audace rispetto agli standard della band, così come la
successiva "Keep Up", che piazza un ritornello irresistibile in una
struttura dalla ritmica complessa e da suoni che potresti trovare in un
album di Peter Gabriel.
"Juice",
con quel leggero velo di malinconia, che ricorda un po’ gli Editors, è
uno dei brani più innodici del disco, a sottolineare la capacità dei
White Lies di creare melodie semplici, ma efficaci, perfette per
esaltare la band sul palco.
Il cuore dell’album è, poi, occupato da "Everything Is Ok", una ballata
per pianoforte e avvolta di calda elettronica, che suona molto Bruce
Springsteen, un brano emotivamente profondo, che trasmette al contempo
intensità e fragilità ("Ho detto che va tutto bene, altrimenti niente sarebbe più andato bene").
Le atmosfere del New Jersey sfumano di fronte all’inebriante "Going
Nowhere", in cui si respira un’aria da fine anni settanta, e un
piacevole dejavù che sa di New York e Talking Heads.
I
tre brani che chiudono l’album sono perfettamente all’altezza di quanto
già ascoltato: la title track si dipana su splendide trame melodiche,
che spingono verso un finale in pulsante crescendo, "I Just Wanna Win
One Time" è grintosa, quasi rabbiosa, ma nasconde un’anima prog nel
drumming leggermente in controtempo e nei rigogliosi arrangiamenti,
mentre "In The Middle", la conclusiva traccia dell’album (che è anche la
più lunga), coi suoi synth pulsanti e una linea di basso incalzante
riconnette i White Lies alla loro vera natura, arricchita da un tocco
prog nel finale, e chiude di slancio un disco assolutamente riuscito.
L'approccio
live al processo di scrittura ha permesso al trio di enfatizzare il
contributo di ogni membro e di abbandonarsi all’intuizione del momento.
Così in Night Light, i White Lies catturano l'attimo e si
divertono, prendendo stili diversi e fondendoli con il nucleo musicale
che li ha sempre contraddistinti. Un approccio che dovrebbe preparare la
band alla prossima fase della carriera.
Composto da un filotto di canzoni strepitose, Appetite For Distruction
(1987), debut album dei Guns N’ Roses, è un disco che, piaccia o meno,
ha lasciato il segno, un’opera tanto discussa, quanto iconica e
trasgressiva. Tanto trasgressiva, che l’ultima canzone in scaletta ha
fatto venire i sudori freddi a tanti ben pensanti dell’epoca e a quei
genitori i cui figli ascoltavano a tutto volume, nella propria
cameretta, quel concentrato di hard rock e sesso.
Ma
andiamo con ordine. La "Rocket Queen" della canzone è una donna di nome
Barbi Von Greif, almeno secondo le note di copertina di Appetite For Destruction, che ringraziano proprio "Barbi (Rocket Queen) Von Greif".
La
ragazza frequentava la band fin dagli esordi insieme alla sua compagna
di stanza, Pamela Manning. Secondo la Manning, lei e Von Greif avevano
fondato una band per un breve periodo (Barbi cantava, Pamela suonava la
batteria) che la Von Greif voleva chiamare "Rocket Queen". All'epoca
Barbi aveva solo 18 anni, ma era una ragazza piena di talento e
passione, tanto che Slash la definì "una regina della scena underground". Riguardo a Barbi Von Greif, Axl Rose, che si era innamorato della ragazza, disse: "Mi ha tenuto in vita per un po'", tanto da omaggiarla, nei versi finali della canzone:
"Non lasciarmi mai
Dì che ci sarai sempre
Tutto ciò che ho sempre voluto
Era che tu sapessi che ci tengo"
Un messaggio esplicito che parla d’amore, o d’amicizia, di un sentimento puro, di un legame che si vorrebbe indissolubile.
Eppure,
"Rocket Queen", chi la conosce lo sa, è una canzone traboccante di
sesso. C'è una storia, infatti, legata a questo brano, che sembra essere
vera: i gemiti e gli altri suoni a sfondo sessuale che compaiono nel
mezzo della canzone furono registrati mentre Axl Rose scopava con una
donna nello studio di registrazione. Quella ragazza era la fidanzata del
batterista della band, Steven Adler (che in seguito fu cacciato
perun'esiziale dipendenza dalla droga).
Il suo nome è Adriana Smith, e si concesse a Axl una notte in cui era furiosa con Adler. "Per quella canzone c'era anche qualcosa che ho cercato di elaborare con diverse persone: un atto sessuale registrato", ha spiegato Axl Rose. "È
stato in qualche modo spontaneo ma premeditato; qualcosa che volevo
mettere sul disco. Era una canzone a sfondo sessuale ed è stata una
notte selvaggia in studio."
Ma
veniamo ai fatti. La Smith arrivò in studio con l'intenzione di far
ingelosire Adler, ed è allora che Axl le propose di scopare e di
registrare l'atto. I fonici microfonarono il pavimento di una cabina
vocale, abbassarono le luci e premettero il pulsante rosso mentre Rose e
Smith ci davano dentro. Secondo Smith, fu tutto molto imbarazzante,
perché Axl voleva che lei si lasciasse andare completamente, cosa
estremamente difficile da realizzare in quelle circostanze. Ci è voluto
un po' di tempo (e un po' di alcol), ma alla fine il risultato fu
raggiunto.
Michael
Barbiero, che mixò l'album, non voleva, però, avere niente a che fare
con la registrazione della scena di sesso messa in atto in studio, e
quindi, dopo aver sistemato i microfoni, la fece registrare
dall'assistente fonico Victor Deyglio. Nell'album, Deyglio è indicato
come "Victor 'The F--kin' Engineer' Deyglio" per via di questo suo estemporaneo contributo.
La Smith visse momenti difficili in seguito, affermando che quel sordido e patetico atto sessuale "le pesava sull'anima".
Tutto ciò che ne ricavò fu una bottiglia di Jack Daniel's e una certa
infamia che la segnò a lungo. Finite le registrazioni, la band partì per
un tour, divenne incredibilmente famosa e tutti i membri si scordarono
completamente dell’esistenza della povera Smith. Che divenne
tossicodipendente e passò molto, molto tempo a elaborare la vergogna che
provava. Tanto che, a coloro che le dicevano che, quella scopata, tutto
sommato, la fece entrare nella leggenda, lei ha sempre risposto: “In
qualche modo sono diventata la Rocket Queen. Ma non ho mai, non ho mai
detto "sono la Rocket Queen". Non sono io. La vera Rocket Queen è Barbi”.
A
settantasette anni Rusty Sabich è un giudice in pensione che vive con
la sua compagna Bea in una bella casa sul lago nel Midwest. La loro
tranquilla esistenza viene turbata dall'improvvisa sparizione di Aaron,
il figlio adottivo di Bea, un ragazzo nero poco più che ventenne che ha
avuto guai con la giustizia per questioni di droga ed è in libertà
vigilata: se non tornerà a casa, andrà in carcere. Quando finalmente
riappare, Aaron racconta in modo piuttosto confuso di essere stato in
campeggio con Mae, la sua ragazza, e di essersene poi andato lasciandola
sola nel bosco dopo una litigata furibonda. Di Mae però si sono perse
le tracce; iniziano le ricerche e dopo un paio di settimane viene
ritrovata morta. Tutti i sospetti ricadono su Aaron che viene accusato
di omicidio di primo grado e arrestato. Nonostante gli indizi a suo
carico sembrino schiaccianti, Bea è convinta dell'innocenza del figlio e
prega Rusty di diventare suo avvocato difensore, e lui, dapprima
riluttante, accetta. Ma il sistema giudiziario al quale Rusty ha
dedicato la sua intera vita può davvero garantire giustizia a chi è
presunto colpevole? Dopo Presunto innocente, il romanzo che ha
ridefinito il legal thriller, torna per l'ultima volta in tribunale
l'indimenticabile giudice e avvocato Rusty Sabich, alle prese con un
caso che fin dall'inizio si prospetta disperato e un processo complesso
dalle forti implicazioni razziali, che non risparmia colpi di scena fino
all'ultima pagina.
Quando nel 1987, l’avvocato penalista e aspirante scrittore, Scott Turow, pubblicò il suo esordio, Presunto Innocente,
nemmeno lui si sarebbe mai immaginato che quel romanzo sarebbe stato un
best seller a livello mondiale, garantendogli gloria imperitura. Quel
debutto, che anche da noi fu un clamoroso successo editoriale, divenne
qualche anno dopo un avvincente film diretto da Alan Pakula e
interpretato da un bravissimo Harrison Ford, mentre l’anno scorso, a
testimonianza della validità di un’opera refrattaria allo scorrere del
tempo, è stato trasposto in una mini serie televisiva (la trovate su
Apple Tv), con protagonista un convincente Jake Gyllenhall (il finale,
però, è diverso dall’originale).
Quasi
quarant’anni dopo, Turow, oggi affermato romanziere, torna in libreria
con un nuovo romanzo, che riprende, modificandolo, il titolo del suo
celeberrimo debutto, e rimette al centro del villaggio l’ex vice
procuratore distrettuale, Rozat "Rusty" Sabich, ai tempi accusato
dell’omicidio dell’amante Carolyn Polhemus.
Oggi,
Sabich ha settantasette anni, è un giudice in pensione, che offre
sporadiche consulenze, e che vive una vita tranquilla con la compagna,
l’amatissima Bea, con cui condivide una splendida casa sul lago. L’unico
problema che affligge la coppia è il figlio adottivo di lei, Aaron, un
inquieto giovane di colore, con precedenti penali per droga. Aaron, che
sembra aver messo la testa a posto ed è in libertà vigilata, vive una
tumultuosa storia d’amore con la bellissima Mae, la giovane e
scapestrata figlia del Procuratore Distrettuale. Dopo che Aaron e Mae
decidono, all’insaputa di tutti, di andare in capeggio per qualche
giorno a programmare un possibile matrimonio, l’apparentemente armonia
fra Rusty e Bea inizia a vacillare, soprattutto dopo che Aaron, in
evidente stato confusionale, torna a casa, senza Mae. Della ragazza non
si sa più nulla, fino a quando, quindici giorni dopo, ne viene ritrovato
il corpo, vittima di quello che sembra uno strangolamento.
Dell’omicidio viene accusato Aaron, e Rusty, dopo anni di assenza dai
tribunali, si trova costretto a tornare in aula, come avvocato difensore
del figlioccio.
Nelle
prime cento pagine del romanzo, il ritmo è compassato. Turow si prende
il tempo per costruire l’ambientazione di una provincia americana
fondata sull’agricoltura, ma ricca e prosperosa, in cui il paternalismo
progressista delle classi più abbienti vive in un connubio perfetto con
il pragmatismo e il moralismo di facciata di una popolazione di
contadini legati alle proprie tradizioni, ostile ai forestieri, e
maldisposta nei confronti della gente di colore.
Lo
scrittore americano, inoltre, scava in profondità sulle dinamiche
famigliari che legano Rusty e Bea, una coppia affiatata, il cui amore,
però, verrà messo duramente alla prova da una tragedia, che farà
emergere verità troppo a lungo taciute.
E’
solo quando Aaron viene accusato di omicidio, però, che il romanzo
decolla veramente, e chiarisce perché Scott Turow è considerato uno dei
maestri indiscussi del legal thriller.
Per quanto ponderoso nella sua lunghezza, quando Presunto Colpevole
apre le porte dell’aula del tribunale, il ritmo aumenta, i colpi di
scena, seppur centellinati, tengono desto il pathos e l’attenzione,
mentre le schermaglie fra accusa e difesa e le rispettive strategie
processuali risucchiano il lettore in una trama gestita magistralmente,
che si conclude con un esito inaspettato e disturbante, che farà luce
sulla fine della povera Mae.
Un vero gioiello per tutti quei lettori che amano alla follia il genere.
La
musica ai tempi dei social imbocca strade su cui si corre velocemente
verso la notorietà. Che sia un bene o un male, non sta a noi giudicare.
Sta di fatto che i Rocket, quattro ventenni di Los Angeles, che hanno
iniziato a fare musica nel 2021, si sono trovati a gestire in breve
tempo un hype in crescendo, tanto che nel biennio tra la loro formazione
e l’EP di debutto Versions Of You, dopo una gavetta in piccoli
locali della zona, si sono trovati ad aprire i concerti di quelle band
che adoravano durante l’adolescenza, come Ride e Smashing Pumpkins. E
questo, uscendo indenni dalla crisi pandemica e senza aver pubblicato un
album completo.
Un specie di miracolo artistico che li ha portati alla pubblicazione di R Is For Rocket,
esordio sulla lunga distanza, che ha ulteriormente rafforzato la loro
immagine agli occhi della critica e di una fanbase sempre più numerosa.
Che
la band abbia talento è abbastanza chiaro fin da un primo ascolto
dell’album, ma è altrettanto vero che le dieci canzoni in scaletta si
allineano a uno stiloso revival dell’alt rock anni ’90, che fonde con
intelligenza shoegaze, noise, dream pop e schegge di grunge, in un
connubio equilibrato di chitarre propulsive e melodie eteree.
R Is for Rocket
è, tuttavia, un album di debutto insolitamente sicuro, che dimostra
come quest'ondata di nostalgia per l'apogeo dell'alternative possa
essere riletta con consapevolezza ed evidente devozione, a volte fin
troppa, per band seminali come i citati Ride e Smashing Pumpkins, oltre
che Breeders e Sonic Youth.
L’iniziale
"The Choice" apre il disco con scintillanti tessiture di chitarra e si
sviluppa su un crescendo che lentamente divampa, mentre nella successiva
"Act Your Title" il basso ronza accompagnato da un drumming quadrato,
che scalda l’atmosfera senza saturare eccessivamente il mix. Una
chitarra squillante e leggermente distorta crea scintillio e spazio,
mentre la voce di Alithea Tuttle entra non come una rivelazione,
morbida, intima, composta.
C'è
una certa audacia nel modo in cui la frontwoman si appropria dei brani.
La sua voce si insinua negli arrangiamenti con una chiarezza che
risulta ipnotizzante, è lei a dettare il ritmo della band, permettendo
alle dinamiche di emergere in modo naturale e, così facendo, inquadra
l'architettura emotiva della scaletta con inarrivabile precisione.
L’elemento
distintivo dei Rocket è dunque il pop-rock teso e trascinante che li
avrebbe portati a riempire le arene tre decenni fa: "One Million"
accosta un riff irresistibile a una melodia che aleggia, coinvolgendo
emotivamente l’ascoltatore, mentre "Pretending" flirta, rumorosa ma
acchiappona, con lo shoegaze.
I
Rocket portano le loro influenze ben impresse nella memoria e ci sono
momenti, in particolare nella seconda metà dell'album, in cui la
devozione al suono fa virare i brani verso una pericolosa prevedibilità,
finchè la title track, con il suo crescendo rumoroso, chiude il cerchio
palesando un indiscutibile talento.
In definitiva, R Is For Rocket
mette in scena una band che sta testando i propri limiti, esplicitando,
però, anche tutte quelle qualità atte a superarli. Non è, dunque, un
disco impeccabile, ma finisce per essere comunque avvincente: in tre
parole, derivativo, interessante, promettente.
Dal debutto datato 2019 e intitolato Burning Bright (in
realtà, era già stato pubblicato precedentemente un disco come Laura
Cox Band), la cantante e chitarrista francese ha iniziato a ritagliarsi
uno spazio sempre più ampio nel novero delle migliori interpreti
femminili del genere rock blues. Il successivo e bellissimo Head Above Waterdel
2023, ne ha confermato la caratura e il talento, non solo conquistando
la critica, ma allargando sensibilmente il bacino della sua fanbase.
Questo nuovo Trouble Coming
vede la Cox ancora più consapevole dei suoi mezzi e perfettamente a suo
agio con una backing band diversa dalla precedente, che ha saputo
assecondare la nuova visione della chitarrista, alle prese con un
approccio più libero e molto meno legato al passato.
Il
risultato è un disco che, senza rinnegare la propria comfort zone, vede
la Cox cercare un suono più rotondo e meno prevedibile, più moderno e
meno ancorato ai consueti tropi rock blues. Decisamente più radiofonico,
anche, senza che però questo aspetto abbia sminuito un songwriting
sempre solido e ispirato.
"No Need To Try Harder" è l’inizio che ci saremmo aspettato e riprende il discorso interrotto con Head Above Water:
un rock blues che alterna momenti muscolari ad altri più introspettivi,
in un connubio in cui la musicista francese esibisce la propria tecnica
eccelsa con misura e senza inutili sbrodolamenti.
"A
Way Home" si apre con un bel riff schiaccia sassi, ma l’andamento del
brano è ben poco lineare, accostando momenti innodici ad altri di stasi
melodica, impacchettati da un paio di assoli brevi ma ficcanti.
La title track apre al blues più classico, ma l’atmosfera è abbastanza cupa, nonostante la tessitura melodica ben congegnata.
"Inside
The Storm" è lo specchio di un nuovo modo di concepire le canzoni, il
rock non manca, ma la declinazione è decisamente più indie, il
ritornello è folgorante, il mood vagamente malinconico, gli
arrangiamenti decisamente più accurati. Un passo di lato rispetto al
passato, e decisamente riuscito.
"What
Do You Know?" è una ballata cadenzata e avvolta in spire crepuscolari,
le trame sotterranee sono bluesy, lo svolgimento denso di pathos.
Il
basso distorto e pulsante che apre "Dancing Around the Truth" stuzzica
fantasie quasi new wave, mettendo l’accento sulla versatilità del disco,
così come "The Broken", pervasa a tratti da un’urgenza quasi punk.
Più
in linea con l’antico spirito, l’intensa ballata "Out Of The Blue", in
cui la Cox si cimenta al banjo, donando al brano un tocco molto
americano, e il rock blues pesante e stazzonato di "Rise Together".
Chiudono
il disco il ringhio ribelle di "Do I Have Your Attention?" una sorta di
chiamata alle armi di tutti i suoi fan (e che assolo!) e la conclusiva
"Strangers Today", che alterna strofe scarne e ispide a un ritornello
avvolgente e sensuale.
Con Trouble Coming
la Cox ha rifinito il suo suono, spaziando fra i generi e rendendolo
appetibile per un pubblico più vasto, grazie ad arrangiamenti
decisamente moderni. Non si è snaturata, grazie a Dio, e le radici rock
blues sono ancora ben presenti, ma in un contesto forse più malinconico e
cupo, e volutamente più libero e coraggioso.
Nonostante
il titolo, questa non è una canzone estiva spensierata e allegra. Il
protagonista è figlio di un élite benestante, un giovane rampollo la cui
villa è stata svuotata dal fisco, che gli ha persino sequestrato lo
yacht. Anche la fidanzata l’ha lasciato, portandosi via la macchina. Non
ha più nulla e tutto ciò che gli resta è godersi un pomeriggio
soleggiato, sorseggiando birra ghiacciata.
La
canzone è stata scritta dal frontman dei Kinks, Ray Davies, che stava
attraversando un periodo molto difficile. I Kinks erano nel mezzo di
un'improvvisa ascesa alla fama, ma le tensioni del gruppo, le cause
legali, un carico di lavoro irrealistico e un management vile li rendeva
infelici. Davies stava anche affrontando la paternità e si prese una
pausa dal gruppo per dedicarsi alla figlioletta.
Il
cantante scrisse "Sunny Afternoon" proprio durante questo periodo di
stasi, prima componendo la musica e poi le liriche, attraverso le quali
creò un alter ego per esprimere, filtrandoli, i propri sentimenti. E
L'unico modo per poterlo fare, era quello di inventarsi la figura di un
aristocratico polveroso e decaduto che proveniva da una famiglia ricca, e
che ben esprimeva lo stato d’animo apatico del songwriter, la cui
agiatezza, però, era stata raggiunta con il duro lavoro di musicista.
Tuttavia,
temendo che gli ascoltatori potessero simpatizzare con questo triste,
annoiato e decadente riccastro, Davies lo trasformò in un mascalzone che
malmenava la sua ragazza dopo una notte di ubriachezza (“In estate,
La mia ragazza è scappata con la mia macchina, Ed è tornata dai suoi
genitori, Raccontando storie di ubriachezza e crudeltà”).
A proposito della genesi del brano, Davies disse: “Vivevo
in una casa arredata in perfetto stile anni '60. Le pareti erano
arancioni e i mobili verdi. Mia figlia di un anno gattonava sul
pavimento e io scrissi il riff iniziale. Lo ricordo vividamente.
Indossavo un maglione a collo alto." All’epoca, inoltre, il leader
dei Kinks, che come detto viveva un momento di profonda apatia, non
ascoltava musica, ad eccezione di Frank Sinatra, Bob Dylan e Bach, che
riproduceva in loop dal giradischi di casa e che, disse, siano state le
sue uniche fonti d’ispirazione.
Il
giorno della registrazione, Davies aveva un forte raffreddore, che gli
alterava la voce. Quando a fine giornata fu il turno di registrare
"Sunny Afternoon", il cantante era molto sofferente, ma ci provò lo
stesso. Il risultato, a suo dire, fu pessimo e chiese di poterla provare
un’altra volta. Tuttavia, il tempo della sessione era finito e non si
potè far altro che tener buona quella traccia, a proposito della quale
il musicista, qualche tempo dopo, disse: “avevo 22 anni, ma la mia voce sembrava quella di uno sui 40, che ha passato momenti difficili”.
Pubblicata come singolo a giugno del 1966 (e poi confluita nella scaletta di Face To Face,
uscito a ottobre dello stesso anno), "Sunny Afternoon" fu il terzo (e
ultimo) successo numero 1 nel Regno Unito per i Kinks, dopo "You Really
Got Me" e "Tired of Waiting for You". Gli americani, invece, non
apprezzarono i Kinks come fecero con i Beatles e i Rolling Stones, e dal
1965 al 1969 una disputa sindacale impedì alla band di andare in
tournée in quel paese e riuscire, quindi, a fare nuovi proseliti.
Ciononostante, i loro primi singoli andarono abbastanza bene anche negli
States, tanto che "Sunny Afternoon" raggiunse la posizione numero 14.
Un’ultima annotazione. Il verso” Salvami da questa stretta, Ho una mamma grande e grassa che cerca di spezzarmi”
non si riferisce solo alla mamma di Davies, che era un donnone, ma
contiene soprattutto una velata critica politica. La mamma grassa,
infatti, non è altro che il governo britannico che, con le sue
politiche, cerca di spezzare la vita dei propri cittadini.