Anche Matteo Renzi ha un'anima. Green, come si usa dire oggi. Il
fondatore del partito Italia Viva, sull'onda del fenomeno Greta
Thumberg, ha annunciato che per ogni tesserato sarà piantato un albero.
"Un albero vero", ha precisato compiaciuto. Non vorrei sembrare un
bastian contrario, ma in questo caso preferirei meno alberi. E non
perché sia indifferente al tema dell'ambiente. Tutt'altro. Trovo,
invece, che l'iniziativa ecologista del senatore di Rignano sia
l'ennesima operazione furbetta, finalizzata a sedurre gli elettori
delusi con quello spirito levantino che da sempre lo contraddistingue.
Romanzo Prodi se ne faccia una ragione.
Alberi a parte, a dispetto di
quanto sostiene il Mortadella, Italia Viva potrebbe pure avere la durata
di uno yogurt ma che ci piaccia o no, abbiamo a che fare con un "genie
du mal". L'importanza di chiamarsi Matteo, e non me ne voglia Oscar
Wilde. Tutto è lecito per il senatore di Rignano, scissione inclusa. E
poco importa aver curato la regia della fomazione del governo Conte,
votarne la fiducia salvo poi sbattere la porta in faccia al Pd e cercare
fortuna altrove. Ora, il neo segretario si atteggia a salvatore della
patria. Però, prima viene Lui, Renzi. Le priorità vanno rispettate e
dunque l'Italia può anche attendere. Con o senza alberi.
Amanti dell’hard rock vintage di tutto il mondo unitevi! L’esordio sulla lunga distanza dei Last Temptation, infatti, susciterà in voi la medesima eccitazione di un bimbo di fronte al bancone di una pasticceria.
Questo
disco, ve ne accorgerete subito, potrebbe essere stato inciso
tranquillamente nel secolo scorso, magari in un decennio compreso tra la
metà degli anni ’70 e la metà degli ’80, e gli unici tocchi di
modernità, quando ci sono, richiamano al massimo la decade successiva.
La
band fondata dal chitarrista Peter Scheithauer (Killing Machine,
Belladonna, Temple of Brutality) e dal cantante Butcho Vukovic (Watcha,
Showtime) impasta un roccioso hard rock, virato spesso verso sonorità di
classic metal, pescando a piene mani fra suoni e attitudini di grandi
del genere quali Rainbow, Black Sabbath, Deep Purple, Ronnie James Dio e
Ozzy Osbourne. La presenza in studio, poi, di sessionisti dal lungo e
nobile pedigree, come Bob Daisley (Ozzy Osbourne, Gary Moore, Rainbow)
al basso, Vinny Appice (Dio, Black Sabbath) alla batteria, e Don Airey
alle tastiere (Deep Purple, Rainbow) insuffla di energia un suono
altrimenti datato e alza di parecchio il tasso tecnico dell’esecuzione.
Tutto
già sentito e risentito, diranno prevedibilmente i detrattori, ed è
quasi impossibile dar loro torto. Ogni brano è una cavalcata elettrica
basata su un riff roccioso, su cui si dispiega il cantato e una sequenza
micidiale di assoli, la sezione ritmica (con il grande Vinny Appice
sugli scudi) è martellante, e la voce di Vukovic possiede un timbro che
evoca a ogni piè sospinto quello di Ozzy Osbourne.
Tuttavia,
a dispetto di un canovaccio prevedibile (ma non logoro), non sfuggirà
agli appassionati di genere, che questa band possiede un tiro superiore a
molte altre che si limitano al più classico dei copia incolla: il disco
fila come un treno in corsa per tutti gli undici brani in scaletta (e
nonostante la lunga durata del disco, ben cinquantatré minuti, non c’è
un momento di cedimento), i cinque stanno sugli strumenti con piglio da
ventenni, e le composizioni, pur non possedendo lampi di originalità,
sono tutte incredibilmente buone. Valore aggiunto per chi ama un
approccio duro e puro, poi, è che le melodie, pur presenti, si inchinano
di fronte alla potenza delle esecuzioni e che, in tutto il disco, non
c’è nemmeno l’ombra di un momento più raccolto o intimo, un lentone o
una ballata.
I
Last Temptation non smettono di randellare, a partire dai sei minuti
sparati di I Win I Loose, per continuare con il singolo spacca ossa Blow
A Fuse, in cui Ozzy Osbourne è più di una semplice fonte d’ispirazione,
gli echi Deep Purple di Coming For You, o la splendida Nobody Is Free,
il cui cupo riff invischiato di psichedelia e il cantato raddoppiato
chiamano in causa addirittura gli Alice In Chains.
Insomma,
un disco dall’ossatura decisamente vintage, ma dalla muscolatura
guizzante e ben tonificata. Chi ama il genere, non resterà deluso.
La
band hardcore svedese Raised Fist ha annunciato i dettagli del nuovo
album Anthems, primo full-length del quintetto in quattro anni (settimo
della discografia), disponibile dal 15 novembre su etichetta Epitaph.
Non
c’è da scherzare col frontman della band Alexander 'Alle' Hagman:
quando gli chiede cosa ne pensa del nuovo album, lui ha le idee molto
chiare. Prodotto da Roberto Laghi e Jakob Herrmann ai Top Floor Studios
di Gothenburg e agli Oral Majority Recordings, le canzoni del settimo
album del quintetto svedese sono suonate con urgenza e intenzione
brucianti. “Abbiamo lavorato molto più duramente su questo album. Per la
prima volta nella nostra carriera, batteria e voce hanno avuto lo
spazio e il tempo necessari per raggiungere lo stesso livello degli
altri strumenti, della musica e delle melodie,” dice Hangman. “Proprio
in questo momento, stiamo effettivamente producendo qualcosa che ha un
suono nuovo.”
I
Raised Fist volevano concentrare gli sforzi solo su dieci canzoni per
mantenere l’album breve e l’intenzione chiara. Hangman spiega: “Dopo la
cernita del materiale, abbiamo velocemente scoperto di avere buone basi
per dieci canzoni. Abbiamo preso la decisione sul momento: questo disco
sarebbe stato composto solo da quelle dieci canzoni. Se fosse apparso un
altro brano migliore durante il processo, avremmo scartato una canzone
già scelta. Non abbiamo mai fatto nulla di simile prima d’ora, ed è un
grande passo avanti qualitativo rispetto al passato.”
Agli
inizi degli anni Quaranta, il maggiore delle SS Hans Lichtblau viene
messo alla guida di un programma di ricerca che utilizza i prigionieri
dei campi di concentramento come cavie, ma anche come assistenti,
inquadrati nel Kommando Gardenia. Sullo sfondo degli esperimenti, la
“soluzione finale del problema ebraico”, l’avanzata nazista in Russia e
la colonizzazione dei territori dell’Est, poi, inaspettata, la disfatta e
la caduta di Berlino. Del Kommando fanno parte Shlomo Libowitz, nato in
uno shtetl polacco e convertitosi al sionismo nel Lager, e Anton
Epstein, ebreo assimilato della borghesia praghese, convinto che l’unica
risposta possibile alla barbarie sia il socialismo. Shlomo e Anton
sopravvivono alla guerra e al trattamento di Lichtblau, testimoni
scomodi di un mondo passato, eppure ancora capace di influire sul
presente. A distanza di quarant’anni, per conto di mandanti diversi e in
apparenza inconciliabili, i due reduci si mettono sulle tracce di
Lichtblau, il quale, in America Centrale, combatte i sandinisti per
conto della CIA, razzia villaggi e smercia droga. Quella di Anton e
Shlomo è una vendetta tardiva, in una corsa contro il tempo, perché la
vita potrebbe essere troppo breve per saldare tutti i conti. Una spy
story in bilico tra due continenti e due epoche, un romanzo corale su
una civiltà al tramonto.
Il Sentimento Del Ferro
è un libro che fonde mirabilmente due generi (il romanzo storico e la
spy story), utilizzando come espediente narrativo la suddivisione del
racconto in due diversi piani temporali, il primo, che si sviluppa
durante gli anni della seconda guerra mondiale e della persecuzione del
popolo ebreo, il secondo, invece, quarant’anni dopo, in un mondo che
ancora non ha chiuso i conti con il nazismo. Un scelta, questa, che
presenta non poche insidie, ma che Alonge gestisce con sicurezza e
indubbia bravura.
Dopo
una prima parte preparatoria, in cui vengono introdotti i protagonisti
del romanzo, la lettura si fa sempre più intrigante, grazie a un ritmo
in crescendo, a numerosi colpi di scena e a momenti d’azione carichi di
suspense.
Sarebbe, però, assai riduttivo relegare Il Sentimento Del Ferro,
sic et simpliciter, fra le letture di intrattenimento, perché nelle
quattrocentosessanta pagine del romanzo c’è davvero molto di più. La
ricostruzione storica, infatti, è minuziosa, attenta, e le digressioni
sono inserite nel racconto in modo tale da non appesantire la lettura,
ma anzi, da renderla ancora più appassionante. Alonge, in questo è un
maestro, riesce a raccontare il nazismo, i campi di sterminio, la
nascita dello stato di Israele, la Russia degli anni ’80, la lotta dei
sandinisti contro il dittatore Somoza e le squadracce dei Contras
spalleggiate dalla Cia, con rigore e senza alcuna forzatura, conducendo
il lettore avanti e indietro nel tempo senza mai perdere la barra del
timone.
E
c’è, poi, lo sguardo carico di pietas e di empatia verso le vittime di
tutte le guerre e verso una tragedia, come quella dell’Olocausto, troppo
spesso raccontata con retorica e senza misura. Ne Il Sentimento Del Ferro,
invece, c’è la narrazione asciutta di un abominio, ma anche il taglio
compassionevole e colmo di umanità di chi osserva ma non può fare a meno
di schierarsi e identificarsi.
Tutto
il romanzo, poi, è permeato da un interrogativo etico che rappresenta
anche il significato ultimo della narrazione: ha senso vendicarsi dopo
tanto tempo trascorso dal male subito? La vendetta porta alla
pacificazione interiore, rimette davvero tutte le cose al loro posto, o è
l’ennesimo fardello di dolore che graverà sulle spalle della vittima?
La risposta, ovviamente, si trova nella coscienza del lettore, che,
giunto alla fine del romanzo, si troverà fra le mani un libro
emozionante ma anche capace di instillare pensieri e riflessioni non
banali.
Talvolta,
le logiche del mercato discografico mi sfuggono completamente e faccio
fatica a comprendere come alcuni dischi, non semplici, certo, ma molto
belli, siano relegati alla nicchia della nicchia, snobbati dagli
ascoltatori, e questo ci può stare, ma nemmeno presi in considerazione
dalla stampa specializzata.
E’
il caso di questo terzo disco degli inglesi The Slow Show, su cui non è
stata scritta una riga, nonostante sia una delle pubblicazioni più
interessanti di questo 2019. La band, originaria di Manchester, non è
certo una di quelle che aggrediscono il mercato con singoli di facile
presa né sono oggetto di battage mediatici volti a ingenerare attesa e
interesse da parte del pubblico. Ciò nonostante, in quasi dieci anni di
carriera, gli Slow Show, grazie a canzoni votate al minimalismo e ricche
di suggestivi paesaggi sonori, sono riusciti a crearsi un discreto
seguito soprattutto in Francia, Germania e Olanda. Di loro, però, nel
nostro paese, non si è accorto quasi nessuno, ed è un vero peccato,
perché Lust And Learn è uno di quei dischi che lasciano il segno e ruba infiniti ascolti alle nostre orecchie e al nostro cuore.
La
musica degli Slow Show si muove entro i confini tracciati da band come
Elbow, Tindersticks e, soprattutto per una certa somiglianza fra il
timbro del cantante, Rob Goodwin, con quello di Matt Berninger, è
possibile un qualche accostamento anche ai The National. Eppure, a
prescindere da questi evidenti punti di contatto, il marchio di fabbrica
del gruppo inglese resta personalissimo.
Da
un lato, la varietà di suoni e gli arrangiamenti inusuali, creano
un’importante stratificazione, con i vuoti, i silenzi e le esitazioni
che si gonfiano all’interno della stessa canzone, fino a creare, in
certi casi, un effetto quasi orchestrale. In tal senso la scrittura di
Goodwin può apparire calligrafica, ma così non è: soprattutto
dall’ascolto in cuffia, è chiaro quanto ogni nota sia necessaria alla
resa finale di un brano, e l’uso di archi, cori chiesastici e caldi
tocchi di elettronica gentile stiano perfettamente in equilibrio,
cogliendo sempre la misura esatta.
Dall’altro
lato, poi, gli sfarfallii, le evanescenze, le angeliche voci femminili,
le volute ascensionali o le dilatazioni orizzontali dei soundscapes
trovano un eccitante contrappunto nella voce di Goodwin, crooner
dell’anima, dal baritonale timbro ultraterreno, in cui confliggono
estasi contemplativa, afflizione e affettazione dandy.
Lust And Learn
è un disco che, fin dal primo ascolto, tocca i sentimenti più profondi
dell’ascoltatore. E’ tutto un evocare, un suggerire languori, un toccare
le corde dello struggimento malinconico. Eppure, per quanto la
malinconia sia il collante delle dodici canzoni in scaletta, non si
coglie mai dolore o rimpianto, perché lo sguardo è sereno, pacificato,
in alcuni momenti attraversato anche da un’euforia ingenua, quasi
fanciullesca (St. Louis). C’è una contemplazione pacata, in
queste canzoni, un riaffiorare di ricordi lontani e un’evocazione di
immagini, che evitano però di impaludarsi nella vischiosa fanghiglia
dell’autocommiserazione, per suggerire, invece, una serena accettazione
della perdita: ciò che amavo non c’è più, ma sono felice che ci sia
stato e tanto basta.
In
tal senso è molto esplicita la copertina del disco: quella natura
incontaminata sullo sfondo è la stessa che accarezza di epica le
composizioni di Goodwin. Ma è anche lo sguardo rivolto verso il futuro
di un uomo solo che tiene per mano i fantasmi della propria vita o il
memento di una perdita che la musica ha evocato. Non c’è futuro né
speranza se non si rielaborano i traumi o i lutti, gli amori perduti o
gli affetti persi per strada, ma nessuno può davvero affrontare
l’esistenza che gli resta senza il bagaglio della propria vita passata. Lust And Learn, brama e impara, così è la vita.
Difficile
indicare le canzoni più belle di un disco che non perde un briciolo
della propria intensità dalla prima all’ultima nota. Ma so per certo che
brani come Eye To Eye, Breatheair, The Fall o Exit Wounds
sono pervasi da una tendenza all’assoluto emotivo così invasiva da
impedirmi di uscire da un loop di ascolto che dura ormai da due
settimane. Sentirsi un tutt’uno con la musica che si ascolta è
un’emozione impagabile.
Wave,
il nuovo album dell’artista canadese Patrick Watson, sarà disponibile
dal 18 ottobre via Domino in tutto il mondo e via Secret City per il
Canada. Wave è il follow-up di Love Songs For Robots del 2015.
Assieme
all’annuncio dell’album è stato pubblicato anche il video di “Dream For
Nothing”, diretto da Joël Vaudreuil. Parlando della canzone, Watson
dice: “Quando torni a casa e la tua casa non assomiglia a quella che hai
lasciato e la strana sensazione di essere così lontano da quello che
avevi in mente che la tua pelle non si adatta più. E sei in uno stato di
incredulità con uno strano sorriso stampato in faccia e ti chiedi: cosa
farò adesso?”.
Il
sesto album di Watson parla di un’onda che ti rovescia quando ti rendi
conto che tutto ciò che hai nella vita può essere cancellato in un
momento – e di imparare a non annegare nel processo. Durante la
realizzazione del disco, Patrick ha perso la madre, si è separato e il
suo batterista, con lui da sempre, ha abbandonato il gruppo. Watson si è
portato un quaderno sotto le onde e ha composto canzoni sulla
malinconia. Parlano di come a volta tu sia costretto a cantare una
canzone d’amore a te stesso quando nessun altro lo fa, facendoti guidare
dal suono e imparando a fidarti del fatto che da qualche parte dovrai
atterrare. È molto intimo e personale ed è il più umile di tutti i suoi
dischi.
Riflettendo
sugli eventi della sua vita personale e avendo iniziato la sua carriera
di cantante nel coro della chiesa, Watson nota: “Si tratta della
differenza tra cantare un assolo sulla tomba di uno sconosciuto e
cantarne uno al funerale di tua madre.”
L’album
contiene anche “Broken” e “Melody Noir”, i singoli pubblicati
rispettivamente nel 2017 e nel 2018, durante la lavorazione dell’album.
Ogni estate che se ne va lascia un ricordo. Diceva Gustave Flaubert:
"Un'estate e' sempre eccezionale, sia essa calda o fredda, secca o
umida". Per il nostro Paese è stata politicamente eccezionale. E così
capita che in un pomeriggio di agosto mentre la canicola impazza e hai
solo voglia di addentare una fetta di cocomero sotto l'ombrellone, che
ti ritrovi seduto a guardare Salvini in Parlamento a cannoneggiare
contro un "governo dei no", farneticando su congiure a suo danno da
parte di Grillo, Renzi, Merkel e del Fantasma Formaggino.
Non ancora
pago di una estenuante campagna elettorale h 24 che ci ha condotti
stremati alle europee, che già l'iperattivo (sui social) ex Ministro
dell'Interno e Dintorni annuncia sfracelli e piazze piene contro i
poltronari di palazzo. Come se il profumo della cadrega non avesse
inebriato pure lui. Come se la crisi (surreale) di governo da lui
innescata non avesse a che fare con il potere. Pensavamo, a torto, di
esserci liberati di un soggetto abile solo a ingolfare il web di
esternazioni, perlopiu' dannose, e di facili slogan ripetuti a nastro
per imbambolare gli sprovveduti. Ci illudevamo di prendere almeno una
pausa da un personaggio aduso solo ad apparire, attività in cui mostra
una innata propensione, in costume da bagno circondato da cubiste,
mentre balla sulle note dell'inno di Mameli. Dal Papeete, la sede
distaccata del Viminale, Salvini impartiva ordini, dettava la linea
politica. Un caso più unico che raro.
Un Capitano- così ama definirsi-
degradatosi a mozzo nel giorno più pazzo della storia repubblicana. È
bastato un discorso articolato e garbato di un Premier a demolire
l'inconsistenza e la sgangheratezza di un ministro troppo ridondante,
per usare un eufemismo. Ridondante nell'ego quanto l'altro Matteo,
novello scissionista. Il senatore di Rignano si riprende la scena. Per
il bene dell'Italia. Tutti lo fanno per il bene del Paese. Persino
Giovanni Toti. Questa è la loro narrazione. Peccato che il gioco è bello
quando dura poco.
Blanco White, il progetto dell’artista di base a Londra Josh Edwards, annuncia l’attesissimo album d’esordio On The Other Side, in uscita il 3 aprile 2020 su Yucatan Records. Dopo la pubblicazione del singolo “On The Other Side” avvenuta questa estate, Josh presenta oggi il sognante video del nuovo brano “Papillon”, diretto dal regista Javier Lara.
Sul brano, Josh racconta: “‘Papillon’
è ispirato all’omonimo libro di Henri Charrière. È stato un libro molto
importante per uno dei miei amici e ha avuto un effetto simile anche su
di me. La maggior parte della narrazione si svolge nell’acqua, quindi
volevo che anche questa canzone avesse una sorta di velo luccicante
nonostante le increspature”.
Avendo
studiato prima chitarra a Cadiz in Spagna e poi il charango (uno
strumento andino) a Sucre in Bolivia, lo scopo di Josh è quello di
fondere elementi della musica andalusa e latino americana a delle
sonorità più vicine alla sua realtà attuale. Finora, Blanco White ha pubblicato tre EP, The Wind Rose, autoprodotto nel 2016, Colder Heavens, prodotto da Ian Grimble (Bear’s Den, Matt Corby, Daughter) nel 2016, e Nocturne
nel 2018. Durante questi anni, Josh è riuscito a portare la sua musica
in giro per il mondo e ad ottenere numeri strabilianti sulle piattaforme
di streaming. Il nuovo album è stato per la maggior parte registrato a
Londra ed è stato prodotto dallo stesso Josh e mixato da Jake Jackson
degli Air Studios con la collaborazione di Dani Spragg.
Se
Sheryl Crow ha deciso di non pubblicare più album in studio, perchè
ormai nessuno compra più dischi e tutti si fanno le loro playlist, i
texani Spoon vanno in direzione diametralmente opposta e rilasciano
addirittura un best of. Un’operazione che, se vogliamo, possiede logica
stringente: quella, cioè, di riappropriarsi della propria musica
proponendola al pubblico con un filo conduttore che dipenda
esclusivamente dalle scelte dell’artista e non dal capriccio del singolo
fruitore. Una sorta di controrivoluzione culturale, anacronistica e
conservatrice, certo, ma che punta a combattere il depauperamento
artistico della musica, garantendo a chi è veramente interessato una
cronologia di ascolto ragionata e anche un’ottima resa sonora.
Patrimonio
di pochi nel nostro paese, ma con un cospicuo seguito e grande
notorietà negli States (per dire: il candidato democratico alle
presidenziali, Pete Buttigieg, utilizza la loro The Way We Get By
in apertura dei suoi comizi), la band originaria di Austin, dopo
ventitre anni di carriera e sette full lenght all’attivo, ha sentito il
bisogno di mettere un punto fermo e fare un bilancio della musica
lasciata alle spalle.
Tredici canzoni in tutto (una, però, è un brano nuovo, No Bullets Spent),
che pescano da cinque album a partire dal 2001 (i primi due sono stati
accantonati) e che ripropongono quasi tutto il meglio che abbiamo potuto
ascoltare in due decenni (con qualche dolorosa assenza: mancano, a
parere di chi scrive, Don’t Make Me A Target e la bella cover di I Just Don’t Understand).
Una scaletta che suona meravigliosamente bene e che evidenzia come fil
rouge lo stile riconoscibilissimo del quartetto capitanato da Britt
Daniel, un indie rock di qualità, che aggira il prevedibile e che viene
declinato con accenti diversi.
Così a fianco della menzionata e celebre The Way We Get By, pimpante brit pop in quota ninenties (Supergrass), si trovano gli ammiccamenti amarognoli e nostalgici della superba Do You, il funky sinuoso di I Turn My Camera On, la chitarra croccante di I Summon You, il beat trascinante di You Got Yr Cherry Bomb, i graffi rock di Rent I Pay, il tiro post punk di Got Nuffin o il riff impetuoso di Hot Thoughts, ultima hit in ordine di tempo.
A
chi mai potrà interessare questo best of? Difficile dirlo.
Probabilmente ai completisti e a coloro che, leggendo questa e altre
recensioni su Everything Hits At Once avranno il desiderio di scoprire questa validissima band americana. Con la speranza, poi, che vadano a recuperare almeno Gimme Fiction (2005) e Ga Ga Ga Ga Ga (2007), due tra i migliori dischi di indie rock a stelle e strisce del decennio scorso.
Van Morrison annuncia i dettagli del suo nuovo album: si intitolerà Three Chords And The Truth, sarà pubblicato il 25 ottobre su Exile/Caroline International e sarà disponibile su CD, vinile e in tutti gli store digitali.
Three Chords And The Truth è davvero un lavoro meraviglioso, contiene quattordici composizioni inedite che rappresentano alla perfezione lo stile di Van Morrison e mostrano le incredibili doti di uno dei cantautori più acclamati al mondo. Il suo sesto album in quattro anni Three Chords And The Truth prova ancora una volta come Van Morrison sia uno dei più grandi artisti di sempre.
Three Chords And The Truth è stato scritto e prodotto da Van Morrison,
fa eccezione il brano “If We Wait For Mountains” che l’artista ha
scritto insieme a Don Black. Sull’album troviamo anche la collaborazione
del leggendario chitarrista Jay Berliner e un duetto con Bill Medley
dei The Righteous Brothers (“Fame Will Eat The Soul”). Sul processo di
registrazione dell’album, Van Morrison racconta: “Mi
ci sono immerso completamente… Quando gli altri suonavano, era come se
rivedessi me stesso nelle loro note. Quindi penso ci sia una forte
connessione.”
Van Morrison
annuncia anche un tour in supporto del nuovo album e una serie di
cinque date davvero speciali al Palladium di Londra a marzo. Qui tutte
le date, per biglietti e ulteriori informazioni visita www.vanmorrison.com/live
Crocevia
della morte fra la rabbia militante delle riot grrrl (le Bikini Kill e
le Babes In Toyland stanno solo a un tiro di schioppo) e le derive
rumorose della Gioventù Sonica, il terzetto originario di Olympia ci
hanno regalato almeno un paio di dischi (Call The Doctor e Dig Me Out) da conservare fra i capitoli più preziosi della nostra discografia nineties. Poi, a partire da Hot Rock
del 1999, un po’ si sono perse, accantonando la ferocia iniziale per
abbracciare una forma canzone più convenzionale e meno urticante.
L’ultimo capitolo della loro storia risale al 2005, ed è segnato da The Woods,
quello che per molti rappresentava il disco della rinascita (un nuovo
suono, caratterizzato anche da assoli di chitarra e arricchito da scorie
psichedeliche) e che invece segnò, tra lo stupore e il disappunto dei
numerosi fans, il loro scioglimento.
Orfani
di tanto amore, i fan hanno atteso quasi dieci anni, finché nel 2015 i
sogni si sono avverati: Corin Tucker, Carrie Brownstein e Janet Weiss
sono tornate sulle scene con No Cities To Love, un disco che
fin dalle prime note ci rimandava immediatamente al loro momento di
maggior creatività. Se qualcuno pensava che dieci anni di silenzio e la
raggiunta maturità (le tre ex ragazze sono ormai tutte ultraquarantenni)
avrebbero fiaccato lo spirito e la tensione che animava Dig Me Out,
è stato servito: le dieci canzoni, per una durata complessiva di poco
più di trenta minuti, sono infatti ciò che maggiormente si avvicina alla
forza iconoclasta di quel fantastico disco.
In No Cities To Love
c’era, in definitiva, tutto lo Sleater Kinney pensiero: lo stridere
disturbante delle due voci (la Tucker a ringhiare la melodia e la
Brownstein a giocare sul contrappunto disturbante), gli spigoli
acuminati di riff assassini, l’ardore scompigliato di assalti sonori
all’arma bianca, i testi abrasivi e senza fronzoli. Inevitabile, dunque,
che l’attesa per questo The Center Won’t Hold, durata quattro
anni, fosse a dir poco spasmodica, soprattutto per chi, come il
sottoscritto, non si è perso un capitolo della storia delle tre ragazze
americane. Fin dal primo ascolto, però, è evidente che ciò che eravamo
pronti ad ascoltare oggi non c’è più. The Center Won’t Hold, infatti, viaggia in direzione diametralmente opposta a No Cities To Love,
è un disco di pop in abiti indie, più contiguo all’elettronica che allo
sferzante sferragliare delle chitarre, esteticamente moderno, ricco di
melodie, alcune delle quali di sicura immediatezza.
Una
svolta decisiva nel suono dei Sleater-Kinney a cui ha contribuito,
direi in modo massiccio, la presenza di St. Vincent in cabina di regia.
Una delusione? In parte si, ma non, però, a cagione della nuova veste
sonora. Il disco è molto piacevole, le soluzioni degli arrangiamenti,
che dovranno certamente essere metabolizzati dai vecchi fan, sono
intriganti e vi è una sensuale eleganza formale altamente seduttiva.
Quello che manca, soprattutto nella parte centrale del disco, sono le
canzoni: non c’è nulla di veramente brutto o deludente, ma nulla che
provochi un sussulto o che emozioni veramente.
Certo, momenti di valore non mancano. La title track
che apre il disco con atmosfere bluesy illividite da ipnotiche ritmiche
industrial, che sfociano in un lampo di antica ed elettrica ferocia, è
un ottimo biglietto da visita. Anche Hurry On Home, con la ritmica arrembante e il bel tiro melodico, l’ossatura rock contornata dallo sfarfallio di synth di Reach Out o la ballata per pianoforte e voce di Broken che chiude il disco, sono canzoni all’altezza della fama delle Sleater.
Tutto
il resto, nonostante la ricchezza di suoni e la facilità dei ganci
melodici, sembra non possedere la stessa forza delle canzoni citate,
come se l’aver incanalato l’antica irruenza nell’alveo di una forma
esteticamente più rifinita e moderna avesse prodotto una normalizzazione
dell’ispirazione. Non da buttare, anzi, ma sicuramente un disco non
all’altezza del glorioso passato.
Everything Else Has Gone Wrong, il nuovo album dei Bombay Bicycle Club, sarà pubblicato il 17 gennaio su Caroline International/Island Records. Questo album segue l’acclamato So Long, See You Tomorrow pubblicato nel 2014, nominato ai Mercury Music Prize e #1 in classifica.
Il
nuovo disco è stato per la maggior parte registrato negli Stati Uniti
insieme al produttore John Congleton (St. Vincent, Sharon Van Etten, War
On Drugs), che ha vinto un Grammy Award, e include anche il nuovo
pulsante singolo “Eat, Sleep, Wake (Nothing But You)”.
Il video del singolo è stato girato in Ucraina e diretto da Louis Bhose, che per un
po’ di tempo ha seguito la band in tour come tastierista e si è poi
affermato come regista diventando un punto di riferimento per molti
altri artisti tra cui Michael Kiwanuka & Tom Misch, Lewis Capaldi,
The Big Moon e Loyle Carner.
Sul titolo del nuovo album, il cantante e chitarrista dice: “Questo
album è per chiunque abbia mai cercato e trovato conforto nella musica
nel momento del bisogno, che si trattasse di farla o semplicemente di
ascoltarla. Per me parla della frustrazione che deriva dal non sapermi
esprimere mai appieno con gli altri, da tutte quelle conversazioni
rimaste in sospeso o che hanno dato vita a fraintendimenti. Io comunico
attraverso la musica, mi affido a lei”.
I Bombay Bicycle Club sono cresciuti e si sono evoluti molto rispetto al 2009, anno di pubblicazione del loro album d’esordio I Had The Blues But I Shook Them Loose,
quando erano ancora dei teenager. Negli ultimi anni sono state davvero
poche le band inglesi capaci di evitare le etichette e formare una
fanbase così solida e variegata in tutto il mondo. Con un innato senso
della melodia e del ritmo, la band ritorna sulle scene proprio quando
anche le chitarre tornano ad essere un elemento fondamentale della
musica inglese.
In concomitanza con l’annuncio dell’album, i Bombay Bicycle Club
svelano una serie di date nel Regno Unito e in Irlanda che si
aggiungono a quelle negli Stati Uniti e a quelle per la celebrazione dei
10 anni di I Had The Blues But I Shook Them Loose che hanno registrato il tutto esaurito in pochi secondi.
“Ritrovarsi
a suonare insieme è stata una sorpresa inaspettata per tutti noi,
eppure dal primo istante in cui abbiamo iniziato a provare abbiamo
capito che era come se fossimo stati sul palco anche la sera prima.
Quando suoniamo, sia in studio che dal vivo, si crea una bella energia e
non vediamo l’ora di portare i nuovi brani in giro per il mondo”, dice Jack.
A eccezione del frizzante Employment,
datato 2005, non è che i Kaiser Chiefs si siano mai distinti per
particolari intuizioni creative. Il loro pop rock melodico e danzereccio
forse reggerà bene l’impatto con le classifiche, ma da un punto di
vista artistico continua a ripetere stancamente i medesimi chichè
(clamorosamente british) già consunti da tempo.
Indistinguibile
da molte band coeve (Maximo Park, Franz Ferdinand, Kooks, Arctic
Monkeys etc.), il quintetto di Leeds (orfano ormai da sette anni della
mente pensante, Nick Hodgson), ha avuto notorietà internazionale nel
2007 con un singolo spacca classifiche come Ruby, per poi traccheggiare in una innocua mediocrità artistica, che ha alternato dischi piacevoli (The Future Is Medieval del 2011) a imbarazzanti cadute di stile (Education, Education, Education, War del 2014), belle melodie di facile presa ben confezionate (Meanwhile Up In Heaven, Little Shocks, Parachute, etc) alla reiterata riproposizione del consunto menù della casa.
Questo nuovo Duck, che vede nuovamente in cabina di regia Ben H. Allen (che aveva già messo mano a Education, Education, Education, War)
coadiuvato, questa volta, da Iain Archer (Snow Patrol, James Bay e Jake
Bugg), non sposta di un centimetro il baricentro di una musica di cui,
ormai, sono svelati tutti i pregi e tutti i difetti. La consueta miscela
di brit pop, rock e indie, un filo di retrogusto eighties, due buoni
singoli come Record Collection e People Know How To Love One Another, prevedibili ma pimpanti e divertenti, qualche buona canzone, capace di farsi ricordare anche dopo il primo ascolto (The Only Ones) e chincaglieria beatlesiana luccicante e colorata (Kurt vs Frasier – The Battle For Seattle). Il tutto condito da chiassosa esuberanza, divertita leggerezza e un filo di tamarragine.
I
fan della prima ora apprezzeranno sicuramente, per gli altri il
consiglio è quello di approcciarsi al disco senza eccessive pretese. Se
lo scopo è solo quello di divertirsi, azzerando le funzioni
intellettuali, Duck assicura quaranta minuti di piacevole spensieratezza. E’ innocuo, di sicuro male non vi farà.
Gli Higher Power, quintetto di Leeds (UK) noto per il distintivo mix di grunge, hardcore e funk, firmano per Roadrunner Records e annunciano la pubblicazione del loro nuovo album dal titolo “27 Miles Underwater”, in uscita venerdì 24 gennaio2020 (in Italia solo in versione digitale). La band presenta inoltre il nuovo singolo dal titolo “Seamless”.
“‘Seamless’ è stata una delle ultime canzoni che abbiamo scritto per l’album”, spiega il cantante Jimmy Wizard parlando del nuovo brano. “È
nata in maniera del tutto spontanea e naturale, mentre la scrivevamo
sapevamo già sarebbe stata il primo singolo di ‘27 Miles Underwater’.
Rappresenta perfettamente tutto ciò che è questo album”.
Registrato con il produttore Gil Norton ai Modern World Studios di Tetbury (UK),“27 Miles Underwater”segue “Soul Structure”, album di debutto inserito da Revolver tra i “20 Migliori Album del 2017”. “27 Miles Underwater”è già disponibile in pre-order.
Formati dai fratelli Jimmy Wizard (voce) e Alex Wizard (batteria), dai chitarristi Louis Hardy e Max Harper e dal bassista Ethan Wilkinson, gli Higher Power
si sono velocemente imposti sulla scena musicale inglese ad inizio 2015
con il loro primo e omonimo demo. Incurante delle barriere musicali e
con uno spiccato amore per la scena hardcore newyorkese, la band ha in
breve tempo conquistato il Regno Unito. Sempre nel 2015, esce il secondo demo “Space to Breathe”. Nel 2017 gli Higher Power pubblicano il loro primo album “Soul Structure”, acclamato dalla critica internazionale e caratterizzato da un approccio unico in grado di unire funk, rap, rock e psychedelia.
Mai
come in questo caso è doveroso partire da una notizia che solo in parte
ha a che vedere con la recensione di quest’album. Threads, stando alle
dichiarazioni di Sheryl Crow che ne hanno anticipato l’uscita,
sembrerebbe, infatti, essere l’ultimo disco in studio della songwriter
del Missouri. La musica è cambiata, nessuno più ascolta un disco per
intero, tutti si fanno playlist, e allora che senso ha pubblicare full
lenght che ormai hanno perso ogni fascino e attrattiva? Questo in
sostanza il pensiero della Crow, che alle soglie dei sessant’anni ha
deciso di tirare i remi in barca, almeno per quanto riguarda questo
aspetto della sua carriera. Continuerà a tenere concerti e a scrivere
canzoni, ma niente più dischi.
Una
circostanza, che getta una luce particolare su Threads, raccolta di
canzoni inedite e cover, in cui Sheryl duetta con amici e ospiti, tutti
di notevole peso artistico. Una sorta di celebrazione di celebrazione di
quasi trent’anni di carriera, un testamento spirituale, una grande
festa d’addio o il canto del cigno, scegliete voi la definizione che
ritenete più opportuna.
Sta
di fatto che per quest’ultimo capitolo, la Crow ha fatto le cose in
grande, convocando a sé un parterre de roi da far tremare le vene nei
polsi. Insomma, ci sono quasi tutti, da Willie Nelson a Keith Richards,
da Stevie Nicks a Jason Isbell, da James Taylor a Neil Young. Tanta
carne al fuoco, dunque, e forse troppa: il disco, infatti, è molto lungo
e non tutto risulta essere all’altezza delle aspettative. E’ come se la
Crow, presa da brama completista, avesse voluto inserire in questo
lungo addio tutto quello che aveva nei cassetti.
Intendiamoci,
non c’è nulla di veramente inascoltabile, a parte forse la stucchevole
chiusura di For The Sake Of Love in duetto con Vince Gill, ma alcune
canzoni sono, per così dire, prescindibili (The Worst con KeithRichards,
Story Of Everything con Chuck D, Andra Day e Gary Clark Jr e Don’t con
Lucius). Il resto invece non è affatto male, con alcuni vertici di
livello altissimo.
Se
l’iniziale ed esuberante, Prove You Wrong (con Stevie Nicks e Maren
Morris), una Live Wire dalle cadenze bluesy (con Bonnie Raitt e Mavis
Staples) o la radiofonica Wouldn’t Want To Be Like You (con St. Vincent)
confermano un ritrovato stato di forma, quando Sheryl si trova a
duettare con vecchi mostri sacri, la bellezza del disco subisce
un’impennata. I duetti con Willie Nelson (la struggente Lonely Alone),
Kris Kristofferson (l’intensa Border Lord) e quello con Emmylou Harris
(Nobody’s Perfect), infatti, rientrerebbero di diritto in un prossimo
greatest hits della songwriter statunitense.
Una
menzione a parte merita l’antimilitarista Redemption Day in duetto con
Johnny Cash, canzone che “the man in black” aveva già inciso per
American VI: Ain’t No Grave, e che oggi vede nuova luce con le parti
vocali di Sheryl aggiunte postume. Emozionante vetta di un disco bello,
anche se non eccelso, che rende comunque l’addio alle scene della Crow
un po' più doloroso.
I Weezer, band multi-platino vincitrice di un Grammy Award, presentano il nuovo singolo dal titolo “The End of the Game”, disponibile da ora in streaming e accompagnato da un inedito video ufficiale. Prodotto da Suzy Shinn, “The End of the Game” anticipa il quattordicesimo album in studio della band californiana dal titolo “Van Weezer” e atteso per maggio 2020. L’ispirazione per il nuovo album arriva dalle radici musicali metal della band. Cos’ha a che fare il metal con i Weezer? Molto più di quanto è possibile immaginare. Rivers è un grande fan dei KISS, Brian adora i Black Sabbath, Pat ama Van Halen e i Rush e Scott è da sempre fan degli Slayer e dei Metallica. L’ultima volta che l’hard rock è entrato nella musica dei Weezer è stato nel 2002 con l’amato album “Maladroit”. “Van Weezer” eleva ai massimi livelli il suono di quell’album, grazie anche alla produzione di Suzy Shinn.
"The End of the Game" è il primo singolo inedito dalla pubblicazione di “Weezer (The Black Album)” e dalla collezione di cover “Weezer (The Teal Album)”.
Insieme, i due album hanno totalizzato oltre 100 milioni di streaming
in tutto il mondo. La band ha venduto più di 10 milioni di album solo
negli Stati Uniti e oltre 35 milioni di album in tutto il mondo. Il loro
catalogo include megahit come “Buddy Holly”, “Undone (The Sweater
Song)”, “Say It Ain’t So”, “El Scorcho”, “Hash Pipe”, “Island In The
Sun”, “Beverly Hills” e “Pork and Beans”.
I Weezer saranno impegnati in un tour mondiale negli stadi insieme ai Green Day e ai Fall Out Boy. The Hella Mega Tour,
in collaborazione con Harley-Davidson, prenderà ufficialmente il via il
13 giugno 2020 a Parigi e toccherà svariate città in tutt’Europa (in Italia il 10 giugno a Milano all’Ippodromo Snai), in Gran Bretagna e Nord America.
Nel precedente disco degli EODM, Zipper Down (2015), risaltava in scaletta una cover, stramba assai, di Save a Prayer dei Duran Duran. Quella reinterpretazione, rimasta un unicum per quattro anni, oggi diventa il leit motiv di Boots Electric (Performing The Best Songs We Never Wrote),
disco, come si evince dal titolo, composto esclusivamente di
reinterpretazioni di brani pescati dal repertorio di altri musicisti.
Jesse
Hughes, si sa, ha sempre avuto un approccio irreverente alla sua arte,
che può piacere o meno, ma di sicuro non è mai prevedibile. I suoi
Eagles Of Death Metal, infatti, tutto suonano fuorchè il genere che si
potrebbe immaginare nel nome, e questo raccolta, che omaggia le
influenze del suo leader, pesca dai più svariati generi, a volte
distantissimi dall’immagine di rock band data dal combo californiano.
“Il motivo per cui ho deciso di fare un disco di cover” ha spiegato Hughes in un’intervista rilasciata poco dopo l’uscita di Boots Electric “è che adoro
lo spettacolo e adoro il rock e quando amo qualcosa la tengo in grande
considerazione. Questa raccolta di canzoni raccoglie quelle che mi ha
fatto venire voglia di fare musica. Immagino che questa sia la mia
lettera d'amore a tutti coloro che mi hanno ispirato”.
Come
si diceva, la scaletta non è affatto omogenea, in quanto a fonti
d’ispirazione, alcune assolutamente plausibili, altre decisamente
sorprendenti. Ci sono i Kiss di God Of Thunder ad aprire le danze, i Guns And Roses di It’s So Easy e gli Ac/Dc di High Voltage e It’s A Long Way To The Top,
fuse in un’unica traccia, ma tutte rilette secondo un approccio che
evita il copia incolla, grazie a ritmiche diverse e a un suono che sta a
metà fra il glam e un psichedelia sfocata.
Poi ci sono i brani che proprio non ti aspetti, e che rendono decisamente interessante la raccolta. Abracadraba
della Steve Miller Band, classicone del 1982 che scalò le classifiche
di mezzo mondo, resa molto sexy grazie alla presenza della cantante
Shawnee Smith, che duetta con Hughes, Careless Whisper di
George Michael, che contro ogni probabilità, risulta davvero ben
riuscita, in questa versione mutilata del celebre assolo di sax e resa
più grintosa e ricca di glamour, o una irriconoscibile Moonage Daydream
da Zyggy Stardust di David Bowie, qui suonata in chiusura e presentata
in una stramba veste sonora, come se fosse presa da una vecchia e
gracchiante registrazione fatta da Robert Johnson o Charley Patton.
Sono, però, proprio questi azzardi, coraggiosi e intelligenti, a rendere Boots Electric
un disco, di cui forse potevamo fare a meno (ma quale disco di cover è
veramente indispensabile?), ma che alla resa dei conti si fa apprezzare
proprio per lo sguardo inconsueto e irriverente.