Quando
si possiedono idee, creatività e passione, si possono scrivere ottime
canzoni e rilasciare ottimi dischi, senza bisogno di ricche produzioni e
grande dispiego di mezzi. E’ sufficiente avere la consapevolezza di ciò
che si sta facendo e di come si intende realizzarlo, e il coraggio di
imboccare una strada e percorrerla tutta, fino in fondo, senza paura.
Questo assunto si sposa perfettamente con l’ascolto di Apocalyptic Blues,
esordio dei saronnesi Sid Sidney & the Little Angels: un disco
interamente registrato su un ipad e poi prodotto in uno studio musicale,
e poi riversato su macchine analogiche sia in fase di mixaggio che di
masterizzazione.
Sid
Sidney (Nero Violino, Amanita, Che Fare? e da dieci anni
contrabbassista jazz), autore di tutte le canzoni, e Davide Peri-J Fox
(Mama Bluegrass Band) sono riusciti nell’intento di creare un’opera
musicale di altissima qualità, con mezzi spartani ma idee assai
brillanti. Non parlo solo di belle canzoni, e qui ce ne sono parecchie,
ma soprattutto di un’inaspettata coerenza nello sviluppo delle
intuizioni. Se spesso le opere prime sono segnate da irrequietezza,
sovrabbondanza espressiva e confusione formale, in Apocalyctic Blues la
visione d’insieme è coesa, sia nel suono che nelle intenzioni.
Un
disco asciutto, sobrio, diretto, che si poggia su una solida ossatura
blues su cui però si addensano i sedimenti di quanto ascoltato, suonato e
recepito negli anni. Nelle dieci canzoni in scaletta, quindi, convivono
in un connubio omogeneo elementi rock, psichedelici, grunge, pop e new
wave, contornati da atmosfere brumose, avvolti nel cupo respiro di una
notte senza stelle e attraversati da un persistente mood crepuscolare.
La
ritmica quadrata, la vibrante elettricità delle chitarre, pronte a
sferrare fendenti affilati o ad assestare sferraglianti bordate, e le
belle linee vocali disegnate dalla voce di Sid Sidney, che veste i panni
di un crooner dallo sguardo sinistro, dal timbro ieratico e dalla
ritmica, a tratti, salmodiante, conducono l’ascoltatore attraverso quasi
quaranta minuti di musica ricca di intensità e di pathos.
La vibrante inquietudine rock blues di Cramps Into My Head, che apre le danze nel cuore di una notte plumbea, il passo pesante, quasi elefantiaco, e le contorsioni psichedeliche di Into Your Void, la malinconia disturbata della purpurea e struggente Morning Velvet, ballata riverberata dal fondo di un cratere, le scorie grunge della conclusiva Be There With You, una sorta di Nutshell post
atomica, o l’ondeggiare depresso di Strange Days (in entrambi i casi la
voce di Sid evoca, sulle note basse, il compianto Layne Staley) sono
gli highlights di un disco che compensa l’esiguità dei mezzi con una
palpabile urgenza compositiva e un surplus di emozioni che conquista fin
dal primo ascolto.
“Nessuno si salva da solo”. Queste le parole
struggenti pronunciate dal Pontefice durante la preghiera Urbis ed Orbis
in una crepuscolare e tetra Piazza San Pietro. Solo il rumore cupo e
metallico di una pioggia battente a fare da sottofondo. Sono suggestioni
di un momento drammatico che segnerà il nostro percorso di vita. Se è
vero che nessuno si salva da solo è altrettanto realistico che nessuno
potrà salvarci da Matteo Salvini. Mi dolgo della considerazione
prosaica, ma neppure in una avversità tanto tragica come questa, il
Capitano Apri e Chiudi non ci risparmia le sue solite ricette salvacena
per fronteggiare l’imprevisto. A parte il solito bla bla contro il
governo e il Premier Conte, l’ex ministro dell’Interno non sembra
perdere ne’ il pelo ne’ tantomeno il vizio. Nella solita veste di
tracotante disturbatore del conducente, si agita in dirette su social e
in trasmissioni televisive snocciolando ad minchiam numeri di morti,
mascherine, tamponi e di “ve lo avevo detto”. Tra le tante drammatiche
suggestioni con cui mi ritrovo a fare i conti in questi maledetti
giorni, penso a cosa sarebbe accaduto se il felpato Matteo, dopo il
colpo di sole ferragostano, fosse ora investito dei pieni poteri.
Una
sciagura apocalittica pari per gravità a quella di trovarci il senatore
di Scandicci investito da qualche ruolo istituzionale di prestigio.
Quando fa capolino l’uno (Salvini) ecco che in perfetto sincrono appare
l’altro (Renzi) in ossequio al detto “marciare divisi per colpire
uniti”. E tutto questo nel segno di una visibilità prepotente e
arrogante. Nel pieno di una catastrofe quasi biblica per proporzione e
diffusione, Renzi il Saggio, sull’onda di Beppe Sala nella versione
iniziale del contagio, invoca ora la riapertura delle attività.
“Dobbiamo convivere con il virus. La gente non può morire di fame in
un’Italia ibernata per un altro mese. Serve attenzione, serve
gradualità, serve il rispetto della distanza ma bisogna riaprire”.
Peccato che proprio lui e i tanti che la pensano allo stesso modo non
sono costretti a prendere il treno o la metropolitana per andare a
lavorare alla catena di montaggio. È fin troppo facile atteggiarsi a
soloni con i problemi altrui. L’unica spiegazione a un siffatto
“slancio“ non è altro che “purché si parli di me, comunque se ne parli,
purché se ne parli”.
Non ho dubbi che l’uscita di Gigaton,
undicesimo album in studio dei Pearl Jam, sarà accompagnata da
recensioni negative e da una (aprioristica) campagna denigratoria, cosa
che succede spesso per nuovi lavori di band o artisti bolliti (o
presunti tali), spesso a prescindere dal contenuto qualitativo di ciò
che si va ad ascoltare. Mi trovo, quindi, nella scomoda posizione di
parlare bene di un disco che ancora prima della pubblicazione, aveva
suscitato sui social le consuete dissertazioni su come i Pearl Jam siano
ormai vecchi, abbiano già dato tutto, si presentino come una stanca
replica di loro stessi, non facciano un disco decente, eccetera,
eccetera, eccetera. E sento il bisogno di parlarne bene, non perché ami e
segua la band di Seattle fin dai suoi primi, ormai lontanissimi,
vagiti, ma perché Gigaton, al netto di alcuni difetti, è un
disco che ripropone una band risoluta, curiosa, vogliosa di fare, capace
ancora, come peraltro non ha mai smesso di fare, di scrivere anche
grandi canzoni.
Nessuno, qui, vuol fare apologie da fan irriducibile: è evidente che album come Ten, Versus, Vitalogy,
rappresentino un apice artistico impossibile da replicare, ed è
altrettanto evidente che, esaurita l’urgenza espressiva degli anni
gloriosi, i Pearl Jam si siano rintanati in una comfort zone, dalla
quale hanno continuato con regolarità a sfornare dischi di mestiere,
raccontando cose già dette, a volte bene, a volte molto meno. E’ un calo
fisiologico, che diventa poi assestamento quando la creatività non
trova più sbocchi verso nuove forme espressive.
In tal senso, Gigaton
stupisce proprio per la volontà di Vedder e soci di superare il proprio
steccato e vedere se sia possibile rimettersi in gioco, provando a
spostare, non di molto, ma in modo comunque significativo, il baricentro
della loro musica. Intendiamo: i Pearl Jam restano loro, il marchio di
fabbrica è quello; eppure, in queste dodici canzoni, lo sforzo per
evolversi è tangibile ed evidente. Ci sono suoni nuovi e c’è un modo
leggermente più complesso di strutturare le canzoni, pur rimanendo
sempre in quell’ambito classic rock, che li mantiene fra le band più
seguite e amate al mondo (pur con il consueto contorno di irriducibili
detrattori).
Gigaton è, perciò, un disco che richiede un ascolto diverso, che non può essere esaurito con un ”buona la prima, tanto è sempre la stessa solfa",
ma va compulsato più volte per comprendere lo sforzo fatto dal gruppo
per rinnovare il messaggio. Non tutto, ovviamente, è centrato, ma le
canzoni buone ci sono e non sono poche (come per altro, già esistevano
anche in pubblicazioni precedenti meno brillanti e massacrate senza
pietà da molto critica).
Who Ever Said
apre le danze con il più tipico suono PJ: un riff di chitarra
arrembante e la ritmica martellante fanno pensare subito che siamo di
fronte al già sentito, all’ovvio. Eppure, a metà, il brano ha una
svolta, si innerva di pathos e tensione, sembra una canzone a incastro,
tanto vibrante da far pensare di essere tornati ai tempi d’oro. Anche la
successiva Superblood Wolfmoon, eccitata dal rombare
punkeggiante delle chitarre, suona inizialmente come un deja vu.
Tuttavia, non è la solita sfuriata di tre minuti e via: la trama è più
complessa, piacciono i cori, la foga di uno scatenato Vedder e l’assolo
icastico e risoluto di McCready. Sono i Pearl Jam, certo, ma non sono i
Pearl Jam che fanno i Pearl Jam: sono potenti, sferraglianti, credibili.
Dance Of Clairvoyants
è il primo brano in scaletta che si discosta nettamente da quanto la
band di Seattle ci ha abituati in tanti anni, ed è stato anche il primo
singolo pubblicato, quello che per molti è stata una sorta di colpo di
fulmine (evaporato dopo pochissimo, peraltro) e che ha anche ingenerato
azzardati paragoni con i Talking Heads. Comunque la vogliate vedere,
questa resta una canzone di rottura, intrigante e imprevedibile, capace
di miscelare alla perfezione inquietudini new wave a un nervosissimo
groove funky. Ancora meglio la successiva Quick Escape, la cui
circolarità elettrica e convulsa, è sostenuta da un giro di basso
potente e distorto. Un brano le cui intenzioni sono quasi progressive,
come dimostra la straordinaria coda strumentale, in cui Ament si inventa
una linea di basso alla Chris Squire (Heart Of Sunrise) e
McCready sfodera un assolo da brividi. Canzone da testare assolutamente
in concerto, visto che potrebbe essere l’abbrivio di uno di quei momenti
jammistici con cui i Pearl Jam si mangiano il palco come pochi al
mondo.
Alright
è una ballata che indossa una tenue ed inusitata veste elettronica:
piace il coraggio, ma il songwriting gira intorno a una sola idea e
manca di quel guizzo melodico che poteva centrare il bersaglio grosso.
Come accade, invece, nella successiva Seven O’Clock, sei minuti
abbondanti di power ballad da stadio che srotola il proprio epos su un
tappeto di tastiere e sulla voce quanto mai appassionata di Vedder. Una
sorta di istant classic, a cui, date tempo qualche anno, verrà concesso
un privilegiato posto nel cuore di molti fan.
Never Destination
è la sfuriata punk’n’roll che non manca mai in un disco dei Pearl Jam.
Niente di nuovo, tutto molto prevedibile (ma queste sciabolate vi sono
sempre piaciute, perché non dovrebbe piacervi anche questa?). Meglio la
successiva, e gemella, Take The Long Way, che sembra animata da sincera urgenza, possiede un ritornello assassino e ci regala un lavoro egregio dei due chitarristi. Buckle Up
è un episodio anomalo, dall’andamento molto psichedelico, potrebbe
essere intrigante, ma sembra un’idea buttata lì, senza essere
sviluppata.
Le successive due canzoni rappresentano il momento più debole del disco: Comes Then Goes
è poco più di una schitarrata con gli amici davanti al falò, inutile e
senza mordente, resa vieppiù inascoltabile dai sei minuti di durata, che
la rendono assolutamente indigeribile, mentre Retrogade è la
classica ballata alla Pearl Jam, ma fiacca, priva di epica e di
ispirazione. Quando, ormai, a fine ascolto, si stanno per tirare i remi
in barca, ecco che arriva improvvisa River Cross, canzone di
bellezza straniante, sostenuta da una ritmica dl suono anni ’80 e da una
melodia appassionata, malinconica e struggente, che la trasfigura in
una sorta di Don’t Give Up (Peter Gabriel) 2.0.
Insomma, Gigaton
(da rivedere titolo e copertina) non è un capolavoro, ma è un buon
disco, testimone di una band che sembra aver disinnestato il pilota
automatico, e si sia rimessa a guidare, facendo leva, non solo sulla
propria indubbia perizia, ma anche su quelle intuizioni, qui nuovamente
presenti, e quel coraggio, che l’hanno fatta diventare una delle più
grandi rock band della storia. Forse, io spero di no, molti ne
parleranno male, e questa magari sarà una delle poche recensioni
positive che leggerete. Personalmente, non voglio convincervi di nulla:
l’arma per giudicare l’avete anche voi. Si chiamano orecchie, e valgono
più di mille parole.
Dopo il successo di Shotgun Lovesongs e Il cuore degli uomini,
Nickolas Butler si ispira a una storia della sua terra per dare vita a
un romanzo colmo di umanità. Con la consueta bravura nel ritrarre
l'America rurale, lo scrittore del Midwest coglie temi universali – le
contraddizioni del credere, il dolore del lutto, il peso
dell'affetto – e li trasforma in sensazioni concrete, come l'odore della
polvere e della benzina, la vista a perdita d'occhio sui campi e i
solchi profondi che l'amore scava dentro ognuno di noi.
Lyle
è un uomo semplice, devoto, attaccato alla famiglia. Ha sessantacinque
anni, è in pensione e aiuta l’amico Otis nella conduzione di un meleto,
che produce frutti squisiti. Ama sua moglie Peg, sua figlia adottiva
Shiloh, e soprattutto il nipotino Isaac, la luce che illumina le sue
ore. Una vita ordinaria, tutta casa e chiesa, i cui giorni sono scanditi
dall’affetto dei cari e degli amici (il mansueto Hoot e Charlie, il
prete della parrocchia) e dallo scorrere delle stagioni del Wisconsin,
la terra dove ha vissuto tutta la propria esistenza. Un giorno, però,
Shiloh si invaghisce di Peter, un predicatore affascinante, ma senza
scrupoli, ed entra a far parte di una setta religiosa, in cui tutti sono
convinti che Isaac abbia capacità taumaturgiche di guaritore. Ben resto
i rapporti fra Lyle e Shiloh si incrinano, al punto che la figlia vieta
al nonno di vedere il nipotino.
Ispirato
da una storia vera, Butler ambienta nella sua terra d’adozione (lui è
nato in Pennsylvania) un piccolo dramma famigliare, per riflette con
profondità sul tema della fede e del fanatismo religioso. Impossibile
non tornare con la mente al capolavoro di Flannery O’Connor, Il Cielo è Dei Violenti,
anche se, in questo caso, manca la follia estrema che animava quelle
sconvolgenti pagine, e il tema resta più sfumato, in quanto il
romanziere si concentra sul riverbero che un’idea travisata di religione
può avere sui rapporti umani.
Lo
scrittore, soprattutto, accompagna il suo personaggio principale in un
percorso di consapevolezza, che porta Lyle, sempre in bilico fra
devozione e agnosticismo, a comprendere che la fede altro non è se non
amare il prossimo e la natura, e condividere le sofferenze altrui,
dividendo in egual misura il fardello del dolore.
Butler
evita moralismi e luoghi comune, e tratteggia, invece, con lirismo e
semplicità (la prosa è asciuttissima) una storia comune, di piccolissimo
cabotaggio, che riesce, però, ad avere un respiro universale. In tal
senso, Lyle è un personaggio centrato e a tutto tondo, che vive le
avversità (la malattia dell’amico Hoot, il distacco dal nipote e dalla
figlia), senza mai perdere la bussola del proprio cuore, forte di
un’umanità e di una generosità che gli consentono di essere sempre
presente a se stesso, anche quando tutto sta andando a rotoli.
Non è un caso, infatti, che in alcune pagine di Uomini di Poca Fede, la prosa possieda la grazia e la delicatezza del Kent Haruf di Le Nostre Anime di Notte:
la sensibilità con cui vengono raccontati i sentimenti per la moglie
Peg, l’amico Hoot e il nipotino Isaac, credetemi, sono momenti di alta
letteratura. Un finale niente affatto accomodante è il valore aggiunto a
un romanzo che vi conquisterà dalla prima all’ultima pagina.
Il produttore, compositore, chitarrista e cantautore premiato ai Grammy Blake Mills annuncia il suo nuovo album Mutable Set, in uscita l’8 maggio su New Deal Records.
Mills presenta anche “Vanishing Twin”, il primo singolo estratto da Mutable Set
che viene accompagnato dal video, una rappresentazione dell’isolamento
incredibilmente attuale, diretto da Justin Daashuur Hopkins, già
collaboratore di Mills e co-fondatore del collettivo artistico Noh/Wave.
Mutable Set
è il quarto album in studio di Mills, composto come colonna sonora
della dissonanza emotiva che caratterizza la vita moderna. L’album
rispecchia il tira e molla delle forze opposte: la dissonanza tra
l’armonia e l’inquietudine, i crescendo orchestrali e i momenti di quasi
assoluto silenzio, le progressioni di accordi melodiche ma irrisolte.
Gli elementi fondamentali di questo nuovo lavoro sono il fingerpicking
di Mills, il delicato piano e il tono malinconico.
In Mutable Set, registrato presso gli iconici Sound City Studios di Los Angeles, a Mills si uniscono: Aaron Embry alle tastiere (Elliot Smith, Edward Sharpe and the Magnetic Zeros), Sam Gendel al sassofono (Vampire Weekend, Moses Sumney), Rob Moose agli archi (Alabama Shakes, Bon Iver), Abe Rounds alle batterie (Meshell Ndegocello, Andrew Bird) e Pino Palladino al basso (The Who, D’Angelo).
Il
country, pur mantenendo una mappa cromosomica immutabile nel tempo, nel
corso della storia è stato declinato con accenti diversi: la
contrapposizione fra l’Outlaws e Nashville, le commistioni con il rock
di settantiana memoria, la cosmic american music di Gram Parsons, la
rinascita alt degli anni ’90, le avanguardie progressive e il queer
country, che oggi vive un’importante stagione revivalista (Orville
Peck).
Nella
lunga fila di nomi che mantengono in vita questo genere antico,
irrorandolo di nuova linfa vitale, si inserisce anche William Fussell,
artista poliedrico con un passato shoegaze e avant pop, che nei giorni
scorsi ha debuttato, sotto il moniker Honey Harper, per la Ato Records.
Figlio
di un’estetica glitterata che revisiona con un tocco di femminilità, ma
senza eccessi, lo stereotipo maschile del cowboy, Fussell pesca a piene
mani dalla storia del country (Gram Parsons, Wilco, etc.), filtrandola
però attraverso una sensibilità pop e rileggendola insieme agli appunti
presi durante la prima parte della carriera.
Le
undici canzoni di Starmaker sono, quindi, figlie di un’alchimia sonora
che trasfigura la tradizione americana (richiamata costantemente
dall’uso della lap steel) attraverso melodie spolverate di zucchero al
velo, la cui dolcezza è però attenuata dall’alternarsi di suggestioni
melanconiche e nostalgiche.
Nel
country fluttuante a mezz’aria di Honey Harper si percepisce l’afflato
cosmico di Parsons, echi di psichedelia gentile, la grazia pop e
meditabonda della scrittura di Tweedy, gli sfarfallii ipnagogici e il
respiro rallentato del risveglio in un’alba punteggiata di cinguettii e
barbagli di sole, il soliloquio intimista durante una giornata di
pioggia.
Composto
insieme alla moglie Alana Pagnuti e registrato nel corso di tre anni
tra Francia, Inghilterra (dove il songwriter americano risiede) e
Ungheria, Starmaker si apre con il luccichio psichedelico di Green Shadows, ballata folk morbida e trasognata, che schiude con delicatezza le porte sul mondo sonoro di Fussell.
Quel
che segue è un viaggio acustico tra soundscapes dai pastelli tenui,
contornati da arrangiamenti minimal (e talvolta inaspettati) e sfumati
attraverso la voce versatile di Honey Harper, capace al contempo di
leggiadria e sprofondi baritonali da crooner.
La sinuosa delicatezza di In Light Of Us,
attraversata da echi pop alla Wilco, è il secondo capitolo di una
scaletta che non ha cedimenti e che inanella gemme assolute nello spleen
cinematico di The Day It Rained Forever, nell’estasi contemplativa di Something Relative
(gli archi avvolgenti, la carezzevole lap steel, la perfezione
adamantina del ritornello), nelle volute orchestrali della
melodrammatica Suzuki Dreams, e nel folk depresso di Vaguely Satisfied, che evapora in un inusuale e inaspettato pattern di flauto.
Delicato
e fragile, a tratti struggente, Starmaker intreccia all’ordito country
tenui filamenti pop, togliendo (nuovamente) la polvere a un genere che
non perde la propria ortodossia di fondo, ma si rigenera attraverso una
visione moderna e futuribile.
Non è per essere bastian contrario, ma questo rituale dei flash mob
sui balconi di casa mi pare un po’ fuori luogo. Forse la mia analisi
potrà apparire in controtendenza rispetto al sentire comune che, al
contrario, considera certe esternazioni popolari come un desiderio
irrefrenabile di leggerezza in momenti drammatici come questi. È una
questione di prospettiva.
Consolatoria o liberatoria che sia la reazione
personale alla quarantena, dal mio punto di vista vedere certa gente
tamburellare con i coperchi delle pentole intonando l’inno di Mameli mi
sembra fuori contesto. Così come esporre il tricolore sul balcone. Non
siamo ai tempi delle notti magiche dell’82 quando Pablito e compagni ci
regalavano suggestioni indimenticabili. Questa è l’ora più buia dal
dopoguerra.
Il che non significa che dobbiamo intonare i mortualia ma la
contingenza ci suggerisce un contegno e una condotta più appropriati.
Perciò basta con la retorica di certi comportamenti spesso immaturi di
gente che ora suona la grancassa o la tromba sul terrazzo, quando fino a
qualche settimana fa magari andava a sciare o si accalcava in strada
per l’apericena, salvo poi prendere d’assalto le stazioni ferroviarie
per fuggire altrove. E non dimentichiamoci di quelli che il Coronavirus
riguardava gli anziani, come se fossero esseri umani da sacrificare.
Qualche pensatore illuminato sostiene che il mondo cambierà. Un nuovo
Umanesimo pervaderà l’universo. “L’ottimismo è il profumo della vita”,
diceva Tonino Guerra. Ce lo auguriamo tutti ma temo che quando questo
blackout finirà, gli uomini torneranno cinici esattamente come prima. Se
non peggio di prima.
Fin dai tempi del primo, bellissimo, Birds Fly South
(2012), ho sempre apprezzato la capacità dei coniugi Masterson di
scrivere canzoni sospese in bilico su una melodica leggerezza,
accattivanti e di facile ascolto, senza che però venisse meno una
coerenza di fondo, la volontà di essere fedeli a un credo artistico e di
non piegarsi alle mode del momento, in nome di un maggior appeal
commerciale.
Mainstream, certo, ma con intelligenza e qualità. E non è un caso che anche questo nuovo No Time For Love Songs,
pur con il consueto approccio molto melodico, sia un disco, non solo
suonato con perizia tecnica e passione, ma che, a livello di liriche,
denota la volontà di scartare dall’ovvio e di gettare uno sguardo
attento sulla società americana e sui tempi grami che stiamo vivendo (e
chissà come avrebbero suonato queste canzoni se fossero state scritte in
questi drammatici giorni di pandemia).
“Voglio cantare una canzone / Che ti farà fermare e pensare / Invece di chiudere un occhio su tutto ciò che è sbagliato”,
canta Chris Masterson sulla traccia di apertura che dà il titolo al
disco. Non è più tempo di parlare d’amore, ma occorre fare attenzione al
mondo che ci circonda e raccontarne le storture. I Mastersons riescono
in questo intento senza tradire la propria idea di musica, che è sempre
stata, e rimane, un folk pop leggiadro, dolce e vagamente malinconico,
capace però, in questo caso, di sondare e raccontare le preoccupazioni
sociali, la socialità e la politica dell’era trumpiana.
Temi ripresi in molte delle dieci canzoni originali che compongo la scaletta, come ad esempio in Spellbound, in cui si parla di “adorare il mostro”, con ovvio riferimento alla Casa Bianca, o nella splendida Eyes Open Wide, esatto punto di fusione fra Byrds e Fleetwood Mac, in cui l’invito alla militanza è diretto e senza fraintendimenti (“La testa non è nella sabbia, prendi posizione, decidi tu”), o ancora in There Is Song To Sing, in cui “la canzone da cantare” altro non è che un richiamo a schierarsi (dalla parte dei democratici, soggiungo).
Da un punto di vista musicale, come si diceva, le canzoni di No Time For Love Songs
(registrato nei leggendari Sunset Sound Recorders, che, tra l’altro,
furono la casa dei Beach Boys e dei Doors) non si discostano da quanto
già avevamo potuto apprezzare nei lavori precedenti: folk intriso di
pop, perfette armonie vocali, mood agrodolce, e un diffuso, ma mai
opprimente, senso di nostalgia. Merito anche di Shooter Jennings, qui in
veste di produttore, che ha saputo cogliere perfettamente l’anima del
songwriting dei Mastersons e che ha reso tutto più agile, lavorando su
arrangiamenti che talvolta fanno suonare queste canzoni molto vicino ad
alcune cose già ascoltate dai Fleetwood Mac.
No Time For Love Songs
è, quindi, un disco capace di dire cose serie, pur trasmettendo
soprattutto il piacere puro dell’ascolto: canzoni leggere e al contempo
intelligenti, che non cambieranno, certo, il corso della storia, ma che,
altrettanto certamente, hanno il merito, non da poco, di farci stare
bene.
Appena entrati nel roster di Bella Union, i Drab City sono pronti a pubblicare l’album d’esordio Good Songs For Bad People,
schedulato per il 12 giugno. Nel frattempo, la band ha condiviso il
primo singolo “Devil Doll”, una melodia a combustione lenta di dolce
malinconia. La bella e ariosa melodia vocale è accompagnata da accordi
di vibrafono e da una solida linea di basso, ornata con archi e flauti.
Benché sia una canzone orecchiabile e accattivante, tutto sembra
leggermente fuori dal comune e ciò conferisce alla traccia una qualità
leggermente inquietante. La voce gentile e melodica non sta in realtà
offrendoci una romantica storia d’amore, ma un racconto di delusione,
tradimento e disperazione provinciale.
Un’aria
inebriante di scompiglio avvolge l’album, dove canzoni di innocenza e
di esperienza si fondono con una colonna sonora dub, hip-hop, dream-pop e
jazzy con effetti elettrizzanti. I Drab City sono fissati
sull’alienazione sociale, la vendetta violenta e (forse) l’amore
romantico come salvezza; argomenti non nuovi nella musica ma ascoltando i
Drab City nel 2020 ci si sorprende a pensare a quando siano diventati
rari in questi tempi. Liricamente, queste canzoni proiettano spesso
rabbia e risentimento punk.
È
una raffica di riferimenti al ventesimo secolo, che si combinano e si
ricombinano a ritmo schizofrenico: l’effetto complessivo è qualcosa che
potrebbe essere evocato solo nel nostro frenetico presente. Familiari e
accattivanti al tempo stesso, i paesaggi sonori melodici e accoglienti
sono un cavallo di Troia della visione antisociale della band.
Per questo nuovo Country Fuzz si potrebbe parafrasare quel celebre aforisma di Oscar Wilde affermando che “i Cadillac Three non hanno niente da dire, ma lo dicono così bene…”.
Già, perché giunti al quarto album in studio, il terzetto originario di
Nashville continua imperterrito a rimasticare la stessa identica idea
di sempre: un rock intriso di afrori sudisti, energico, ruspante, cafone
e prevedibile. E non basta sviare l’attenzione dell’ascoltatore con un
titolo che ammicca al country (di cui, per carità, si coglie l’eco), dal
momento che fin dal primo ascolto si viene colpiti dal consueto
quantitativo di elettricità e dallo srotolarsi (per ben sedici canzoni,
questa volta) dell’abituale repertorio con cui avevamo fatto conoscenza
nei dischi precedenti.
Tuttavia, al netto di un tasso di originalità tendente allo zero, bisogna ammettere che in Country Fuzz
tutto funziona a dovere, che il disco si fa ascoltare con piacere più e
più volte, proprio perchè il piatto della casa è cucinato meglio e
risulta più gustoso del solito.
Niente
che faccia perdere la testa, ovviamente, ma quello stereotipo americano
fatto di pick up in corsa su strade impolverate, barbe e capigliature
incolte, cappellini da baseball, pub frequentati da blue collar, birra
ghiacciata e bourbon tracannati alla goccia suona più credibile del
solito.
Non
è un caso che spesso il filo conduttore delle liriche di Jaren Johnston
sia proprio l’alcol, come si può evincere facilmente da titoli quali Jack Daniel’s Heart, Whiskey And Smoke o nel brano iniziale, Bar Round Here, in cui il frontman apre le danze con una vera e propria dichiarazione di intenti (alcolici): “Well I Sure am Thirsty”.
A
fronte di questo trito approccio tematico, che sembra essere l’unico
meritevole di essere trattato, le canzoni però girano sul piatto che è
un piacere, a partire dal riff straccione della nerboruta Hard Out Here For a Country Boy, tagliata a metà da un bel solo di armonica, per proseguire poi con la slide infuocata di Slow Rollin’, in cui la band ruba ai Black Keys il giro di Lonely Boy, gli ammiccamenti mainstream dell’ottima Labels, il beat selvaggio e il ritornello acchiappone di Crackin’Cold Ones With The Boys o il virile romanticismo della conclusiva Long After Last Call, ballata che gira dalle parti di Eric Church.
In definitiva, come già spiegato, Country Fuzz,
altro non è che l’ennesimo disco che ci saremmo aspettato dai Cadillac
Three, ma realizzato molto meglio di tutti i suoi predecessori. Se,
quindi, siete attratti dall’immaginario americano fatto di untuosi
barbecue e bevute colossali, difficile trovare un sottofondo migliore.
Pasquetta si avvicina, e se tutto andrà bene, l’abbinamento panino alla
salamella-Cadillac Three saprà donarvi grandi soddisfazioni.
Dopo la firma con Play It Again Sam (e Partisan Records negli Stati Uniti e in Canada) e il primo brano del 2020 "Blue Comanche", Westerman annuncia il suo attesissimo album d’esordio. Your Hero Is Not Dead, seguito dell’acclamato EP Ark, sarà pubblicato il 5 giugno 2020. Registrato con la collaborazione dell’amico e produttore Nathan Jenkins (aka Bullion) inizialmente nel sud del Portogallo e successivamente a Londra, Your Hero Is Not Dead,
è un album che parla di comprensione ed empatia, sacrifici e libertà, e
di tutte le contraddizioni e le sfide che affrontiamo ogni giorno. I
brani di questo progetto trattano delle zone grigie della morale,
dell’etica e della politica, per cui Westerman prova a risolvere i problemi del mondo esterno compiendo un viaggio interiore.
Il nuovo singolo “Think I’ll Stay”
che oggi accompagna l’annuncio dell’album, inizia con una riflessione
sul dolore cronico, è un unguento sonoro di tre minuti che dà conforto e
allo stesso tempo energia. Westerman rivela: “Ho
scritto questo brano in un periodo in cui viaggiavo molto. Quando ho
iniziato pensavo a una condizione di dolore cronico. È un dolore molto
specifico, ma penso ci sia del dolore inevitabile che tutti proviamo
semplicemente essendo vivi. Parlando con un amico mi raccontava che
lavorerà fino agli 80 anni, quindi che differenza c’è? Nel brano, provo a
dire che ne vale la pena. È un’insolita affermazione dell’esistenza”.
Westerman si esibirà il 4 giugno alla Hoxton Hall di Londra per uno show già sold out e sarà poi al Rough Trade East, sempre a Londra, per un instore l’11 giugno e annuncia oggi altre date in Europa e negli Stati Uniti. I biglietti sono già disponibili su westerman.world,
il nuovo sito interattivo in cui puoi trovare anche una playlist di
brani che hanno ispirato il nuovo album, illustrazioni animate e
anticipazioni di nuovi brani prima che questi vengano pubblicati.
Originari
di Saratoga Springs (New York), i Phantogram (al secolo Josh Carter e
Sarah Barthel) hanno rappresentato nell’ultimo decennio una delle realtà
più interessanti del panorama indie statunitense.
Dopo qualche anno di silenzio, succeduti al chiacchierato Three
(2016), album che aveva scalato le classifiche di Billboard Alternative
fino ad aggiudicarsi la terza piazza, all’inizio di marzo il duo è
tornato sulle scene con la pubblicazione di questo nuovo Ceremony.
Un disco pensato a lungo e sofferto, nato in un momento difficile per
la band (la sorella di Sarah Barthel si è tolta la vita un paio di anni
fa) e figlio di molti dubbi, soprattutto sulla tenuta qualitativa delle
composizioni dopo l’inaspettato successo del capitolo precedente.
Superati
il lutto e le perplessità sul futuro della band, Josh Carter e Sarah
Barthel sono tornati a scrivere musica, si sono chiusi in uno studio a
Laurel Canyon, e hanno inciso Ceremony, un lavoro segnato da liriche
ambigue, ma con ovvi riferimenti esistenziali, che ne fanno il racconto
di un percorso di rigenerazione, dal dolore e dallo smarrimento a una
ritrovata normalità.
Ceremony
è un disco in cui l’elettronica ha come sempre un ruolo preponderante,
talvolta anche ingombrante (l’incedere martellante dell’inquietante In a Spiral,
pervasa da sussulti industrial), ma che riesce comunque a trovare una
buona sintonia con gli strumenti tradizionali, creando un magma sonoro
ondivago, eppure incredibilmente coeso, grazie ai pattern di batteria o
ai riff di synth che avviluppano in un abbraccio ossessivo quasi ogni
singolo brano.
Dear God
apre il disco con un campionamento soul, plasmandolo in una melodia
solare, che è probabilmente la cosa più vicina a una canzone allegra mai
scritta dalla band. Segue un filotto di brani brevi (tre minuti o poco
più), urgenti, lineari, che trovano ganci melodici immediati, ma perdono
punti sotto il profilo delle suggestioni sonore a cui il duo ci aveva
abituati in passato (una canzone come Love Me Now, ad esempio, viene imbrigliata da un’unica idea replicata allo sfinimento).
Il disco cresce, però, nella seconda parte, che regala i momenti migliori, sia in termini di pathos che di songwriting. Let Me Down è attraversata da tensione palpabile, Glowing
è un’elegia oscura, in cui l’ottima prova vocale della Barthel, ricorda
di primo acchito Billie Eilish (fan dischiarata della band), mentre Gaunt Kids,
conturba per il suo beat lunare e il doppio cantato straniante, per poi
sciogliersi in una ballata per pianoforte, che suona al contempo
sinistra e romantica.
Il vertice della scaletta è però la title track (l’unica che dura più di cinque minuti) posta al fine di Ceremony:
il cantato ipnagogico della Barthel e la ritmica cadenzata mutuata dal
trip hop crescono deragliando, in uno sfarfallio di tastiere, verso una
vorticosa coda elettrica. A dimostrazione che quando i Phantogram
scelgono di misurarsi con strade più impervie e recessi più bui,
riescono a stare al passo con il loro indubbio talento. In Ceremony,
purtroppo, non tutto fila come ci saremmo aspettati: non un brutto
disco, ma, tolti alcuni episodi, certamente affetto da un processo di
“normalizzazione”.
Dopo quasi trent'anni da World Outside, uscito nel 1991, gli Psychedelic Furs annunciano un nuovo album. Il disco si intitolerà Made Of Rain e uscirà il 1 maggio via Cooking Vynil. Qui potete ascoltare Don't Believe, primo singolo estratto.
In
attività da circa quarantacinque anni, gli Outlaws si sono ritagliati
nel tempo una posizione di prestigio fra le southern rock band, appena
un gradino più in basso di autentiche leggende quali Lynyrd Skynyrd e
Allman Brothers. Merito, soprattutto, della produzione targata anni ‘70,
visto che poi, a causa di cambi di line up, defezioni, e una scrittura
non proprio originale, hanno traccheggiato dando vita a dischi non
proprio esaltanti.
Ai
tempi d’oro, però, la band si distingueva per uno stile unico che
abbinava intrecci vocali dal retrogusto west coast, un songwriting che
pescava anche dalle radici country e, soprattutto, il tiro incrociato e
ad alzo zero di tre dardeggianti chitarre. Nonostante, come si diceva,
la band sia stata per anni un porto di mare, oggi, a distanza di così
tanto tempo, grazie alla presenza di due membri di lunga militanza,
Henry Paul e Monte Yoho, gli Outlaws, rispetto ad altri gruppi coevi,
hanno mantenuto una certa identità di fondo.
E non è un caso che questo nuovo Dixie Highway
sia un signor disco e non solo l’inutile propaggine di un marchio di
fabbrica celebre ma logoro. Anzi, a ben vedere, questo è a parere di chi
scrive, il miglior lavoro della band da decenni a questa parte, tanto
che, se dovesse trattarsi, come probabile, del loro canto del cigno,
sarebbe un’uscita di scena che solo i grandi possono permettersi.
Il
suono è quello di sempre e ovviamente non ci sono novità di rilievo in
un genere così radicato nella cultura americana. D’altra parte, la
musica statunitense è da sempre molto rispettosa della propria storia,
fedele alle proprie radici, e poco incline a scartare dalle proprie
origini alla ricerca di qualcosa di nuovo. Si replica a soggetto, a
volte bene, a volte male. Dixie Highway è quindi un classico
disco di southern rock come si poteva rilasciare quarant’anni fa, né più
né meno. In questo caso, però, la riproposizione del genere è
efficacissima, le canzoni hanno quasi tutte un tiro pazzesco e la band è
al top della forma e sembra posseduta dall’energia di un gruppo di
neofiti alla ricerca del primo successo.
Il disco si apre con Southern Rock Will Never Die,
dichiarazione d’amore e di intenti, e omaggio alle glorie del passato,
che oggi non ci sono più ma che continuano a vivere nel cuore di tanti
appassionati. E in questa canzone si riassume il senso di un disco, che
cita la bibbia Almann (nella superba Heavenly Blues, riproposizione di un loro classico anni ’70, nello strumentale Shotdown o nella nostalgica chiosa di Macon Memories, un titolo un programma), strizza l’occhiolino ai Lynyrd Skynyrd nell’epica Lonesome Boy From Dixie, o rinverdisce antichi fasti famigliari come nella splendida Dark Horse Run, che eseguita dal vivo potrebbe trasformarsi in una sorta di Green grass And High Tides 2.0.
Tutto funziona ottimamente in Dixie Highway,
e quando partono i fluenti intrecci di chitarra e gli assoli
chilometrici, la sensazione è che gli Outlaws si siano giocati la carta
dell’instant classic con qualche decennio di ritardo. Come a voler
affermare che queste undici tracce non siano solo un tributo al passato
ma rappresentino in qualche modo anche il futuro del southern rock.
Concludo
con una personalissima riflessione: se due dei dischi più belli di
questo primo scorcio del 2020 appartengono ad autentiche istituzioni
(uno è questo, l’altro è il disco di Ozzy Osbourne), che rinnovano la
loro proposta con inaspettata freschezza, forse bisognerebbe prendere
atto che il rock è morto solo per chi non ha (più) voglia di ascoltarlo.
Per tutti gli altri, la leggenda continua.
A
volte, per una grande canzone, bastano una bella voce, una chitarra e
poco altro. Lo sa bene Billy Bragg (Essex, 1957), uno che ha fatto
dell’essenzialità un credo artistico, riuscendo, però, nel tempo, a
scrivere un repertorio di protest songs scarne e con mezzi rudimentali,
eppure pervase da appassionata militanza.
Schierato a fianco delle ali estreme della sinistra britannica, fondatore insieme a Paul Weller del collettivo Red Wedge,
creato per supportare le battaglie del partito laburista durante gli
anni bui thatcheriani, Bragg ha saputo dare nuovo vigore alla musica
folk attraverso un approccio punk e innervare di rock i muscoli della
canzone di protesta.
Armato
di una nervosa chitarra elettrica e del tipico accento dei sobborghi,
il songwriter inglese indossa le vesti di un Woody Guthrie urbano, sta
sulle barricate, anche fisicamente, non lesina parole di fuoco al primo
ministro e abbraccia la working class, alternando vigorose strette da
combattente ad affettuosi sguardi pervasi di popolare romanticismo.
Talking With The Taxman About Poetry
del 1986 (il titolo è una citazione da Majakovskij) è da sempre
considerato il suo capolavoro, un disco brillante, vivido ed emozionante,
che rappresenta al meglio il Bragg pensiero. Musica da one man band,
verace e spontanea, ma per la prima volta più curata sotto il profilo
degli arrangiamenti, che si fanno solo un filo più sostanziosi grazie
alla comparsa di qualche inusuale strumento (violino, organo, etc).
In scaletta, ci sono le consuete canzoni di militanza politica (God Save The Youth Of America) e di critica sociale (Ideology), veri e propri inni di schieramento (There Is Power In a Union), ma anche graffiti colorati di ingenuo romanticismo (Greetings To The New Brunette).
Su tutte le dodici composizioni del disco, però, svetta la tensione drammatica di Levi Stubbs’ Tears,
capace di toccare il cuore con un impianto melodico francescano e con
un testo struggente. La canzone, che anticipò l’uscita del disco come
singolo, fa riferimento a Levi Stubbs (1936-2008), voce inconfondibile
del gruppo vocale dei Four Tops (quelli di I Can't Help Myself e Loving You Is Sweeter Than Ever) e omaggia il trio di produttori e autori di molti dei successi Motown, Holland-Dozier-Holland.
Dietro
le citazioni e il tributo, il brano nasconde, tuttavia, una storia
triste, di violenza domestica e di prevaricazione. E’ l’incipit della
canzone a folgorare l’ascoltatore e a introdurci al dramma della
protagonista delle liriche: “With the money from her accident she bought herself a mobile home”.
Una
donna, vittima degli abusi del marito violento, con i soldi ricevuti in
risarcimento per le angherie subite, compra un camper e fugge via. Alla
deriva della propria vita, ma finalmente libera dal giogo di matrimonio
infelice, la donna trova conforto nell’unica cosa che l’ha sempre
sorretta anche nei momenti difficili.
E’ la grande black music, il r’n’b e il soul degli eroi di sempre (“Norman Whitfield and Barrett Strong Are here to make everything right that’s wrong. Holland and Holland and Lamont Dozier too”), unico sollievo di un’esistenza che va a rotoli e non lascia scampo alla speranza (“When the world falls apart some things stay in place. She takes off the Four Tops tape”).
Il
riscatto attraverso la fuga e la consolazione della musica: in un mondo
di miserie umane e di afasie etiche, è tutto ciò che rimane. Ma, forse,
possiamo farcelo bastare.
I fratelli D’Addario tornano questa primavera con il loro terzo album Songs For The General Public in
uscita l’01 maggio su 4AD, distribuzione Self. Il nuovo album è stato
scritto, registrato e prodotto dai giovani fratelli Brian e Michael
D’Addario nel loro home studio di Long Island, ai Sonora Studios di Los
Angeles e presso l’Electric Lady di New York City. “The One” è il primo singolo estratto dall’album ed accompagnato da un video diretto da Michael Hili e interpretato da Brian e Michael.
Nel 2016 il talentuoso duo è apparso sulle scene con il nome di The Lemon Twigs debuttando con l’album Do Hollywood,
le cui melodie sensazionali hanno permesso loro di guadagnare fan del
calibro di Elton John, Questlove e Jack Antonoff. Nel
2018 l’ambiziosa rock opera di 15 brani Go To School, li ha
aiutati a consolidare la propria reputazione di duo abile nel costruire
imponenti muri di suono attorno a concept audaci.
Songs For The General Public sarà
disponibile dall’ 01 maggio in digitale, su CD, vinile trasparente
rosso in edizione limitata (disponibile solo nei negozi indipendenti e
sul sito della 4AD) e vinile nero standard. I primi 200 pre-ordini
effettuati sul sito della 4AD riceveranno una stampa in edizione
limitata firmata dai fratelli.
Eccoci
di fronte all’ennesimo supergruppo, definizione, questa, che fa
storcere il naso a molti, visto che solitamente i side project nascono
senza un intento unitario e non sempre sono motivati da quella
ispirazione artistica che può portare a grandi risultati. Nello
specifico, però, siamo di fronte a un disco che, per quanto legato a un
suono noto e prevedibile, è comunque in grado di trasmettere vibranti
emozioni.
I
Black Swan sono Reb Beach, chitarrista dei Whitesnake, Jeff Pilson, dal
2004 bassista dei Foreigner, ma con una militanza di lunga data nei
Dokken e nella band di Ronnie James Dio, Matt Starr, batterista dei Mr.
Big e Robin McAuley, cantante per tanto tempo alla corte di Michael
Schenker. Una line up, quindi, di tutto rispetto, composta da gente di
grande esperienza e che tecnicamente non si discute.
Il
disco, infatti, e questo è il primo punto a favore dei Black Swan, è
suonato benissimo, con la perizia di un gruppo di veterani, i quali,
come surplus, aggiungono alla bravura tecnica una potenza di tiro
pazzesca e un entusiasmo da giovincelli. Un lavoro, quindi, impeccabile
da un punto di vista formale, a cui, però, non manca la sostanza, grazie
a una scaletta di canzoni ispirate e, soprattutto, divertentissime.
Niente di nuovo e di sconvolgente, visto che per Shake The World stiamo parlando di un suono “stagionato”,
che trova i suoi riferimenti stilistici nelle band di provenienza dei
musicisti che compongono il progetto: Whitesnake, Foreigner e Mr Big su
tutti. Tuttavia, il piglio con cui il gruppo affronta un repertorio
abbastanza scontato è quello delle grandi occasioni: un hard rock
vecchia scuola, certo, ma grintoso, potente, trascinante, e capace anche
di notevoli picchi melodici.
Impossibile non innamorarsi fin dal primo ascolto di canzoni come la title track, piazzata come una bomba in apertura, Immortal Souls, con quel ritornello che stende, o la martellante Long Road To Nowhere.
I
Black Swan, però, fanno le cose per bene anche quando abbassano il
ritmo, forgiando un lentone da sballo in quota Foreigner (Make It
There), un po' zuccherino, forse, ma melodicamente perfetto. Chiude
un’ottima prova, la clamorosa Divided/United, una ballata appassionata che sboccia poi in un finale convulso e rabbioso.
Shake The World
non è certo il disco che vi cambierà la vita, ma se il tema è quello di
sparare i volumi dello stereo a manetta e divertirsi, l’occasione è più
che ghiotta. Provatelo.