Produci, consuma, crepa. Il brano invettiva
dei CCCP mai come adesso suggella il contesto esistenziale in cui ci
stiamo confusamente muovendo. È emblematica, per non dire grottesca, la
dialettica politica di questi giorni. Dopo l’estenuante tenzone sul
Ferragosto, i cui effetti si stanno pagando a suon di lockdown colorati,
ora si palesa il delirio natalizio con annesse declinazioni, primi fra
tutti lo shopping compulsivo e la liturgia dei pranzoni e cenoni da fare
impallidire perfino Lucio Licinio Lucullo. Ma non illudiamoci: non sarà
un liberi tutti, si affrettano a precisare i Soloni. Lo stesso refrain
ai tempi delle demenziali giornate ferragostane con le discoteche aperte
e assembramenti vari da nord a sud perché l’economia doveva ripartire.
Sua Maestà l’Economia.
Certo, il Natale è sempre Natale e anche se
quest’anno dovrà essere rigorosamente sobrio con i parenti stretti (si
spera), senza abbracci e baci, distanziati e mascherati, poco importa.
La parola d’ordine è moderazione purché la festa si svolga all’insegna
dello shopping, possibilmente sfrenato ecompulsivo. Il mantra non è più
resistere, resistere, resistere, ma consumare, consumare, consumare. E
in tutta questa farneticazione collettiva, qualcuno fra i Soloni (per
intenderci i presidenti delle regioni del nord) tenta pure di alzare
l’asticella con la proposta di riaprire gli impianti sciistici.
Altrimenti i “cumenda” come festeggiano il Santo Stefano senza una
puntatina a Courma? Tutto questo fastidioso e avvilente cicaleccio da
giorni occupa le testate dei quotidiani e dei telegiornali senza
soluzione di continuità. Nel mentre, gli ospedali scoppiano, i contagi e
le vittime raggiungono numeri da fare tremare le vene ai polsi. Però,
mo’ vene Natale, cantava Renato Carosone.
S.F.Sorrow,
anno domini 1968, fu un disco rivoluzionario e seminale, il primo
concept album della storia, scrivono i libri, in cui confluirono, con
sguardo sul futuro, i suoni del decennio: psichedelia, trame lisergiche,
intuizioni progressive, beat e rock. Un’opera geniale, complessa e
affascinante, che ai tempi non ebbe alcun riscontro in termini di
vendita e la cui grandezza venne compresa solo più tardi, quando ormai i
Pretty Things avevano già espresso tutto il loro potenziale.
A volte, però, anche un solo disco può consegnare alla leggenda, esattamente come successe con S.F.Sorrow
e quella band di culto, il cui nome era preso in prestito da una
canzone di Bo Diddley, e la cui carriera, da quel momento in poi, non
ebbe più picchi d’ispirazione degni di nota. Capitanato dal cantante
Phil May e dal chitarrista Dick Taylor, il gruppo, infatti, uscì dagli
anni ’60 provato da defezioni e fallimenti commerciali, e ha continuato a
fare dischi con onestà e passione, senza più brillare, certo, ma mai
deludendo completamente.
Oggi,
Phil May non c’è più: malato da tempo, è deceduto il 15 maggio di
quest’anno a seguito delle complicazioni di un’operazione all’anca,
resasi necessaria per una brutta caduta dalla bicicletta. E’ riuscito,
però, nell’impresa di lasciarci un ultimo disco, il più bello da tanti
anni a questa parte, una sorta di testamento artistico, un saluto a quei
fan che, nonostante il passare dei decenni, non hanno mai smesso di
amare la musica della band britannica.
Siamo agli antipodi, però, del classico disco dei Prettty Things, perché Bare As Bone, Bright As Blood è interamente acustico, scarno, essenziale, composto esclusivamente di cover. Una sorta di American Recording
britannico, un ultimo colpo di coda per sugellare una carriera durata
più di cinquant’anni. In scaletta, infatti, troverete solo la chitarra
di Taylor, acustica e slide, e la voce sofferente, calda e
incredibilmente espressiva di May, che ricorda tantissimo quella del
Johnny Cash al limitare della sua vita.
Bare As Bone, Bright As Blood
è un album polveroso, fragile eppure emotivamente potente, composto di
canzoni che sanno toccare il cuore, che fanno vibrare l’anima, anche se è
fisicamente palpabile il senso di precarietà, anche se la malattia e la
morte sono dietro l’angolo, minacciose ed esiziali. Dodici canzoni che
sanno di sconfitta e di resa, che sono attraversate dallo sgomento della
definitività, che sono tremanti come foglie nel vento e caduche come i
colori autunnali quando vengono inghiottiti da brume vaporose.
Non
c’è un solo istante sprecato, in questo disco: ogni nota, ogni verso,
ogni accordo sono decisivi perché ultimi, non più ripetibili. Resteranno
a lungo nella memoria, però, il corpo ossuto ma ancora vitale di
reinterpretazioni da brivido (Redemption Day di Sheryl Crow, Love In Vain di Robert Johnson, Ain’t No Grave di
Claude Ely, per citarne solo alcune), e quel commiato finale, I’m Ready
(Willie Dixon), che consegna la voce di Phil May all’eternità.
Ebbi
la fortuna di vedere Suzanne Vega dal vivo negli anni ’80, quando,
giovanissima, venne a suonare all’Arena di Milano per presentare il suo
celeberrimo Solitude Standing. Ricordo un concerto ricchissimo e
coinvolgente, un piccolo gioiello di equilibrio e calore, di eleganza e
sensibilità. Ricordo una musicista interessata all’essenziale, tesa
solo a condividere la sua musica con il suo pubblico, a suonare bene,
concentrata sulle note e le sfumature, per rendere al meglio quelle
piccole grandi canzoni, alcune delle quali, oggi sono patrimonio
universale di tutti gli appassionati.
Decenni
fa, un’altra era. Anni in cui, questo folk rock, intimista ma dal
linguaggio universale, scalava le classifiche di mezzo mondo,
conquistava plausi ovunque, e vendeva più di qualsiasi altra musica del
momento (l’anno dopo, per dire, esplose il fenomeno Tracy Chapman,
quella piccola e fragile ragazzina che, armata solo di chitarra, cantava
di reietti e rivoluzioni).
Oggi
i tempi sono cambiati, Suzanne Vega è quasi sessantenne e le sue
canzoni, pur restando patrimonio di un folto gruppo di appassionati, non
scalano più le classifiche. Lei, però, non è cambiata, ha sempre
mantenuto fede al suo credo artistico, prendendosi anche il tempo per
vivere la sua famiglia, continuando però a rilasciare dischi, forse non
sempre ispiratissimi, ma di sicuro confezionati con alti standard di
delicato artigianato.
Registrato al Cafè Carlyle di New York, agli inizi del 2019, An Evening Of New York Songs And Stories
è una sorta di concept live dedicato alla Grande Mela, alla città in
cui la Vega si trasferì da bambina e in cui è cresciuta. Un omaggio,
dunque, che ci conduce per mano fra le strade della metropoli dalle
mille contraddizioni, in un percorso affettuoso e nostalgico, che la
songwriter tratteggia attraverso brevi racconti.
E
poi c’è la musica, le canzoni, alcune famosissime, altre meno, suonate
grazia anche al contributo di una band (il fido Gerry Leonard alla
chitarra, Jeff Allen al basso e Jamie Edwards alle tastiere) perfetta
per esaltare la trama delicata di canzoni appassionate e intense.
Suzanne
dal vivo è esattamente come la ricordavo, dopo averla vista decenni fa:
essenziale e coinvolgente. Esattamente come questo disco, per il quale
si potrebbero spendere aggettivi altisonanti, visto che, dalla prima
all’ultima canzone, è un continuo palpito, una continua emozione. E tra
grandi e indimenticati classici (Luka, Marlene Is On The Wall, Tom’s Diner, Thin Man) spunta anche una cover minimale di Walk On The Wild Side di Lou Reed, tanto bella da lasciare senza fiato.
Urban Hymns,
terzo album in studio dei britannici Verve, è un capolavoro, lo sanno
anche i sassi. Esce a fine settembre del 1997, in un momento in cui, in
buona parte del mondo, imperversa quello che i libri di storia
definiscono brit-pop. Alfieri del suono sono gli Oasis, i Blur, i Suede,
i Pulp, oltre a uno stuolo di altre band meno famose (Strangelove,
Travis, Embrace, etc), che contribuiscono, in egual modo, a dare linfa
al fenomeno.
Il gruppo capitanato da Richard Ashcroft aveva già dimostrato di che pasta era fatto con il precedente A Norther Soul, una sorta di album preparatorio a Urban Hymns, contenente, comunque, alcune canzoni che non avevano nulla da invidiare al più celebre successore (Hystory, Life’s An Ocean, per citarne due).
Sono
anni in cui la penna di Ashcroft, autore di quasi tutto il repertorio
della band, sembra intinta in inchiostro divino, capace di levigare
melodie destinate all’eternità. Basti pensare all’opener di Hurban Hymns, Bittersweet Symphony,
che al netto delle beghe legali con gli Stones (per gli arrangiamenti
d’archi che avvolgono sontuosamente il brano), si mangia le classifiche
di mezzo mondo, viene inserito in colonne sonore di film, viene usato
nella pubblicità e anche come sigla di programmi televisivi.
A prescindere da questa canzone immortale, però, Urban Hymns è tanto altro. Nelle tredici tracce in scaletta (più una fantasma, Deep Freeze)
confluiscono, in un disegno armonico senza sbavature, tutti i suoni del
decennio: pop, psichedelia, shoegazing, sventagliate rock, dolci
arpeggi di chitarra e digressioni ambient. Tredici inni urbani che
definisco uno stile e contornano definitivamente un suono, che solo due
anni più tardi cesserà di rappresentare il fulcro della scena musicale
mondiale, salvo essere, ma solo in parte, rivitalizzato da band
“ritardatarie” come Coldplay e Starsailors.
Se Bittersweet Symphony è il brano trainante del disco, The Drugs Don’t Work,
il secondo singolo estratto, arriva a rimorchio, rinvigorendo il
successo commerciale dell’album. La canzone è una ballata malinconica ai
limiti della mestizia, un intreccio morbidissimo di chitarre e
tastiere, su cui la voce di Ashcroft canta quello che, probabilmente, è
il suo testo più autobiografico e sentito.
Il brano, infatti, venne composto all’inizio del 1995 (e poi, suonato più volte durante il tour di A Northern Soul)
in un periodo in cui il cantante era in preda ad angoscia e
depressione, e viveva male i rapporti all’interno della band. Per
combattere l’inquietudine che lo divorava, Ashcroft faceva, quindi uso
di droghe, ecstasy soprattutto, e farmaci antidepressivi come il prozac.
Ciò nonostante, la situazione non sembrava migliorare, anzi. Ecco,
dunque il perché del titolo, “le droghe non funzionano”.
Non
solo. Il leader dei Verve ampliò il significato della canzone,
dedicando parte del testo al padre malato, il quale per curarsi assumeva
molti farmaci, che, però, non riuscirono a salvargli la vita. In quel
verso toccante, “Now the drugs don't work They just make you worse But I know I'll see your face again”,
è racchiuso il senso più intimo della canzone: la constatazione che le
droghe e le cure non sempre aiutano a migliorare la vita, perchè se il
destino è segnato, nulla potrà interromperne il cammino, e poi la
speranza, una sorta d’invocazione con gli occhi rivolti al cielo, che
si, (papà), un giorno rivedrò la tua faccia.
Originariamente, il verso “They Just Make You Worse” era stato concepito come “They Just Make Me Worse”;
poi, Ashcroft, allo scopo di universalizzare il messaggio e consentire a
tutti di dare una loro interpretazione alla canzone, sostituì "mi" con
"vi", stemperando almeno un po' il significato fortemente autobiografico
del testo. Non è un caso, dunque, che, essendo stato il singolo
pubblicato il giorno dopo la morte della Principessa Diana, quella
canzone, così triste, e quel verso, “I’ll See Your Face Again”, coagularono in note il lutto profondo e lo sgomento, che l’Inghilterra stava vivendo in quei giorni funesti.
Alla
fine, quando forse anche il più ottimista dei fan non avrebbe scommesso
un centesimo, il nuovo disco degli Ac/Dc è arrivato. Prima rumors, poi,
voci sempre più insistenti, infine, il primo singolo, un imponente
battage pubblicitario, e quindi, il 13 novembre, la pubblicazione di Power Up, diciassettesimo album in studio.
Data
da molti per morta e sepolta, la band australiana, evidentemente
immarcescibile e tetragona a ogni avversità, è riuscita nuovamente a
stupire il proprio pubblico, nonostante le infinite traversie vissute
dalla pubblicazione del penultimo, Rock Or Bust (2014). La
morte di Malcom Young (sostituito dal nipote Stevie Young, ma comunque
coautore dei brani in scaletta), i problemi con la giustizia di Phil
Rudd e quelli con l’udito di Brian Johnson, l’abbandono di Cliff
Williams (fortunatamente rientrato all’ovile), niente di tutto ciò ha
impedito a una delle più devastanti macchine da guerra del rock’n’roll
di tornare a comporre e a registrare.
Per parlare di questo nuovo Power Up,
occorre, però, fare una necessaria premessa, che è poi la chiave di
lettura per comprendere il senso di una carriera: qualunque cosa
facciano gli Ac/Dc, il polverone mediatico è pazzesco, l’entusiasmo dei
fan debordante. E la domanda, soprattutto alla luce di una carriera che
dura da oltre quarantacinque anni e dell’età anagrafica dei componenti
della band (tutti tra i sessantacinque e i settant’anni), è una sola:
perché?
Artisticamente, questo nuovo Power Up
è, come molti suoi predecessori, irrilevante. Se il sound della band
australiana è stato incontestabilmente seminale, ispirando schiere di
band che ne hanno raccolto l’eredità, i tempi in cui il loro hard rock
suonava come una novità, forgiando album ispirati e votati alla
leggenda, è passato da un bel po’.
Il
gruppo capitanato da Angus Young, inutile girarci intorno, è uno dei
più conservatori e tradizionalisti di sempre. Insensibili alle mode,
alla tecnologia e al tempo che passa, gli Ac/Dc fanno da quasi
cinquant’anni sempre lo stesso disco, a volte bene, altre male, altre
così così. Power Up non tradisce l’assunto e in scaletta c’è esattamente tutto quello che ci si può aspettare dalla band di Highway To Hell:
i soliti riff, gli stessi assolo adrenalinici, i consueti cori di
rinforzo, la medesima possente sezione ritmica che martella in 4/4,
l’inconfondibile ugola di Brian Johnson (che sembra, peraltro, non aver
perso l’antico smalto).
La
scaletta del disco, pur nella sua rigorosa coerenza stilistica, tirata a
lucido dalla produzione pulita di Brendan O’Brien, procede altalenante,
fra qualche colpo a vuoto (la mediocre Realize, la piaciona Through The Mist Of Time) e violente accelerazioni al fulmicotone che arrivano esattamente dove si sono prefissate di arrivare (Demon Fire, Shot In The Dark, Code Red), senza, però, che il tiro complessivo perda la sua forza d’impatto.
Insomma,
headbagging e piedino che sbatte inesausto per terra sono garantiti.
Niente di nuovo sul fronte occidentale, dunque, niente che non abbiamo
già ascoltato tutte le volte che abbiamo messo sul piatto un album della
band. E allora, perché noi, giovani e vecchi rocker, continuiamo a
eccitarti ogni volta che vediamo quel logo e non possiamo fare a meno di
comprare un disco degli Ac/Dc?
Una
domanda a cui non esiste risposta, se la si cerca con la ragione. Col
cuore, però, in modo confuso, possiamo dirlo. Possiamo dire che in
queste canzoni, per quanto prevedibili, esiste ancora la forza
primigenia del rock ‘n’roll, che è semplicità e urgenza. Possiamo dire
che questo lato selvaggio, questo tirare dritto contro il vento che
schiaffeggia la faccia, questo indomita baldanza che picchia, da mezzo
secolo, con la stessa febbrile emozione, asseconda l’animo ribelle dei
giovani e riporta i vecchi fan ai ricordi di gioventù. Questo rock è un
rito che si rinnova, una fede che unisce, un anelito di ribellione, la
condivisione di valori musicali autentici in un mondo che tende
inesorabilmente all’artificio e alla massificazione delle emozioni.
C’è
un vincolo indissolubile che lega gli Ac/Dc ai loro fan, e si chiama
fiducia. Se continuate a crederci voi, lo faremo anche noi. Loro ci
credono. Fanno sempre lo stesso disco, ma continuano a crederci. Da
parte nostra, non resta altro che imbracciare la fiammeggiante air
guitar e riffare gagliardi nel salotto di casa, fino a quando la
cervicale regge.
It’s only rock ‘n’ roll, cantava qualcuno, ed il bello è proprio questo.
PS: dimenticavo il voto. Il critico dice 6, il fan 8. In medio stat virtus.
“Stiamo vivendo un mondo che non va per
niente bene. I potenti padroni del pianeta hanno dichiarato guerra a se
stessi, non importa cosa è accaduto, non basta, vogliono terrorizzare il
mondo ancor di più, mari, Monti, regioni, stati...Il popolo ha paura,
teme la fine di un mondo a loro perfetto così come l’hanno conosciuto,
non vogliono tapparsi la bocca con mascherine da Pecos Bill...Forse è
tempo che ritorni il Salvatore dei mondi, si’ Lui...il supremo, nostro
Signore che si manifesti in qualsiasi forma atta a combattere la
malasorte...” (Massimo Boldi)
L’intemerata social dal sapore messianico del
Cipollino Boldi può indurre perfino un senso di commiserazione. In un
momento di pandemenza dove persino Lele Mora (toh, chi si rivede)
assolda nella sua scuderia, con tanto di contratto di rappresentanza,
una sciura palermitana che ripete a nastro su Instagram “non ce n’è di
coviddi” aggiudicandosi followers e likes a pioggia, il Cipollino
nazionale con la sua invettiva dantesca quasi giganteggia. Lo dico con
sarcasmo, si intende. Ma perché Boldi torna alla ribalta? Non certo
per i suoi film di derivazione avanguardista, ma nientemeno in veste di
testimonial per la Regione Lombardia. Dopo avere teorizzato complotti e
strizzato l’occhio al negazionismo (ora Cipollino si corregge
definendosi “scettico”), la regione motore d’Italia guidata dall’
“ottimo” Attilio Fontana si affida all’attore dei cinepanettoni per uno
spot sui fondi in favore delle categorie escluse dai ristori sociali al
monito di:” Ciao cipollini lombardi, resistiamo. Vi voglio bene”. Se mi
chiedessero di esprimere un desiderio, in questo momento chiederei di
vivere in un mondo normale. La normalità purtroppo pare sia diventata
un’isola che non c’è, la stessa che canta Edoardo Bennato: “e a
pensarci, che pazzia. È una favola, è solo fantasia. E chi è saggio,
chi è maturo lo sa. Non può esistere nella realtà”.
Alice Cooper annuncia oggi il nuovo album Detroit Stories in uscita il 26 febbraio su earMUSIC. Il primo assaggio di musica è arrivato venerdì 13 con il primo singolo “Rock ‘n’ Roll” disponibile ovunque.
Chiamato come la città che lanciò la band di Alice Cooper, Detroit Stories segue l’EP dell’anno scorso Breadcrumbs, ed è un omaggio alla scena Rock n Roll più tosta e pazza di sempre.
Nel 1970 il produttore alle prime armi Bob Ezrin andò in una fattoria nei sobborghi di Detroit per lavorare con la band Alice Cooper.
Abbandonata la Los Angeles del flower power ricca di ideali di pace e
amore lontani dalla loro identità, Alice portò la sua gang oscura nella
sua città natale permeata da una scena rock leggendaria che diede vita
all’hard rock, al garage rock, al soul, al funk, al punk...e molto
altro.
Ezrin
allenò la band per 10 ore al giorno al fine di definirne il sound
distintivo. Ogni volta che eseguivano alla perfezione un brano, i
detenuti dell’ospedale criminale psichiatrico applaudivano divertiti. Fu
così che nacque il classico sound Alice Cooper.
“Detroit era il centro della scena Heavy Rock in quel periodo,” spiega Alice, “All’Eastown si esibivano Alice Cooper, Ted Nugent, gli Stooges e gli Who per per
4 dollari! Il weekend successivo al Grande beccavi MC5, Brownsville
Station e Fleetwood Mac, o Savoy Brown e Small Faces. Non potevi fare
soft-rock altrimenti ti avrebbero preso a calci.”
“Los Angeles aveva il suo sound con The Doors, Love e Buffalo Springfield,” continua,
“San Francisco aveva Greatful Dead e Jefferson Airplane. A New York
c’erano The Rascals e The Velvet Underground. Ma Detroit era la città
natale dell’hard rock arrabbiato. Non c’era posto negli Stati
Uniti di cui sentirsi parte (sia musicalmente che dal punto di vista
dell’immagine), Detroit era l’unico luogo che riconobbe il tipico sound
hard rock e i nostri spettacoli folli dal vivo. Detroit era un porto
sicuro per gli emarginati...eravamo a casa.”
50 anni dopo Alice e Ezrin hanno radunato un gruppo di musicisti leggendari di Detroit in uno studio della città per registrare Detroit Stories, il nuovo album di Alice Cooper che celebra quello spirito per una nuova era. Se Breadcrumbs del 2019 iniziava a tracciare il sentiero per la città, Detroit Stories guida come una muscle car per Woodward Ave.
“Abbiamo
registrato l’album in compagnia di Wayne Kramer (chitarrista e
cantautore dei MC5), Johnny “Bee” Badanjek (batterista dei leggendari
Detroit Wheels), Paul Randolph (leggendario bassista della scan jazz e
R&B di Detroit), Motor City Horns e altri musicisti del posto,” spiega Ezrin. “John
Varvatos ci ha incoraggiato con idee musicali. Abbiamo registrato al
Rustbelt Studios di Royal Oak. L’album è stato fatto a Detroit, per
Detroit, dagli abitanti di Detroit!”
Detroit Stories è disponibile
su CD, CD+DVD Digipak, CD Box Set (che include CD, Blu-ray, T-shirt,
una mascherina, una torcia e 3 sticker), e doppio vinile Gatefold dal 26
febbraio su earMUSIC.
Il
DVD e il Blu-ray mostrano l’incredibile live performance “A Paranormal
Evening At The Olympia Paris” per la prima volta su video. Con l’intera
scena live ferma a causa del covid-19, Alice Cooper ha sentito il
bisogno di condividere i suoi ultimi spettacoli con i fan, sperando di
poter tornare presto in tour.
Il
vento del deserto ha portato fino alle nostre orecchie occidentali il
suggestivo e polveroso blues di realtà straordinarie come quelle di
Tinariwen e Tamikrest, band apripista di un movimento che ormai da un
lustro annovera fra le sue fila anche i Songhoy Blues.
Anche
loro arrivano dal Mali, e per la precisione da Timbuktu, ma in realtà
si sono formati a Bamako, perché costretti a scappare dalla loro città a
causa della guerra civile e dell’imposizione della sharia. La storia,
dunque, è simile a quasi tutte le band provenienti da quei territori
flagellati, una storia di fuga e di paura, di resistenza attraverso la
forza universale della musica, una sorta di carboneria in note, che ha
dato speranza a tanti che si sono visti privare delle libertà più
elementari.
Una
musica, quella di queste band, che ha il senso di una rinascita, che
possiede la forza di un riscatto, e che è intrinsecamente politica
perché, a prescindere dalle liriche, veicola verso i paesi occidentali
un grido d’aiuto, che chiede con forza non solo apprezzamento artistico
ma anche attenzione mediatica verso una cronaca spesso e volentieri
dimenticata.
Già due dischi all’attivo, i cui titoli esplicitano molto bene quanto sopra affermato, Music In Exile (2015) e Résistance
(2017), la partecipazione a diversi festival in giro per l’Europa e
l’America, che ne hanno consolidato la fama, e ora un terzo disco,
questo Optimisme, che conferma quanto di buono fatto dal quartetto finora.
I
Songhoy Blues, però, pur esibendo con orgoglio le proprie radici ed
evocando le sonorità tradizionali della propria terra, forgiano undici
canzoni affamate di grinta e di rock: non il blues fascinoso ed elusivo
dei Tinariwen, non quelle sonorità che evocano accecanti stellate e
fuochi berberi nella notte del deserto, ma un tiro più diretto,
gagliardo, trafitto da un impeto chitarristico che sembra nascere da
bassofondi metropolitani e non dalla contemplazione di suggestivi spazi
aperti.
Ci
sono sentori d’Africa, certo, ma c’è anche il rock blues plasmato dagli
occidentali, c’è l’urgenza espressiva che spinge verso minutaggi quasi
punk, con canzoni che al massimo superano di poco i tre minuti, c’è un
fremente impeto che sostituisce l’affabulazione di trame ipnotiche.
Così, quando parte l’opener Badala,
una sventagliata di elettricità urticante e nervosa, sembra quasi di
immergersi in territori hard garage alla Hellacopters, tanto per fare
una citazione volante; e non sono da meno altre dardeggianti derapate
come Worry, intersecata dai fendenti letali di una chitarra in acido, o Assadja, sconquassata dalle extrasistole di un drumming ansiogeno.
Solo
trentacinque minuti di durata per un filotto di canzoni che arrivano
alle orecchie vigorose, fiere e appassionate (solo nella conclusiva Kouma
viene tirato il freno a mano), e che forse hanno come limite solo
quello di girare intorno alla stessa idea di riff, riuscitissimi e
accattivanti, ma reiterati in loop su ritmiche saltellanti. Il pelo
nell’uovo di un disco vibrante, che si gode dalla prima all’ultima
canzone.
Quello
degli America è un nome che viene spesso bistrattato ben oltre i
demeriti della band. Che si, è vero, è sempre stata incline a melodie
zuccherine e ad ammiccamenti pop, e che si, è vero anche questo, in
carriera, già a partire dalla seconda metà degli anni ’70, non è più
stata in grado di replicare il livello d’ispirazione di inizio decennio.
Spesso, però, ci si dimentica che i primi due album della band composta
da Dewey Bunnell, Gerry Beckley e Dan Peek sono autentici gioiellini
del suono West Coast, contengono canzoni a dir poco memorabili (A Horse With No Name,
per citarne una tratta dall’esordio), splendidi intrecci vocali,
melodie di facile presa e sonorità deliziosamente acustiche. Il primo
disco, soprattutto, è un fulmine a ciel sereno: trainato dalla citata A Horse With No Name, l’album arriva al primo posto sia in Inghilterra che negli Stati Uniti.
In una scaletta di brani straordinari (tra i quali spicca un’altra hit da top ten, la romantica I Need You),
viene inserita anche una canzone dalle tinte cupe, un brano vibrante,
complesso e oscuro, attraversato da un’inaspettata tensione drammatica.
Quella canzone s’intitola Sandman, è scritta e cantata da Dewey
Bunnell, e non fu mai pubblicata come singolo. Una canzone che, pur
allineandosi allo stile inconfondibile della band, non contiene zuccheri
né parole d’amore, ma parla di Vietnam, di morte e di paura.
I
tre membri degli America, infatti, erano figli di membri del servizio
militare americano di stanza in Inghilterra e spesso avevano l’occasione
di intrattenersi con soldati di ritorno dalle zone di guerra, che erano
stati, quindi, in Vietman e avevano combattuto quella terribile guerra
lontano da casa. Bunnell scrisse Sandman proprio ispirandosi ai
racconti di alcuni reduci, che nelle lunghe notti in prima linea, erano
tutti terrorizzati da una delle cose più piacevoli al mondo, cioè
dormire.
Il
terrore di attacchi nel cuore della notte, spingeva, infatti, i soldati
a fare uso di droghe per restare svegli: avevano paura di dormire,
paura del sonno, che chiamavano “sandman”, e che poteva significare
morte, nel caso di un improvviso blitz del nemico (I understand you've been running from the man That goes by the name of the Sandman, canta Bunnell nella canzone).
Come
spesso succede, però, il brano fu oggetto anche di altre
interpretazioni. Gli amanti dei fumetti hanno voluto vedere come
protagonista del pezzo degli America il personaggio dei fumetti creato
dalla DC Comics, che in realtà uscì nel 1974, anche se ispirato a un
fumetto per bambini, che fece la sua prima apparizione nel 1947. Altri,
invece, dal momento che gli America erano tutti figli di militari,
ritengono che la canzone fosse un omaggio allo squadrone aereo VQ-2
della Marina degli Stati Uniti, che ai tempi aveva la sua base a Rota,
in Spagna.
Quale che sia la verità, Sandman
resta una canzone bellissima e niente affatto accomodante, ben lontana,
quindi, dall’immagine negativa che spesso, aprioristicamente, si vuole
dare alla musica del terzetto.
Avevamo lasciato Shemekia Copeland due anni fa, all’uscita del bellissimo e militante America’s Child, album che successivamente le è valso la nomina a Living Blues Female
Artist Of The Year. Dal 2018 a oggi, le cose non sono migliorate, anzi:
non solo la pandemia, ma la cronaca quotidiana di un’America flagellata
da scontri razziali e violenze gratuite della polizia nei confronti di
gente di colore. La Copeland, che non ha mai fatto mistero delle proprie
posizioni anti Trump, rimette in piedi la struttura che ci aveva fatto
amare alla follia l’album precedente: testi diretti e inequivocabili,
appassionata militanza, e uno straordinario bagaglio blues, riletto con
impeto rock, con quella voce straordinaria capace di stenderti al primo
colpo, e con la consapevolezza filologica di chi ama e conosce a fondo
le proprie radici.
Uncivil War, dunque, riprende il filo del discorso esattamente dove si era interrotto con America’s Child
del 2018, anche a livello di ospitate, visto che questo nuovo lavoro
vede la presenza in scaletta di artisti del calibro Jason Isbell, Steve
Cropper, Christone “Kingfish” Ingram, Webb Wilder, Duane Eddy, il mandolinista Sam Bush, il
dobro di Jerry Douglas e i cori degli Orphan Brigade. La Copeland, come
dicevamo poco sopra, continua a esprimere uno stile unico e un suono
distintivo, che guarda alle radici (lei è la figlia del grande blues del
Texas Johnny Copeland), e che trae ispirazione da molte influenze
blues, provenienti dal sud degli States, anche se poi, l’impianto
politico e sociologico delle liriche è clamorosamente nordista.
Questa dicotomia suono/testi si avverte molte volte nel corso dell'album, e l'esempio lampante arriva dalla splendida cover di Under My Thumb
dei Rolling Stones. L'originale degli Stones è un brano machista che
invita a tenere a freno una donna. È grande musica, ma veicola un
messaggio frusto e sessista, che appartiene a un’altra epoca. La
Copeland, invece, capovolge tutto, compresi i pronomi, in modo che la
canzone parli di una donna di colore che supera l'oppressione,
ribaltando la situazione in un modo che, oggi, risulta non solo
politicamente corretto, ma anche più appropriato rispetto alla nostra
visione della società.
Il
blues è il perno prevalente su cui ruotano tutte le canzoni del disco
(anche se poi ogni brano acquisisce sfumature diverse): Clotilda’s On Fire,
canzone che racconta un fatto storico vero e ed è chiara presa di
posizione contro il razzismo, vede la presenza alla chitarra di Jason
Isbell, che concede una serie di assoli arroventati e dal sapore antico,
Apple Pie and a .45 sfodera un’incredibile energia che frulla
rock, blues e alt country, mentre il chitarrista blues di Wunderkind
Christone "Kingfish" Ingram strapazza la sua sei corde, soffiando
drammaticità e tensione nel graffiante rock blues di Money Makes You Ugly.
La Copeland, però, sa muoversi con straordinaria armonia anche nelle spirituali acque del gospel, attraverso l’appassionata Walk Until I Ride e la morbida title track, con Jerry Douglas ospite alla resofonica.
Produce
il disco il cantante, compositore e chitarrista Will Kimbrough, e credo
ci si debba levare tanto di cappello di fronte allo straordinario
lavoro fatto dietro la consolle: qui ci sono brani tirati e ballate, c’è
impeto e melodia, ci sono diversi generi che convivono, eppure la
coerenza nei suoni è eccezionale. Merito anche della Copeland, la cui
voce straordinaria si mette al servizio delle canzoni, cogliendone alla
perfezione l’anima, il significato e l’essenza. Se avete amato America’s Child, troverete in questo nuovo Uncivil War ulteriori motivi per godere, dato che il disco, oltre a essere splendido, suona già come un instant classic di genere.
Cialtroni si nasce. E Cotticelli modestamente lo nacque. Saverio
Cotticelli, commissario alla Sanità della Calabria, nel corso di una
surreale intervista, di fronte all’incalzare delle domande del
giornalista della trasmissione “Titolo V” su chi sia competente in tema
di Covid in regione, scopre in quel momento di essere stato investito
dal governo anche del programma operativo per la gestione dell’emergenza
sanitaria.
Lo stralunato commissario, colto con il sorcio in bocca,
legge l’atto ritrovato nell’archivio come se fosse caduto dal pero.
“Sono io”, ammette stupefatto. Avendo realizzato di trovarsi nella
palta, cerca maldestramente di correggere il tiro: “La prossima
settimana è pronto”. Ma il circo non è finito. Due giorni dopo, il coupe
de theatre: il cottarello Cotticelli con gli occhi sbarrati dichiara in
un’altra intervista: “Non ero io. Non so in quel momento cosa mi sia
successo. Sembrava la mia controfigura...Ero in uno stato confusionale
su cui sto indagando...Poi ho vomitato e passato una notte
terribile...Non lo so se mi hanno drogato, non ero lucido”. Il povero
Cottarelli viene rimosso con effetto immediato dal Premier ma subentra
un altro gigante della farsa, tal Giuseppe Zuccatelli. Pare di assistere
a una staffetta tra cialtroni.
Ebbene, il neo eletto addirittura già a
maggio, quindi in piena pandemia, dispensava perle di saggezza alla
faccia dei Crisanti e dei Galli:”Ve lo dico in inglese stretto: le
mascherine non servono a un cazzo!”. Verrebbe da ridere se non fosse che
stiamo vivendo una tragedia epocale. Personaggi macchiettistici come
questi dovrebbero essere destinati al varietà di bassa lega, ai b movie
per capirci. Senza dubbio non meritano neppure di zappare, arte peraltro
nobilissima per gente di tal fatta. Individui come lor signori,
inadeguati persino a fare un cerchio con un bicchiere, oltraggiano il
merito, la competenza di chi è realmente capace. Il Covid come ho già
scritto finirà prima o poi, ma fino a quando la meritocrazia sarà
svilita, mortificata e vilipesa, per il virus della cialtroneria non
saranno sufficienti neppure gli anticorpi.
In queste righe, troverete una recensione, ma troverete anche una storia, di quelle che vi faranno esclamare: “ma pensa te!”.
E’ la storia di Mary Gannon (basso), Marla Hunt (organo, pianoforte),
Denise Kaufman (chitarra, armonica), Mary Ellen Simpson (chitarra
solista) e Diane Vitalich (batteria), ovvero le Ace Of Cups,
probabilmente la prima rock band tutta al femminile della storia. Siamo
nel 1967, in piena Summer Of Love era, e siamo a San Francisco,
che in quegli anni è l’ombelico del mondo musicale, crogiolo di
fricchetoni e visionari, terra dell’amore libero e di passioni
antimilitariste, avamposto di nuove droghe e della novelle vauge del
rock, che vede in band come Jefferson Airplane e Grateful Dead i suoi
alfieri.
A
Frisco, arrivano, quasi tutte dalla California, cinque ragazze che
hanno già fatto un po' di gavetta (la Simpson, addirittura, aveva
suonato una volta con Bill Haley And The Comets) e hanno in testa il
sogno di creare una band che faccia rima con donna. Esordiscono nella
primavera del 1967 e, già a fine giugno, Jimi Hendrix le vuole sul palco
ad aprire un suo concerto, perché stravede per la furia debordante con
cui la Simpson suona la chitarra ed è ammaliato dal groove che le
ragazze esprimono dal vivo.
Nella
Bay Area, in poco tempo, le Ace Of Cups diventano vere e proprie icone,
suonano ovunque, diventano le band di casa del Matrix e aprono concerti
a molti colleghi che in quegli anni fanno sfracelli. Hanno lo stesso
manager dei Quicksilver Messenger Service, Ron Polte, il quale rifiuta
vari contrati discografici, perché ritenuti non all’altezza della
bravura delle ragazze; le quali, peraltro, alla sola idea di partire per
un tour che le allontani da casa, fanno retromarcia davanti a qualsiasi
proposta (all'Altamont Speedway Free Festival la Kaufman, divenuta
moglie del sassofonista Noel Jewkes, di cui era incinta, fu colpita alla
testa da una lattina di birra piena lanciata dagli Hell's Angels e fu
operata d'urgenza per rimuovere un pezzo di osso che le aveva lesionato
l'occhio).
L’ostinazione
a non voler sottoscrivere contratti, però, non paga e porta, quindi, a
inizio degli anni ’70 allo scioglimento della band, le cui componenti
spariscono dalla circolazione per quarant’anni, salvo poi tornare a fare
musica dopo il 2010 e a pubblicare finalmente il primo omonimo album in
studio, che vede la luce il 9 novembre del 2018.
Evidentemente,
le ragazze, che oggi sono delle arzille vecchiette che hanno superato
la settantina, ci hanno preso gusto, e questo Sing Your Dreams è il
nuovo capitolo di un’avventura musicale a scoppio ritardato. Ora,
immagino che qualcuno di voi sia perplesso e tema di trovarsi di fronte
un album buono come sottofondo per l’area ricreativa di un ospizio di
provincia. Un cazzo. Le cinque anzianette stanno sul pezzo con un vigore
che farebbe invidia a un ventenne.
Certo,
questa musica è clamorosamente vintage, si porta dietro il suono e le
atmosfere dei giorni gloriosi della band; chi, però, si aspettasse una
replica frusta di cose morte e sepolte, sarebbe completamente fuori
strada. Sing Your Dreams è un lavoro vario, e quando dico vario intendo
che abbraccia generi diversi, e divertentissimo, tanto che si ascolta
più volte con rinnovata piacevolezza. Perché, lo si coglie da subito, è
palpabile la voglia di recuperare il tempo perduto e di fare grande
musica.
Dressedin Black apre il disco con piglio funky blues e si capisce cosa
provasse Hendrix ascoltando il groove e il tiro delle Ace of Cups. Jai Ma gioca con ritmi caraibici e schiera come ospiti Sheila E., Steve Kimock (Grateful Dead) e la Escovedo Family, Put A Woman In Charge è un rockettone cazzuto alla Joan Jett, Sister Ruth una splendida ballata americana con Jack Casady (Jefferson Airplaine) al basso, Basic Human Needs è morbida psichedelia dagli accenti africani, Boy, What ‘ll You Do Then possiede un tiro garage inaspettato, Little White Lies è uno sculettante r’n’b, mentre la suntuosa ballata Slowest River/Made For Love
sigilla la scaletta tra profumi west coast e con le voci di Jackson
Browne, Bob Weir (Grateful Dead) e David Freiberg (Quicksilver Messenger
Service), presenti come ospiti. Una corale nostalgica in ricordo dei
bei tempi andati, che chiosa un album dal sapore antico e al contempo
fresco di indomita passione.
Che
il nome dei Creed abbia preso un po' di polvere negli ultimi dieci anni
è un’evidenza incontrovertibile; eppure, nel momento di massimo
fulgore, a cui si riferisce questo Human Clay, secondo album
datato 1999, la band originaria di Tallahassee (Florida) aveva numeri di
vendita da capogiro. Un po’ per la capacità di inserirsi e sfruttare al
meglio quel filone, definito post-grunge, che nella seconda metà dei
‘90 spopolava, e un po', a Cesare quel che è di Cesare, perché nel mare
magnum di quella proposta derivativa e spesso ammorbata da clamorose
aperture radiofoniche, la band capitanata da Mark Tremonti ha sempre
tenuto dritta, per il breve periodo in cui è stata in vita, la barra
della qualità e una fragorosa potenza di tiro.
D’altra
parte, e non è una circostanza da poco, i Creed erano il frutto
dell’unione di quattro musicisti di straordinaria caratura tecnica: il
citato Mark Tremonti, uno dei migliori chitarristi al mondo (che poi
darà vita agli Alter Bridge), forgiatore di tonitruanti riff dall’ anima
corrazzata di nobile metallo, il cantante Scott Alan Stapp, voce ruvida
e timbro luciferino, una vita in bilico fra estasi (patron della With
Arms Wide Open Foundation, fondazione per la cura e la salvaguardia dei
bambini) e tormento (i problemi legali, l’alcolismo, la sindrome
bipolare, un tentativo di suicidio), il bassista Brian Marshall, vera e
propria macchina da guerra, che confluirà a sua volta negli Alter
Bridge, e il batterista Scott Phillips (anche lui, successivamente, al
seguito di Mark Tremonti negli AB) pirotecnico architetto di controtempi
vertiginosi.
Human Clay, secondo disco della band americana, fu un clamoroso successo commerciale (bissato, peraltro, anche dal successivo Wheatered
del 2001) ottenendo undici dischi di platino solo in America, facendone
poi incetta anche in altri paesi, vendendo fino al 2010 più di dodici
milioni di copie (è al cinquantaquattresimo posto dei dischi più venduti
di sempre) e portando a casa un Grammy Award per la miglior canzone
rock dell’anno per il secondo singolo, With Arms Wide Open.
Numeri
impressionanti, per un disco che, come si diceva, surfa alla grande
sull’onda lunga del post-grunge, ma lo fa con una qualità di scrittura e
una perizia tecnica difficili da trovare fra band, che abitavano lo
stesso condominio. Perché, è vero, i riferimenti stilistici al sound di
Seattle sono palesi e immediatamente ravvisabili, ma la corazza metal
che riveste la musica dei Creed alza l’asticella dell’imprevedibilità e
anticipa un suono che avrà, poi, il suo definitivo completamento quando
inizierà l’avventura Alter Bridge.
L’opener di Are You Ready?
esplicita dichiarazione d’intenti, apre il disco mettendo proprio in
chiaro che la rilettura del genere grunge non passa solo dalle radio, ma
anche da un magma ribollente di tuoni e fulmini, distorsioni e riff di
compattezza siderurgica. Che i Creed guardino a Seattle nessuno lo nega,
anzi: Stapp possiede una voce assassina, ma quando l’ammorbidisce
sembra il cugino di primo grado di Eddie Vedder, il singolone With Arms Wide Open
potrebbe tranquillamente far parte del repertorio dei Pearl Jam (se non
fosse per la melodia del ritornello accerchiata da invalicabili muri
elettrici), e lo stesso si può dire della successiva Higher, mentre la cupa Never Die ruba, modificandola un po', l’apertura di Feel On Black Days dei Soundgarden.
Non c’è un calo di tensione, non un filler. Il disco spacca, come dicono oggi i giovani, dalla prima all’ultima nota: What If,
aperta da un arpeggio di settantiana memoria, è una fucilata in faccia,
Stapp che scartavetra ogni possibile accenno di melodia, Tremonti che
furoreggia, sparando ad alzo zero riff pesi e distorti. Say I è un saliscendi ansiogeno tra potenza metal e inquietanti intermezzi dal sapore vagamente psichedelico, Wrong Way procede cupa e maligna dondolando sul drumming in controtempo di Phillips, mentre Beatiful, a dispetto del titolo, ringhia con ferocia attraverso il ritornello irruvidito dalla voce luciferina di Stapp.
Il
momento migliore della band, però, finisce qui. Il successivo Wheatered
fa il botto di vendite, ma la crisi è nell’aria e puzza di redde
rationem: Stapp, che beve come una spugna, tanto da non reggersi in
piedi, è un problema ingestibile, anche perché a seguito di un
incidente, comincia a strafarsi antidolorifici, rendendo ardua la
gestione dell’attività live. Così, nel 2004, dopo un anno sabbatico, la
band si scioglie, salvo poi riunirsi per un nuovo album (Full Circle del 2009), dalla caratura artistica, purtroppo, assai modesta.
Mogwai annunciano oggi il decimo album in studio As The Love Continues in
uscita il 19 febbraio su Rock Action Records. L’album è disponibile per
il pre-ordine in diversi formati: CD, doppio vinile, box set speciale
che include il CD, il doppio vinile colorato, il vinile singolo speciale
con cinque demo dell’album e un libro fotografico – di questo box
set sarà disponibile anche la versione con solo il CD. L’album è stato
registrato all’inizio dell’anno con il produttore Dave Fridmann e vede la collaborazione di Atticus Ross (nel brano “Midnight Flit”) e Colin Stetson (nel brano “Pat Stains”). As The Love Continues arriva a 25 anni dalla pubblicazione del singolo di debutto ‘Tuner’/’Lower’.
In origine As The Love Continues doveva
essere registrato in America, ma la pandemia li obbligò a stabilirsi
nel Worcestershire con il produttore Dave Fridmann dall’altra parte
dell’oceano, apparendo come un oppressore orwelliano. Queste necessità
legate alla pandemia divennero presto routine, e permisero loro di
guadagnare tempo.
Impossibilitati ad esibirsi con il nuovo album, Stuart Braithwaite dei Mogwai spera che la musica riesca a portare l’ascoltatore in un luogo differente da quello in cui ci si trova “a meno che tu non sia in un posto bellissimo e allora perché stai ascoltando della musica così strana?”
“Dry Fantasy” è
il primo singolo tratto dall'album, un brano celestiale basato su un
synth riverberante in loop, che raggiunge uno splendore surreale mentre
chitarre e basso compaiono e scompaiono dal brano. “Dry Fantasy” è
accompagnato da un video cosparso di immagini di fiori che sbocciano, il
tutto immerso nell'atmosfera contorta di un pianeta lontano.
Mogwai sono
andati avanti senza un piano sin dall'adolescenza, non ci sono mai
stati degli incontri segreti per lavorare ad un progetto. È’ raro
sentire di una band che va avanti da così tanto e con così tanti album
all'attivo – dieci album e ancora nessuna delusione o svolte creative
sbagliate.
Potresti sapere cosa aspettarti ma non avrai mai lo stesso risultato. Sia trascendente che inaspettato, As The Love Continues mostra una band che offre ancora conforto, fornendo la colonna sonora a qualsiasi film tu ti stia facendo in testa.
As The Love Continues è il seguito di Every Country’s Sun del 2017, il secondo album di fila dei Mogwai ad entrare nella Top 10, dopo Rave Tapes del 2014. Nel mentre la band ha pubblicato una retrospettiva sulla carriera intitolata Central Belters e ha collaborato con il regista Mark Cousins per la colonna sonora del documentario Atomic. Quest’anno hanno pubblicato la colonna sonora per la serie originale SkyZeroZeroZero, disponibile
per la prima settimana esclusivamente su Bandcamp pagando quel che si
può (PWYC), con la metà del ricavato destinato a Help Musicians e a NHS
Charities.
Moral Panic,
a voler usare una formula un po' abusata, è quello che potremmo
definire il disco della maturità dei Nothing But Thieves. Non che i
precedenti fossero dischi prescindibili, per carità. L’omonimo esordio,
datato 2015, tutto impeto e baldanza, presentava una band già
consapevole dei propri mezzi che giocava con suoni noti (Muse,
Radiohead, Arctic Monkeys), rinnovandoli con freschezza. E il sophomore,
Brooken Machine (2017), a cui forse mancava l’effetto sorpresa
del predecessore, ribadiva il concetto di un gruppo abile a plasmare
con intelligenza una materia ben radicata nel panorama indie rock
britannico. Moral Panic, in tal senso, compatta e, permettetemi
l’alliterazione, definisce definitivamente uno stile, ponendo il
marchio di fabbrica su undici canzoni che oggi possono dirsi solo ed
esclusivamente dei Nothing But Thieves. Che continuano a citare,
ovviamente, ammiccando a Killers e Muse, evocando a tratti atmosfere
anni ’80, ma fondendo con personalità, in un frullato gustosissimo, pop,
dance e rock, indie e mainstream, tastiere e chitarroni, melodia ed
esondante energia.
Un disco, poi, che anche nelle parole del cantante e frontman, Conor Mason, ha avuto una genesi più consapevole e riflessiva: “Per
la prima volta nella nostra carriera abbiamo avuto il tempo di sederci e
scrivere un album, senza doverlo fare on the road. Il disco è stato
quasi interamente composto prima che la pandemia arrivasse, ma ci
rendevamo conto che stava per succedere qualcosa di grave e il disco in
parte lo riflette, anche senza esserne stato direttamente ispirato”.
Una tensione che si riflette sulle liriche dell’album, che pongono
l’accento sulla difficoltà di vivere in questi giorni incasinati, non
solo dal virus, ma dai cambiamenti climatici, dalle guerre e dal
terrorismo, dall’invadenza e dall’ingerenza dei media e dei social.
Moral Panic,
però, a dispetto di temi così alti e riflessioni il più delle volte
amare, trasuda energia ed entusiasmo, e pompa dalle casse dello stereo
con vertiginosa audacia. Qualche brano suona forse un po' prevedibile
(il primo singolo Is Everybody Going Crazy? ad esempio, è
abbastanza risaputo), ma la scaletta tiene alla grande e trasuda
ispirazione e, quel che conta maggiormente, voglia di divertire e
divertirsi.
L’opener Unperson deflagra come una bomba, up tempo da capogiro, chitarra aggressiva, melodia acchiappona e suono millesimato 2020, Real Love Song racconta d’amore e sentimenti in una cornice new wave molto anni ’80, Phobia,
il brano dall’architettura più complessa, strizza l’occhio a Billie
Eilish, ma vira improvvisamente in un fulminante crescendo hard rock, Impossible è una ballata da tenere con affetto tra le cose più emozionanti del 2020, There Was Sun è irresistibile gancio per il dancefloor, e Can You Afford To Be An Individual,
a parere di chi scrive il miglior brano del lotto, possiede un tiro
incredibile, è pervaso da tensione drammatica e mostra il lato più
muscolare della band.
Moral Panic
è dunque la prima tappa veramente importante di una carriera in
crescendo, un disco coraggioso e graffiante, capace al contempo di far
ballare, divertire e sedurre, con un piglio giovanilista che si rivela
però, ascolto dopo ascolto, incredibilmente adulto e vincente. Bravi,
bravi, bravi.
“Per quanto ci addolori ogni singola vittima
del Covid 19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25
decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo
più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che
vanno però tutelate”. (Giovanni Toti)
Diceva Carlo Levi che le parole sono pietre.
Per Toti si è trattato del solito discorso estrapolato da un concetto
più ampio. Tradotto: un abominio estrapolato da un’altra scelleratezza
più ampia. Giovanni Toti è il governatore della Liguria, seconda
regione più anziana d’Europa in base a recenti statistiche pubblicate da
Eurostat. Ergo, seguendo l’ “illuminata argomentazione” di costui, la
stragrande maggioranza dei cittadini liguri dovrebbe essere confinata
nel proprio domicilio per poi buttare via la chiave. Come è ovvio, è
divampata una polemica, spesso velatamente ipocrita, a cui è seguita una
toppa peggiore del buco. Pare infatti che l’infelice affermazione
twittate sia frutto di un errore marchiano del social media manager.
Tutto risolto per Toti, dunque. Scaricare a un altro il peso di una
nefandezza è la pratica sportiva prediletta da chi non ha il coraggio
delle proprie azioni. Preferisco non soffermarmi sulla inconsapevolezza
di Toti, ma piuttosto sul principio secondo il quale il valore sociale
di una persona si misura in rapporto alla produttività. Vali se produci,
se fai soldi, se fai guadagnare il tuo datore di lavoro: se non fai
parte di questo processo diventi un vuoto a perdere, un inutile rifiuto
da smaltire. Personaggi come Toti ne è pieno il mondo: chi più chi meno
sotto mentite spoglie la pensa allo stesso modo, perfino chi si è
proclamato alfiere nella difesa dei più deboli. La verità è che viviamo
in un mondo pervaso da logiche neoliberiste in cui il culto del profitto
e della ricchezza ostentata considera le persone fragili come palle al
piede. E di questa deriva morale Toti è l’interprete più emblematico.
La
storia dei californiani Incubus, come per molte altre band, è quella di
un percorso non lineare, di una carriera che potrebbe essere
tranquillamente divisa in due parti, di un cambio di rotta e di suono,
che ha portato la band da un sottobosco alternative per pochi intimi
alle luci della ribalta mainstrean.
Nati
e cresciuti a Calabassas, centro rurale del Sud della California, i
compagni di classe Brandon Boyd (voce) e Josè Pasillas (batteria)
incontrano Mike Eizinger (chitarra), fanno amicizia e sognano sogni di
gloria insieme. L’idea è fondare una band, suonare alle feste degli
amici e nei localini della zona. Si danno un nome inquietante, Incubus,
come quel demone che nella mitologia medioevale sorprende le donne nel
sonno e le violenta. Arruolato un bassista (Alex Katunich), i ragazzi
vengono notati da Dj Lyfe, che leviga e completa il sound della band
(diventando membro stabile), e dal manager Paul Pontius, che li porta
alla Epic, come già aveva fatto con i Korn.
Inzia così la prima parte di carriera, aperto da un disco acerbo, ma interessante, dal titolo stranissimo: Fungus Amongus
(1995). Un esordio ingenuo, forse, ma ricco di idee che girano intorno a
un rock impastato con del funky sghembo, eccitato e adrenalinico, che
paga pegno a Primus, Faith No More e Red Hot Chili Peppers. Un Ep (Enjoy Incubus,
1996) per schiarirsi ulteriormente le idee, e poi, finalmente,
S.C.I.E.N.C.E. (1997), gioiello di anarchia crossover, in cui
confluiscono funk, hip hop, metal ed elettronica, in un magma multiforme
gestito con consapevolezza e maturità. Da questo momento, però, la band
cambia pelle, la parabola creativa si arresta e la proposta si fa meno
originale. Make Yourself (1999), chiude il millennio con un
suono più contiguo al post grunge e con un approccio meno sperimentale e
pirotecnico, che cede il passo a un suono più definito, morbido e
sciolto.
E’ il primo passo verso il cambiamento definitivo, quello che segnerà la seconda parte della storia degli Incubus. Esce Morning View
(2001) ed è chiaro fin da subito i ragazzi californiani sono diventati
altro rispetto a ciò che erano il decennio precedente. La band non osa
più, si guarda alle spalle e recupera il classic rock settantiano,
mettendo in piedi una scaletta che alterna brani hard e ballate, un
pizzico di psichedelia e qualche strizzata d’occhio a suoni radio
friendly.
E’ la definitiva stabilizzazione, che prosegue con A Crow Left Out The Murder
(2004), disco piacevolissimo, che attenua la volenza degli esordi per
assestarsi su clichè pop rock poco innovativi, ma con vista sulle charts
(Megalomaniac e Talk Shows On Mute sono due vere e proprie hit), e con questo Light Grenades (2006), che ribadisce la formula del predecessore, ma con una marcia in più.
Perché
se è vero che l’irrequietezza e la sfrontatezza degli anni ’90 si sono
ormai spente, è altrettanto vero che la band sa scrivere belle canzoni
(e non c’è un disco degli Incubus in cui non ne troviate almeno un
paio). Il lavoro alla consolle di Brendan O’Brien (produttore che ha
messo mano ad alcuni dei dischi più significativi degli ultimi quindici
anni: Pearl Jam, Soundgarden, Rage Against The Machine, Red Hot Cilli
Peppers, etc) garantisce, poi, una solida impalcatura rock, e anche se
la melodia prevale sull’impeto, non mancano, comunque, momenti capaci di
graffiare con feroce irruenza.
L’iniziale, psichedelica e onirica, Quicksand prepara il terreno di caccia per la furia leonina di A Kiss To Send Us Off,
aggressione di decibel e chitarre appena stemperata da strofe di grande
tensione levigate dalla bella voce di Brendon Boyd, che forse non avrà
una funambolica estensione, ma sa cantare bene e con grande duttilità,
tanto da riuscire talvolta a vestire anche i panni del crooner.
Il
disco si basa soprattutto sulle ballate e su melodie accattivanti,
eseguite, però, con quel piglio rock che tiene alto il livello
qualitativo della proposta: Dig è costruita su un arpeggio di
chitarra semplice e luccicante, possiede un ottimo crescendo d’intensità
e ricorda alcune cose incise dei Pearl Jam con uno stile quasi
identico, Oil And Water è ispida e malinconica, mentre Love Hurts è la hit che scala le classifiche e fa battere il cuore alle anime più romantiche.
Non tutto è centrato e alcuni episodi sono deboli e insipidi (Earth To Bella, part. 1 e 2), ma quando la band ingrana la quinta, sa ancora forgiare bordate di altissima intensità (il riff clamoroso di Anna Molly, primo singolo estratto dall’album, l’aggressione noise dell’ansiogena title track).
Light Grenades
non è certo un disco epocale, però rappresenta il vertice della seconda
parte di carriera degli Incubus. Una band che aveva davanti a se un
luminoso futuro di nicchia, e che invece ha scelto di imboccare la
strada più semplice e meno tortuosa, che porta in cima alle classifiche.
Niente di male, ovviamente, anche perché Brendon Boyd e soci sono
comunque riusciti nel tempo a definire uno stile e, a dispetto di
un’originalità ormai claudicante, a continuare a scrivere belle canzoni.