In
una scena metal frastagliata, ricca di band e decisamente interessante
come quella islandese, si inseriscono, ultimi arrivati, anche i Múr,
gruppo nuovo di pacca che ha pubblicato il suo seducente esordio sul
finire del 2024.
Un
debutto che ci era sfuggito nel periodo frenetico di fine anno, e che
andiamo a recuperare con molto piacere, visto che, nonostante si tratti
di un’opera prima, ci troviamo di fronte a una band molto consapevole e
già matura, che nei cinquantaquattro minuti di durata della scaletta,
mette sul piatto un disco poliedrico che attinge liberamente dal
progressive e dal post-metal, dando vita a un viaggio emotivamente
seducente. I Múr dovrebbero piacere ai fan di band come The Ocean,
Opeth, Ihsahn, Cult Of Luna e Alcest, per citare i riferimenti più ovvi.
È importante notare, però, che il quintetto islandese non suona mai
come se stesse plagiando, mettendo semmai in luce una personalità ben
delineata, che conquista fin dal primo ascolto.
Pur
in un contesto immediatamente riconoscibile, infatti, la scrittura dei
brani è ottima e si tiene lontano dai clichè più ovvi, dando vita a una
struttura musicale atmosferica e umorale, che alterna momenti più
morbidi e malinconici a frequenti incursioni in territori più oscuri, in
cui pesantezza e aggressività la fanno da padrone. Un’aggressività,
però, non fine a se stessa, ma che trova un intrigante contrappunto in
paesaggi sonori avvincenti, che spaziano da una delicata introspezione
ad avvincenti digressioni epiche.
Un
connubio perfetto, presentato con ottime competenze tecniche e una
evidente eleganza formale, e che trova la sua perfetta declinazione
nell’utilizzo alternato tra voci pulite e screaming, entrambe
perfettamente incastonate nel tessuto sonoro. Una musica di sicuro
impatto, dunque, che denota un’accurata ricerca anche in fase di
produzione, senza tuttavia perdere un grammo del lato emotivo della
proposta.
In
tal senso, segnaliamo l’iniziale "Eldhaf", nove minuti di pura emozione
per un brano che è chiave di lettura per l’intero album. Voce pulita,
quasi ieratica nella declinazione delle liriche, incedere maestoso, mood
oscuro e inquieto, e un alternarsi fra accelerazioni, momenti di stasi e
cupa malinconia. Lo stesso dicasi per la conclusiva "Holskefla", in cui
la bella ed evocativa linea melodica si schianta contro un muro di
chitarre ruggenti e un aspro screaming, dando vita a dieci minuti
ipnotici, lividi, confezionati con assoluta maestria.
Non
mancano, ovviamente, momenti ancora più estremi, come la title track,
tanto feroce quanto strutturalmente complessa, o la schizofrenica
"Messa", in cui fa capolino anche un inaspettato tocco di elettronica,
ma nel complesso la scaletta è ricca di profondità emotiva e seducente
nella sua ricerca atmosferica.
Tutti
elementi, questi, messi al servizio di qualcosa di più grande della
somma delle singole parti, in cui anche i momenti più estremi sono una
colorazione fra le tante in scaletta, circostanza che consente alla band
di esplorare, di cambiare spesso registro, di evocare una serie di
panorami cinematografici ed epici, in grado di carpire immediatamente la
curiosità dell’ascoltatore.
Un
esordio, dunque, davvero riuscito, che offre un’esperienza d’ascolto
stratificata e, certo, non di facilissima fruizione, soprattutto per chi
non è aduso a certe sonorità. Se il buongiorno, però, si vede dal
mattino, è inevitabile prospettare per i Múr un futuro di sicura
rilevanza non solo nella scena islandese, ma anche internazionale.
Difficile
trovare in attività band, la cui musica abbia suscitato tante polemiche
come accaduto per gli statunitensi Slayer, una dei gruppi più noti e
seminali del movimento thrash metal.
Gli esempi si sprecano
Nel
1996 gli Slayer vennero citati in giudizio con l'accusa di aver spinto
alcuni giovani a uccidere una ragazza: la vittima era Elyse Marie
Pahler, una quindicenne assassinata il 22 luglio 1995. All'epoca, gli
assassini Roger Casey (17 anni), Jacob Delashmutt (16) e Joseph Fiorella
(15) suonavano in un gruppo ispirato agli Slayer chiamato Hatred;
i tre confessarono di aver rapito la giovane, di averla drogata,
stuprata e pugnalata a morte su un altare satanico, per poi concludere
le sevizie con atti di necrofilia. I ragazzi, dopo l'arresto, dissero di
essere stati plagiati da alcune canzoni degli Slayer come Altar of Sacrifice (contenuta in Reign in Blood), Kill Again e Necrophiliac (entrambe presenti in Hell Awaits).
Ciò indusse i parenti della povera vittima a promuovere un’azione
legale nei confronti degli Slayer e della loro etichetta discografica:
il processo terminò nel 2001, a sei anni dall'accaduto, e si concluse
con l'assoluzione del gruppo, motivata dal fatto che la legge
statunitense non può censurare la libertà di espressione musicale. Il
giudice, inoltre, non ritenne la loro musica oscena, indecente o
pericolosa per i minori.
Negli
anni successivi si è tornato a parlare degli Slayer per un fatto di
cronaca avvenuto in Italia: il 28 maggio 2004, infatti, vennero
ritrovati due cadaveri in una fossa di un bosco nei pressi di Somma
Lombardo. Le due vittime erano Fabio Tollis e Chiara Marino, uccisi da
alcuni membri di una setta chiamata Le Bestie Di Satana, di cui
i due erano parte integrante. Dopo il ritrovamento dei corpi,
iniziarono le indagini che condurranno al gruppo satanico, portando così
a numerosi arresti. Indovinate un po’: si ritiene che i feroci omicidi
commessi dalla setta furono ispirati dal brano Kill Again, ricompreso, come citato, nella scaletta di Hell Awaits.
Altri duri attacchi vennero rivolti al nono album del gruppo, Christ Illusion, che contiene un brano intitolato Jihad,
in cui si parla degli attentati dell’11 settembre dal punto di vista
degli estremisti islamici. Una presa di posizione che ha generato rabbia
da parte di alcuni parenti delle vittime della tragedia, costringendo
il chitarrista della band, Kerry King, a chiarire più volte il senso del
brano che, dal punto di vista della band, parla semplicemente delle
storture che può ingenerare la religione.
La
circostanza che più di tutte, però, ha scatenato contro la band l’ira
dei media, delle associazioni culturali e della chiesa ebraica, è il
presunto filo nazismo degli Slayer, come sembrerebbe emergere dal
frequente utilizzo di citazioni e simbologie hitleriane. Il fanclub
ufficiale del gruppo si chiama, infatti, Slaytanic Wehrmacht, termine
quest'ultimo che indicava le forze armate tedesche, il logo del gruppo
raffigura l’aquila romana, stemma presente sugli elmi dei soldati
nazisti, infine la grafia della S di "Slayer" è stata accostata al
faamigerato simbolo delle SS.
E per quanto la band abbia sempre smentito, aver scritto una canzone intitolata Angel of Death, prima traccia dal terzo album della band, Reign In Blood, non ha certo aiutato. La canzone, infatti, si riferisce a Josef Mengele (l’angelo della morte),
il crudele medico di Aushwitz che eseguì raccapriccianti e sadici
esperimenti sui prigionieri durante l'Olocausto. Apriti cielo: gli
Slayer sono nazisti, antisemiti e satanisti. Difficile far credere il
contrario, visto che Angel Of Death è tuttora oggetto di dibattito tra gli Slayer, le associazioni favorevoli alla censura e diverse organizzazioni religiose.
In
realtà, la canzone fu scritta dal chitarrista Jeff Hanneman, grande
appassionato della seconda guerra mondiale, e il cui padre, giova
ricordare, sbarcò sulle spiagge della Normandia il 6 giugno 1944,
proprio per combattere i nazisti.
L’ispirazione per il brano arrivò quando i membri della band erano in tour per promuovere Hell Awaits,
e per passare il tempo, tra una data e l’altra, si davano alla lettura
di libri tascabili comprati nelle aree di servizio. Uno di questi,
acquistato da Hanneman, parlava proprio di Mengele: da qui,
l’ispirazione per la controversa canzone.
Angel of Death
è diventata nel tempo uno dei brani più famosi degli Slayer e un
classico del genere thrash metal. A metterci mano in fase di produzione
fu l’allora giovanissimo Rick Rubin, che era il patron della Def Jam,
etichetta nel cui portafoglio, ai tempi, militavano anche i Beastie
Boys. Rubin per la produzione si avvaleva della collaborazione di una
major, la Columbia, i cui dirigenti, non appena visto il pentacolo sulla
copertina di Reign In Blood e ascoltata Angel of Death, si rifiutarono di collaborare, passando la patata bollente alla Geffen, etichetta che si fece molti meno scrupoli.
Musicalmente,
Rubin fece un lavoro straordinario: dato che gli Slayer suonavano molto
velocemente, il produttore, in fase di registrazione, lasciò
disattivato il riverbero, per evitare che il suono diventasse
un’indistinguibile poltiglia, mentre, affascinato dalla grande tecnica
di Dave Lombardo, potenziò la batteria, tenendo in secondo piano le
chitarre. Oggi, il doppio pedale e il tom fill di Lombardo su Angel Of Death sono diventati, nell’immaginario collettivo, uno dei momenti di drumming più eccitanti e famosi della storia del metal.
I
Babybird, indie rock band britannica creata dalla mente geniale del suo
leader Stephen Jones, hanno attraversato poco più di tre lustri di
storia musicale inglese, lasciandosi alle spalle undici album in studio
e, soprattutto, due canzoni che ne hanno decretato un momentaneo, quanto
labile successo: "You’re Gorgeous", hit del 1996 dall’album Ugly Beatiful e "The F-Word" (da Bugged
del 2000) diventata sigla dell’omonimo programma di cucina condotto da
Gordon Ramsey. Per il resto, i Babybird hanno sempre rivestito il ruolo
di band di culto, capace di sfornare album di valore ma dal modesto
appeal commerciale.
Pubblicato 26 anni fa, il 24 agosto 1998, There's Something Going On
non ha scalato le classifiche dell’epoca, raggiungendo solo la
ventottesima piazza delle charts britanniche, ma rimane, anche a
distanza di tanto tempo, un disco splendido, amato profondamente da
tutti coloro che hanno avuto la fortuna di ascoltarlo.
Ma
andiamo con ordine. La storia dei Babybird inizia alla fine degli anni
'80 quando Stephen Jones inizia a scrivere musica per una compagnia
teatrale sperimentale di Nottingham. Nel 1994, aveva composto la
bellezza di quattrocento canzoni, senza tuttavia riuscire ad
aggiudicarsi un contratto discografico. Consapevole del proprio talento,
Jones ha investito tutti i risparmi producendo da solo i primi quattro
album (con il nome Baby Bird, poi mutato in Babybird), fino a quando,
con il citato Uglly Beautiful il suo progetto diviene una band
vera e propria, e la sua produzione, inizialmente molto casalinga e
lo-fi, diventa più strutturata grazie al passaggio sotto l’etichetta
Echo.
Arriva
così il successo di "You’re Gorgeous", autentico tormentone che si
piazza alla posizione numero tre delle classifiche inglesi, rimanendo in
classifica per tre settimane. Una canzone, questa, caratterizzata da
una struttura semplice e da un ritornello orecchiabile, che fece spesso
associare i Babybird al movimento brit pop e che identificò la band con
connotati romantici che mai, in realtà, gli sono appartenuti. Quello che
a un orecchio poco attento poteva apparire come una canzone d’amore,
era in realtà cinica e caustica, dal momento che racconta la storia di
un fotografo perverso che offre a una ragazza 20 sterline in cambio di
qualche scatto hot. Eppure la canzone è diventata un tormentone per
coppie innamorate, un must alle feste nuziali e un punto fermo delle
radio britanniche.
Così,
i consumatori occasionali di pop, che avevano comprato il disco,
rimasero esterrefatti dalla restante scaletta, un mix di canzoni
abbastanza inquietante che trattava di morte, di disagio, di religione,
alternando qualche melodia carina a cupi momenti lo-fi. Un disco
talmente straniante che venne argutamente rinominato "You're Gorgeous and some other songs".
Avere avuto un enorme successo pop li aveva resi imperdonabilmente poco
cool agli occhi del pubblico alternativo, mentre agli amanti
occasionali delle hit non importava molto di sentire altro da loro, dal
momento che si accontentavano di ascoltare "You’re Gorgeous" a
ripetizione. Jones avrebbe dovuto essere seduto sul trono insieme a
Albarn, Yorke, Gallagher, Cocker e tutti gli altri migliori songwriter
del Regno Unito. Invece, era solo l'autore di questo grande successo pop
e la gente non poteva prenderlo sul serio.
Ciò
di cui Jones e la sua band avevano bisogno era di bandire quel ricordo
con un album diverso, che mettesse in mostra e definisse veramente il
loro talento. Un disco più mirato e più compiuto, in cui ogni traccia
avesse vera profondità e sostanza, un album in cui l'oscurità e la luce
potessero essere combinate in modo più efficace.
Due anni dopo, nel 1998, come lancio per la promozione di There's Something Going On,
i Babybird pubblicarono un nuovo singolo, che non avrebbe potuto essere
più lontano da "You're Gorgeous". "Bad Old Man" è una canzone
scioccante, oscura, priva di ogni ammiccamento al romanticismo, il cui
testo menziona la parola pedofilo, probabilmente unica canzone al mondo
che, nonostante ciò, abbia conquistato la top 40. "Bad Old Man" si muove
lentamente, è una marcia funebre punteggiata dal suono di un pianoforte
malinconicissimo, un brano che sarebbe stato benissimo in un disco dei
Black Heart Procession e che ha come protagonista un pervertito. Ecco,
questi sono i veri Babybird, non quelli di "You’re Gorgeous".
Nonostante
fosse uno dei singoli più belli pubblicati in quell’anno, "Bad Old
Man", come prevedibile, si attestò solo alla trentunesima piazza delle
charts. Le radio, soprattutto nelle programmazioni diurne, lo evitavano
come la peste, e gli appassionati di musica, i fruitori attivi, tenevano
a distanza quella band che due anni prima incarnava l’idea di un pop
sdolcinato e buono per la truppa. Pochi mesi dopo, uscì il secondo
singolo dell'album.
Dopo
il terrificante "Bad Old Man", fu una scelta saggia fornire un netto
contrasto con la sbalorditiva "If You'll Be Mine", un brano dolce e
sognante, avvolto dalla luce luminosa di un mattino di primavera. Una
canzone meravigliosa, che suonava dannatamente U2, ma che gli U2 non
sarebbero più stati in grado di comporre. "If You'll Be Mine" esprime al
meglio il talento di Jones, abile a usare melodie dolci per mascherare
testi che sono tristi o inquietanti: in questo caso, abbiamo una storia
di amore perduto per sempre, avvolta, però, in una calda e confortante
coperta melodica.
"Back
Together" è la canzone più amata dai fan della band, misteriosa ma
stranamente spensierata, è un momento perfetto di pop barocco, intima e
calda un secondo prima, palpitante ed emozionante, quello dopo. È un
brano arrangiato e strutturato magistralmente, che delinea lo spazio in
modo brillante durante il ponte strumentale, e che si apre a un
ritornello memorabile.
Atmosferica
e vagamente spettrale è "I Was Never Here", in cui una maestosa
sequenza di accordi gira apparentemente senza meta sotto la voce quasi
colloquiale, eppure così intensamente drammatica, di Jones, prima che il
brano improvvisamene esploda come una bomba di chitarre feroci e
sferraglianti. Il ritmo è accelerato nella malata e inquietante "First
Man On The Sun", una scorribanda perversa tra ritmi di rumba e
vibrazioni drum n bass, seguita dalla cruda e delirante "You Will Always
Love Me", un brano musicalmente trasognato, che parla di uno stalker e
affronta il lato oscuro dell’amore, un tema centrale in There's Something Going On.
Lungi dall'essere sentimentali o romantiche, le canzoni di Jones
riguardano ossessione, potere, controllo, dipendenza, perversi istinti
umani ed ego maschile.
Più
focalizzato del suo predecessore in termini di liriche, l’album mette,
poi, in evidenza una ragionata diversità musicale. "The Life", ad
esempio, è un pezzo di trip-hop schizofrenico e paranoico, un po' come
se fosse suonato dagli Happy Mondays in down di anfetamine, e la
rabbiosa "All Men Are Evil" è attraversata da un groove torbido e da
versi cantati come una sinistra filastrocca, mentre una stralunatissima
armonica accresce l'urgenza già totalmente frenetica del brano.
Poi,
arriva quella che potremmo definire la miglior canzone dell'album, e
probabilmente il brano più potente che Stephen Jones abbia mai scritto.
Strutturata su una ritmica spazzolata, poche note di pianoforte e voce
in falsetto, è impossibile pensare a qualcosa di più inquietante di
"Take Me Back", il racconto straziante di uno stupro a bordo strada e i
conseguenti sentimenti di vergogna, colpa e desiderio di vendetta. La
versatilità di Jones come cantante è qui esibita in modo spettacolare,
la sua voce si eleva da sussurro inquietante a urlo trattenuto ma
schizofrenico, mentre l'atmosfera seducente e angosciante prende
possesso dell'ascoltatore, trasportandolo in una dimensione da incubo.
Un
brano così teso, che la successiva, lunga e dolente "It's Not Funny
Anymore" suona come un momento di sollievo al confronto: un'altra
scintillante ballata lo-fi basata su synth lacrimosi e loop di batteria
sovrapposti, e che si libra verso il cielo quando raggiunge il suo lungo
e commovente outro. Fornisce un ideale penultimo climax prima che
questo straordinario disco si concluda in modo sottile e delicato con la
title track, scarna e leggera, ponendo il suggello a un intenso viaggio musicale intitolato "There's Something Going On".
Cosa
è successo dopo? L'album è stato ben accolto dalla critica ma ha
venduto modestamente, raggiungendo il numero 28 nelle classifiche degli
album del Regno Unito. All'inizio dell'anno seguente, una versione
remixata di "Back Together" entrò nella classifica dei singoli al numero
22. L'album successivo Bugged ebbe molto meno successo, non arrivando nemmeno nella Top 100, con il risultato che la band dovette arrendersi.
Stephen
Jones lavorò ad altri progetti e pubblicò un disco da solista, prima di
riformare il gruppo nel 2005 e pubblicare altri tre album, uno dei
quali con un'apparizione come ospite di Johnny Depp alla chitarra.
L’avventura Babybird si sarebbe conclusa di nuovo nel 2012, con Jones
che tornò alle sue radici lo-fi e pubblicò un'enorme quantità di musica
fatta in casa sotto vari alias tramite la sua pagina Bandcamp. Solo
pochi anni dopo avrebbe ripreso in mano il progetto Babybird per la
terza volta, riportando la band in tour e pubblicando una serie di album
in edizione limitata.
Cinquant’anni
compiuti lo scorso anno, Mark Tremonti è una figura iconica dell’hard
rock/heavy metal, oltre a essere considerato uno dei migliori
chitarristi di genere in circolazione. In tre decenni circa di attività
ha venduto milioni di dischi, frutto della sua militanza nei Creed, band
post grunge che fece il botto con il best seller Human Clay
(1999), negli Alter Bridge, di cui è tutt’ora co-leader insieme a
Myles Kennedy, e grazie a una carriera solista tutta di livello, che ha
raggiunto il suo apice quattro anni fa con il celebrato Marching In Time (2021).
Oggi,
messa momentaneamente in stand by l’attività con gli Alter Bridge, il
chitarrista torna con il suo sesto album solista, non proprio un
concept, ma un disco la cui scaletta è tenuta insieme dal fil rouge
di riflessioni profonde sul male di vivere dei giorni d’oggi,
sull’odierna condizione umana, su un mondo che va progressivamente alla
deriva. Sono le scelte degli uomini a determinare il futuro della
società, scelte che non possiamo sapere se giuste o sbagliate, se non
alla fine, quando si sono realizzate. E’ la fine che ci mostra il
risultato delle nostre azioni, è ciò che si è compiuto che svela il bene
o il male delle nostre decisioni, da cui dovremmo imparare, anche se in
realtà non impariamo mai niente.
C’è
disillusione e pessimismo nelle liriche del disco, che si riflettono,
poi, sul mood della musica, in cui non mancano ritornelli catchy, ma che
inevitabilmente tende a essere oscura, per quanto non opprimente, e a
richiamare pensieri malinconici, anche quando il tiro si fa potente.
The End Will Show Us How
è un disco in cui hard rock e metal, spinti dai consueti riff ad alto
contenuto energetico, si intrecciano con ritornelli melodici, in un
impianto solido, apparentemente monolitico, dal suono reso omogeneo e
coerente dalla produzione del solito Michael “Elivis” Baskette. Si
fatica un po’ all’inizio a entrare in sintonia con un disco che sembra
privo di guizzi distintivi, ma ascolto dopo ascolto, s’innesca la miccia
emotiva, si coglie la profondità della scrittura di canzoni tutte
buone, alcune davvero di livello. La band picchia con la consueta forza,
creando lo sfondo perfetto in cui emerge la chitarra di Tremonti, che
evita inutili sbrodolamenti, centellinando gli assoli, tutti peraltro
davvero ficcanti, e una voce notevole, a volte plasmata sul timbro
dell’amico Myles Kennedy, ma sempre sicura, sfaccettata, perfettamente a
suo agio sia nei momenti più aggressivi che in quelli riflessivi.
Dodici
canzoni, per quasi un’ora di musica, che parte alla grande con "The
Mother, The Earth And I", brano dagli evidenti intenti ecologisti,
costruito come da manuale: intro in crescendo, riff arcigno, ritmica
martellante e una melodia oscura che si schiude in uno dei ritornelli
più immediatamente assimilabili del disco.
Non
mancano, poi, evidenti riferimenti alla musica degli Alter Bridge come
in "Just Too Much" (Tremonti si incarna perfettamente in Kennedy), un
brano dal groove trascinante e dalla complessa architettura melodica. E
se "One More Time" e "Nails" rappresentano il lato più metal e
agguerrito del disco (ma fate sempre attenzione alle linee armoniche,
splendidamente centrate), la superba "Now That I’ve Made It" recupera
antiche scorie grunge riconducibili ai Creed e piazza un ritornello di
cupa bellezza.
Sono
da menzionare anche la conclusiva, insolita, "All The Wicked Things", i
cui synth iniziali e il cantato baritonale di Tremonti fanno venire in
mente addirittura gli Editors, salvo poi virare verso ruvidità hard rock
e un solo finale da pelle d’oca, e la title track, la migliore del
lotto, una ballata atmosferica, che stringe il cuore in una morsa di
arresa malinconia.
Mark
Tremonti, ma questo già si sapeva, dimostra per l’ennesima volta di
aver raggiunto una maturità artistica che gli permette di brillare in
solitaria anche lontano dalla casa madre, grazie a canzoni che si fanno
ricordare non solo per le sue abilità tecniche, ma anche per una
scrittura appassionata e mai ovvia. Con The End Will Show Us How, questo 2025, al momento parco di uscite di rilievo, non poteva iniziare meglio.
Songs For Beating Hearts
è un disco che rimanda al prog degli anni d’oro, non solo nelle
intenzioni o concettualmente, quanto semmai nel suono clamorosamente
vintage e in un approccio che scarta ogni modernità in favore di una
visione squisitamente settantiana. Spesso accostati ad alcuni gruppi
prog metal che oggi vanno per la maggiore, gli svedesi Beardfish non
hanno mai abbracciato sonorità estreme, preferendo rendere omaggio, e
mai come in questo nuovo album, agli eroi musicali conosciuti attraverso
i dischi di papà.
Dopo
lo scioglimento nel 2016 e gli anni oscuri della pandemia globale, la
band ha trovato nuovi stimoli per continuare a camminare sulla stessa
strada, e così Rikard Sjöblom, David Zackrisson, Magnus Östgren e Robert
Hansen hanno ricominciato la loro storia esattamente da dove l’avevano
interrotta. Hanno iniziato così a lavorare su materiale che era rimasto
nei cassetti, arricchendolo di nuove idee, fino al risultato finale
rappresentato dalle sette canzoni in scaletta (per un’ora circa di
minutaggio), tra le migliori del loro songbook.
"Ecotone",
la canzone che apre il disco è pura magia, è uno di quei brani che
hanno il merito di farsi ricordare fin dal primo ascolto e che girano in
loop sul piatto dello stereo. La canzone inizia con un arpeggio
acustico, la melodia è dolcissima, la voce di Amanda Ortenhag (che
accompagna quella di Rikard Sjöblom) rende l’atmosfera sognante ed
evocativa, mentre un’acidula chitarra innerva il brano sottotraccia di
brevi scariche elettriche. Un numero di prog folk a dir poco perfetto,
che può rimandare tanto ai leggendari Fairport Convention quanto ai più
recenti Midlake.
Non
appena "Ecotone" evapora, inizia il corpus centrale dell’opera, "Out In
The Open", una complessa suite che coagula in poco più di venti minuti
tutto il progressive dei giorni leggendari. Un canzone splendida e
splendidamente suonata, che alterna accelerazioni e momenti di stasi, e
che rappresenta una piccola sfida agli appassionati di prog per
riconoscere le varie sonorità citate, che vanno dagli Yes di "Fragile"
agli Emerson Lake & Palmer di "Tarkus".
Archi
barocchi aprono "Beating Heart", ma dopo poco il brano si accende di
elettricità (e qui vengono in mente i King Crimson), salvo poi
svilupparsi tra continui sali scendi in un intreccio perfettamente
riuscito fra folk, prog e hard rock che si sublima in una straniante
coda orchestrale. "In the Autumn" inizia mostrando le indubbie capacità
tecniche della band e si sviluppa poi attraverso sonorità più leggere
dalle vaghe reminiscenze californiane.
Dopo
un breve intermezzo strumentale ("Ecotone Reprise"), il disco si chiude
con "Torrential Downpour", lunga ballata dai sentori autunnali a
cavallo fra folk e prog, e "Ecotone Norrsken 1982", una sorta di
sralunato esperimento elettronico, che sembra citare Alan Parson, in
netta controtendenza con il resto della scaletta.
Songs For Beating Hearts
è un disco totalmente anacronistico, legato a doppio filo a un mondo
musicale che oggi vive, attraverso un diverso linguaggio, una seconda
giovinezza. I Beardfish, però, preferiscono lo studio delle lettere
antiche, si immergono nei grandi classici e cercano di restituirli alla
luce. Un compito complesso ma decisamente riuscito, una manna dal cielo
per schiere di progster nostalgici, la cui comfort zone è rimasta
saldamente ancorata agli anni ’70.
C’è
un dolore nel dolore, quando si tratta di dipendenza, e si chiama
solitudine. Quella sensazione di sprofondare nel baratro senza una mano
pronta ad afferrarti, la fatica di affrontare i fantasmi in una lotta
impari senza una voce di conforto, e perdersi nel buio di un lunghissimo
tunnel senza una luce che, là in fondo, indichi la strada della
speranza, o un orizzonte di salvezza. Dipendere è far entrare in casa un
nemico implacabile, che ci inganna con subdola astuzia, mentre teniamo
lontano chi ci ama davvero. Per paura, per vergogna, per una stupida ed
esiziale forma d’orgoglio.
Sono queste riflessioni che aveva in testa Tom Walker che scrisse Leave A Light On,
una canzone che il songwriter compose per un caro amico che lottava
contro la dipendenza dalla droga: un invito a cercare aiuto, un offerta
di disponibilità attraverso l’immagine di una luce accesa, simbolo di
conforto, di affetto, di fratellanza.
Non lasciarti andare
Mantieni la presa
Se guardi in lontananza, c'è una casa sulla collina
Che ti guida come un faro
In un posto dove sarai sicuro di sentire la nostra grazia
Perché tutti abbiamo commesso degli errori
Se hai perso la strada
Lascerò la luce accesa
Successivamente
alla pubblicazione della canzone, Walker spiegò che il suo amico stava
attraversando un periodo davvero buio e di aver scritto la canzone per
fargli sapere che non era solo. Sebbene ispirata a un fatto personale,
la canzone ha un significato più ampio e si rivolge a chiunque si sia
lasciato intrappolare da una dipendenza di qualsiasi tipo. Fu sempre
Walker a spiegarlo con chiarezza: "Tutti quelli che conosco, me
compreso, a un certo punto della loro vita hanno lottato con qualche
forma di dipendenza, che si tratti di bere troppo o mangiare
troppo…Volevo solo scrivere questa canzone per la mia famiglia e per
tutti i miei amici, per far sapere loro che possiamo parlarne."
Tom
Walker scrisse la canzone collaborando con Steve Mac, un abile
produttore che aveva messo mano a numerosi singoli e album spacca
classifiche per artisti come Westlife (Flying Without Wings), The Wanted (Glad You Came), Clean Bandit (Symphony) e Ed Sheeran (Shape Of You).
La coppia era stata messa in contatto grazie all’etichetta di Walker,
il quale, però, non conosceva la caratura di hitmaker di Mac, che scoprì
solo in seguito, circostanza, questa, che gli procurò non poco
imbarazzo, visto che lui era solo un musicista alle prime armi.
La
canzone è stata originariamente pubblicata nel Regno Unito il 13
ottobre 2017 e all'inizio ha fatto fatica a sfondare. Nel frattempo,
però, stava decollando oltre Manica, raggiungendo la vetta della
classifica dei singoli francesi nel marzo 2018. Ha anche raggiunto la
Top 10 in diversi altri paesi europei, tra cui Austria, Belgio,
Germania, Svizzera, mentre l’album che la conteneva, What a Time to Be Alive, pubblicato a marzo del 2019, divenne disco d’oro anche in Italia. Solo più tardi, Leave a Light On ha finalmente raggiunto la Top 40 del Regno Unito, nel maggio 2018.
Francese
di Poitiers, nata nel 1995 con il nome di Sowat, poi trasformato
nell’attuale Klone nel 2003, la band transalpina veste abiti mutevoli,
che l’hanno portata, disco dopo disco (siamo all’ottavo in studio) ad
affinare il proprio suono. I Klone, infatti, hanno pubblicato il loro
album di debutto, Duplicate, poco più di 20 anni fa, e di acqua
sotto i ponti ne è passata parecchia. Quello, infatti, era un album dai
riff vorticosi e dalle ritmiche complesse, che aveva molto in comune
con la musica dei conterranei Goijra, al netto di qualche momento
decisamente più melodico.
E’ da questi spunti melodici, poi, che ha preso forma la lunga trasformazione della band, che da Le Grand Voyage
del 2019, ha mitigato frenesia e aggressione, dando più importanza alla
dimensione progressive e rock della proposta, che è diventata
preponderante nel penultimo, bellissimo, Meanwhile, e definitiva in questo nuovo The Unseen.
Il
passaggio dalla Kscope, etichetta votata al prog, alla Pelagic Records
non ha sviato la band dal percorso intrapreso, e questo nuovo disco ha
relegato furia e potenza a momenti residuali, ponendo ulteriormente
l’accento su eleganza formale e arrangiamenti sofisticati, e accorciando
il minutaggio della scaletta, declinata, peraltro con la solita
clamorosa perizia tecnica.
I sei, insomma, non hanno mai suonato sicuri ed eleganti come in questo album, aperto dalla magnifica Interlaced,
un brano dal retrogusto alternative anni ’90, rotondo, quasi solare, se
non fosse per quel sentore malinconico che si fa preponderante nella
seconda parte di canzone, attraversata da svolazzi di sax che innalzano
la tensione.
L’approccio
sonoro della band alterna momenti intensi ad altri più intimi, e la
voce del frontman Yann Ligner si adatta perfettamente a una musica che
spesso, come nella title track, procede quasi istintiva, morbida e
carezzevole, fino al momento catartico in cui prende vita un crescendo
distorto, disturbato da riff post hard core e avvolto da inquietanti
tastiere. Un brano, l’unico, che evoca vagamente il passato della band,
soprattutto nel finale quando il suono si fa arcigno, seppur declinato
con la consueta eleganza espressiva.
Come dicevamo, rispetto al predecessore, The Unseen
è un disco più raccolto, dura poco più di quaranta minuti e le canzoni
sono solo sette. Non serve di più per esprimere con consapevolezza un
suono che ha trovato la sua definitiva dimensione, attraverso canzoni
che funzionano tutte, sia nel rock sinistro di "Magnetic", sia nella
tensione latente di "After The Sun", che si aggira per territori post
rock, sia nella lunga, ondivaga e conclusiva "Spring", in cui le
atmosferiche placide e il drumming leggermente in controtempo trovano
accelerazione in un climax sferragliante in crescendo, che, poi, si
dissolve nel liquido amniotico di una coda strumentale avvolta in un
aura psichedelica.
The Unseen
sancisce, dunque, la definitiva evoluzione della band francese, che ha
quasi del tutto cancellato la parola metal dal proprio lessico, in
favore di composizioni prog rock moderne, intelligenti, ricche di
spontaneità e sentimento, in perfetto equilibrio fra adulta espressività
e suggestiva immaginazione. Manca il singolo che può competere sul
mercato, ma in fin dei conti, poco importa. Questo disco è bellissimo
anche così.
Nato durante i giorni bui della pandemia, il progetto Lu’s Jukebox
è composto da una serie di dischi con cui Lucinda Williams omaggia gli
artisti che l’hanno maggiormente influenzata. Le pubblicazioni
precedenti hanno visto la songwriter della Lousiana cimentarsi con la
musica di Bob Dylan e dei Rolling Stones, con il Southern Soul, con una
raccolta a sfondo natalizio e con una rivisitazione delle canzoni
dell’amico Tom Petty.
Con
questo nuovo episodio della serie, la Williams affronta quello che è
decisamente il repertorio apparentemente più lontano dalla sua
sensibilità. L'eclettico catalogo pop - rock dei Beatles potrebbe
infatti non sembrare una scelta logica per la settantunenne cantante
americana, che generalmente percorre strade secondarie più oscure e
americanizzate. Eppure, a dispetto di tutto, la voce cupa, languida,
paludosa e strascicata della Williams si collega sorprendentemente bene a
queste composizioni firmate dalle divinità Lennon-McCartney (e Harrison). Registrare
il disco, poi, ai mitici Abbey Road, ha aiutato a infondere nel
progetto tutto il fascino degli anni '60, che ancora aleggia tra quelle
iconiche mura.
E’
curioso come, tra l’altro, il disco sia stato registrato in soli due
giorni, a causa dei ritmi serrati del tour della musicista e della
disponibilità degli studi, e visto il risultato qualitativo finale si
può affermare di essere di fronte a un mezzo miracolo.
Non
tutte le ciambelle sono venute col buco: "Can’t Buy Me Love", brano
tratto dal periodo più orientato al pop, sembra un po’ lontano dalle
corde della Williams che si limita ad americanizzarla, senza grandi
risultati, "Let It Be", una vera montagna da scalare, è riproposta in
modo fedele, senza guizzi e, sempre a parere di chi scrive, l’iniziale
"Don’t Let Me Down" suona un po’ debole rispetto all’originale.
Il
resto, però, funziona davvero bene, a partire da una "While My Guitar
Gently Weeps" decisamente da brividi, e dalle ottime rivisitazioni,
queste si, davvero nelle corde della songwiter, di "I’m So Tired" e "Yer
Blues". Stupisce, poi, la scelta di "I'm Looking Through You" di
McCartney, la canzone meno nota del lotto, che la Williams rallenta per
enfatizzare la tensione di una storia d’amore al collasso.
In
genere, gli arrangiamenti non si allontanano troppo da ciò che siamo
stati abituati ad ascoltare negli ultimi cinquant’anni di rivisitazioni.
Le ballate "Something", la citata "Let It Be" e la conclusiva "The Long
and Winding Road" sono ridotte all'essenziale, lasciando che la voce
espressiva della Williams coaguli tutte le emozioni che si provano a
riascoltare canzoni baciate dal dono dell’eternità.
L’attitudine soul infusa nel meno noto brano dell'album Let It Be,
"I've Got a Feeling", è messa in luce da vortici di organo che
conducono a un assolo di chitarra bruciante, mentre la rilettura di
"With a Little Help from My Friends" ricorda più l’interpretazione di
Joe Cocker che quella contenuta in Sgt. Pepper.
Questo nuovo capitolo dei Lu’s Jukebox,
così come dev’essere, non aggiunge e non toglie nulla alla storia dei
Beatles e a canzoni che vestono già la perfezione nella loro dimensione
originale. Tuttavia, la Williams riesce nella magia di conciliare due
mondi apparentemente agli antipodi, restituendo all’ascolto nuove
emozioni grazie alla sua fisicità e al timbro inconfondibile di una voce
che, qualunque cosa canti, riesce sempre a toccare le corde del cuore.
Multimilionaria
star del rap e acclamato attore, tanto cinematografico quanto
televisivo, il sessantaseienne Ice-t potrebbe godersi una ricca pensione
sotto il sole della sua Los Angeles. E invece, questo ragazzaccio che
ha più polemiche alle spalle che capelli in testa, continua a tenere
viva la propria carriera attraverso i Body Count, il suo progetto più
ostico, militante, rabbioso e decisamente meno appetibile da un punto di
vista commerciale.
Dai
tempi di quella "Cop Killer" (1992), singolo che sollevò uno tsunami di
critiche, coinvolgendo addirittura l’allora Presidente degli Stati
Uniti, George Bush, il rapper californiano non ha smesso di stare sulle
barricate, di polemizzare con il potere, di professare il suo credo
antagonista senza mezze misure, a volte esagerando, ma sempre con
invidiabile coerenza.
Non è da meno questo nuovo Merciless,
uscito quasi in concomitanza con l’elezione di Trump e come di consueto
focalizzato su temi che, purtroppo, non smettono di essere attuali,
come il razzismo, la violenza della polizia nei confronti dei cittadini
di colore, l’indiscriminata circolazione delle armi, foriera di violenza
e dolore.
Ice-T
non è certo un innovatore e la formula dei suoi dischi è immutabile:
rabbia, ai limiti della ferocia, un mood cupo e pessimista, e un
armamentario rap metal, insensibile alle mode, totalmente amelodico e
pronto a saltare alla giugulare dell’ascoltatore con intenti esiziali e
bellicosi.
Anche
in questo caso, poi, non manca la pletora di ospiti illustri necessaria
a innervare di ulteriore energia i brani in scaletta: Joe Bad dei Fit
For An Autopsy, Max Cavalera dei Soulfly, Howard Jones, ex Killswitch
Engage, George Fisher dei Cannibal Corpse e, udite udite, David Gilmour
(ma su questa ospitata torneremo a breve).
Come
detto, non ci sono novità in un suono ostico, violento, inossidabile,
che declina una materia nota senza molta originalità, ma con un tiro che
non ha perso un grammo di smalto nel corso dei decenni. La band è in
palla, Ice-T rappa come un califfo, e l’approccio è gagliardo, possente,
tirato a lucido dalla produzione di Will Putney (un’autorità in fatto
di metal) e da una freschezza emotiva più consona a un ventenne che a un
navigato musicista prossimo alla settantina.
Nemmeno
un filler, in scaletta. A partire dalla devastante sassaiola
death/trash di "The Purge", roba da fa saltare il padiglioni auricolari
al più allenato metallaro, tutto funziona benissimo: la furia trash di
"Psycopath", l’hip hop corazzato di "Fuck What You Heard" (violento
j’accuse al sistema politico americano), l’incedere spietato di "Live
Forever", appena ammorbidito dal ritornello pulito cantato da Howard
Jones, il nu metal classicissimo di "Lying Motherfucka" o lo speed
supersonico di "Drugs Lords".
Come consuetudine per i Body Count, e qui torniamo al citato David Gilmour, anche in Merciless
non manca la cover. Nello specifico Ice-T ha scelto "Comfortably Numb"
dei Pink Floyd, di cui ha riscritto interamente il testo,
reinterpretandola in chiave rap. Questa rilettura, apriti cielo, ha
scatenato parecchie polemiche fra i puristi, indignati come se si fosse
bestemmiato in chiesa. Ognuno la veda un po’ come vuole. Personalmente,
trovo la cover ben fatta e concettualmente apprezzo di più chi, anche
di fronte a un brano iconico, decide di reinterpretarlo alle sue
condizioni, invece di arrendersi a un frusto copia incolla. Chi,
sicuramente, ha gradito molto è lo stesso Gilmour, il quale non solo ha
dato il benestare a Ice-T, ma ha fattivamente partecipato alla
realizzazione del brano tessendolo attraverso le trame della sua
inossidabile chitarra, con un lavoro di scintillanti precisione e
potenza.
I
Body Count continuano a picchiare duro senza compromessi, non cercano
di forzare il proprio linguaggio a favore di un pubblico più ampio e si
tengono lontani dai territori dell’originalità. Eppure, questi
combattenti di lungo corso, dimostrano per l’ennesima volta di saper far
convivere la forza bruta della loro musica con cuore e sentimento,
tetragoni nel divulgare il proprio appassionato pensiero politico e la
propria inesausta militanza. Lo facessero tutti, forse sarebbe un mondo
migliore.
«Era
quello il problema, quando le donne si disamoravano; il velo di
romanticismo che avevano davanti agli occhi cadeva, e quando guardavano
oltre erano in grado di leggerti dentro». Dall’autrice di “Piccole cose
da nulla” e “Un’estate”, una fotografia inquieta e perturbante delle
relazioni tra uomini e donne. Un giorno, tornando dal lavoro, Cathal
trova la casa vuota. Eppure era tutto pronto per il matrimonio, che cosa
è andato storto? Soprattutto, di chi è la colpa? Una scrittrice prende
possesso della residenza dove trascorrerà un breve ritiro, la stessa in
cui Heinrich Böll ha lavorato ai suoi diari. Sembra lo scenario
perfetto, almeno fino a quando la presunzione di un uomo non getterà
un’ombra su quei giorni. Una «donna felicemente sposata» cerca
un’avventura, vuole provare il sesso con un altro. Ritroverà il brivido
dell’eccitazione, ma a quale prezzo?
Dopo aver letto le ottanta pagine di questo nuovo Quando Ormai Era Tardi,
è evidente, anche al più distratto dei lettori, che qualcosa nel cuore
di Claire Keegan è cambiato. L’impressione è che il suo asse emotivo si
sia inclinato repentinamente, facendo pendere il mood della narrazione
verso un terreno prima inesplorato, dove l’odio, il dolore, la violenza e
la recriminazione abbiano attecchito con radici invasive.
Se, infatti, Un’estate raccontava la lenta, sommessa, ma inesorabile crescita di un amore capace di curare le ferite del più profondo dei dolori, e Piccole Cose Da Nulla
narrava il percorso di consapevolezza di un uomo buono, che mette a
repentaglio il proprio avvenire per fare la cosa giusta, sgretolando con
un atto di coraggio l’ipocrisia di una società cattolica basata su un
perbenismo di facciata, Quando Ormai Era Tardi è solo ed
esclusivamente zona di guerra, un luogo desolato in cui la speranza è
morta e restano cumuli di macerie, che restituiscono una fotografia
respingente e cruda, ma estremamente realistica, dei rapporti fra uomo e
donna.
Ottanta
pagine, dicevamo, per tre racconti che lasciano senza fiato in uno
stato di attonita prostrazione, perché ogni riga trabocca di un odio
ancestrale e subdolo, in un’antitesi manichea in cui non esistono il
bene e il male, il buono o il cattivo, ma soltanto i protagonisti di una
messa in scena livida, marionette senz’anima di relazioni private non
solo di ogni connotato affettivo, ma anche, e soprattutto, di ogni
pudore etico.
Uomini
mediocri, nocchieri di vite di piccolissimo cabotaggio, intimamente
misogini e violenti: un impiegatuccio rozzo, anaffettivo e tirchio, un
professore di tedesco invidioso e inacidito dalla vita, l’avventore di
un bar, apparentemente placido e affabile, che in realtà nasconde
un’anima nerissima. Tre figure apparentemente grottesche, se non fosse
che la realtà le ha restituite ai nostri occhi decine di volte, che
entrano in contatto con un mondo femminile tutto sommato desolante, le
cui protagoniste sono mezze figure, clichè spersonalizzati, egocentriche
e moralmente labili.
Il
conflitto è inevitabile, la violenza arde silenziosa sotto le ceneri di
un fuoco apparentemente inoffensivo, ma che improvvisamente divampa con
conseguenze esiziali, anche se non una sola goccia di sangue viene
versata. Lo sguardo cinico della Keegan analizza e seziona, sonda il
profondo di queste sei anime perse, senza però schierarsi. Il risultato è
una messa in scena avvilente, in cui la speranza nel prossimo, che
aveva animato i due precedenti romanzi, è totalmente adombrata
dall’evidenza inquietante di un’umanità senza futuro, cristallizzata in
un hic et nunc vuoto, nichilista e sconfortante.
Un
libro nero come la pece, in cui, ancora una volta, la straordinaria
prosa della scrittrice irlandese vince a mani basse. Una scrittura che
si serve di parole calibrate, taglienti e asciutte, che nella loro
apparente povertà creano immagini indelebili (il finale dell’ultimo
racconto vale da solo l’acquisto del libro), dando vita a ogni minimo
particolare visivo, e coinvolgendo il lettore in una lettura che è anche
olfatto, tatto, gusto e udito. L’ennesimo, coinvolgente libro di una
scrittrice destinata a diventare un classico, e che dopo averci gonfiato
il cuore d’amore, ora sceglie di raccontarci il male. Quello con la m
minuscola, quello ordinario e quotidiano, un virus che infetta l’anima, e
che la società odierna, col suo moralismo solo di facciata, non smette
di insufflare nelle nostre vite.
Un
mondo antico che non esiste più, quello delle lettere e delle
cartoline, un mondo di attesa, avanguardia palpitante della lentezza. I
lettori più attempati si ricorderanno quei giorni di batticuore, passati
ad attendere la scampanellata del postino, i palpiti che precedevano la
lettura di parole vergate a mano, scritte da un amore o un amico
lontani dai nostri occhi, ma non dal nostro cuore. Oggi, il romanticismo
sotteso agli scambi epistolari è svanito per sempre, sostituito dal qui
e ora dei social, degli smartphone, dalla stilizzata banalità degli
emoticon, che non porteranno mai in dono il profumo della carta,
dell’inchiostro, di una lacrima di struggimento, che bagna una lettera
d’addio o di un impossibile amor di lontananza.
Please Mr. Postman
delle Marvelettes racconta, con ingenuità e trasporto, quei giorni di
attesa e batticuore, che i giovani di oggi non comprenderanno mai, e il
cui ricordo è affilato come un pungolo nostalgico nel cuore di chi, quei
tempi andati, li ha vissuti:
“Ci deve essere qualche parola oggi
Dal mio ragazzo così lontano
Per favore, signor postino, guardi e veda
C'è una lettera, una lettera per me
Sono rimasta qui ad aspettare il signor Postino
Con tanta pazienza, solo per un biglietto o solo per una lettera
Dicendo che sta tornando a casa da me”
Le
Marvelettes erano cinque ragazze adolescenti di Inkster, Michigan, la
cui esperienza in musica si limitava ai cori nelle chiese locali. Quando
fecero la prima l'audizione per la Motown, l'etichetta non era ancora
dotata di propri songwriter, e quindi i manager, che avevano apprezzato
le doti vocali del quintetto, offrirono un contratto alle ragazze, a
patto che portassero del loro materiale da registrare. William Garrett,
un cantautore amico di una di loro, Georgia Dobbins, offrì alle
Marvelettes proprio quel brano che poi sarebbe diventato Please Mr. Postman.
Garrett aveva inizialmente concepito la canzone come un blues, ma la
Dobbins ci mise mano, la riscrisse completamente (salvò solo il titolo) e
la insegnò alla cantante Gladys Horton.
Prima
che le Marvelettes lo registrassero, Dobbins, però, lasciò il gruppo
per prendersi cura della madre malata, e furono i produttori della
Motown, Robert Bateman e Brian Holland (che insieme a suo fratello Eddie
e Lamont Dozier, scrisse molti altri classici della Motown) a tirare a
lucido il brano e trasformarlo in un grande successo.
Incredibile,
ma vero, Marvin Gaye, che ai tempi aveva ventidue anni e stava cercando
di affermarsi nel mondo della musica, venne assunto per suonare la
batteria nel brano, alla cui stesura definitiva, poi, contribuì un vero e
proprio postino. Il suo nome era Freddie Gorman e il suo percorso
quotidiano per la consegna della posta includeva le case popolari di
Brewster, dove vivevano i membri delle Supremes. Gorman, che era un
grande appassionato di musica, divenne più tardi voce del gruppo Motown,
The Originals, e, prima della morte avvenuta nel 2006, fu songwriter e
produttore per l’etichetta di Detroit, che con Please Mr. Postman guadagnò la sua prima piazza nelle classifiche americane.
D’altra
parte, l'attesa di una lettera e altre storie legate alla posta erano
comuni nelle canzoni di quest'epoca, quando il servizio postale forniva
un mezzo di comunicazione primario (pensate a Return To Sender, che fu una grande hit di Elvis l'anno dopo). Non è un caso, allora, che il singolo successivo delle Marvelettes, Twistin' Postman,
nel tentativo di replicare il successo, raccontava più o meno la stessa
storia, quella, cioè, di una donna che aspetta una lettera dal suo
ragazzo, e che dopo aver perso la speranza, finalmente riceve l’agognata
missiva.
Il brano, visse una nuova vita di successi il decennio successivo, quando i Carpenters, ne fecero una cover per il loro album Horizon del 1975. Con Karen Carpenter alla batteria e un fantastico assolo di chitarra di Tony Peluso, Please Mr. Postman,
in questa nuova versione, è stato il più grande successo dei Carpenters
di sempre a livello mondiale, raggiungendo il primo posto negli Stati
Uniti, Australia, Germania, Giappone e molti altri paesi, oltre a
guadagnare la seconda piazza nelle classifiche del Regno Unito e del
Canada.
Quella
degli House Of Lords è una gloriosa storia hard rock che si dipana nel
corso di quasi quarant’anni, a partire dal 1988, quando cinque musicisti
losangelini, provenienti da diverse esperienze, pubblicarono, sotto
l’egida di Gene Simmons, bassista dei Kiss, il loro album d’esordio, che
ottenne un buon riscontro sia di pubblico che di critica.
Da
qui in avanti, la parabola artistica della band fu punteggiata da
numerosi cambi di line up e dallo scioglimento avvenuto nel 1993, che
mise in stand by il gruppo fino al 2004, quando uscì nei negozi il disco
della resurrezione, The Power And The Myth.
Trascorsi
quattro decenni, oggi l’unico membro originale degli House Of Lords è
il cantante e bassista James Christian, a cui si sono affiancati Jimi
Bell alla chitarra, Mark Mangold alle tastiere e Johan Kolemberg alla
batteria. Ciò che non è mai cambiato, nonostante il passare del tempo, è
la classe della band nel declinare la materia Aor e Hard Rock con
immutato trasporto, e la qualità dei dischi pubblicati, sempre
all’altezza di un nome che, negli anni, pur non uscendo dallo status di
gruppo di culto, non ha perso un briciolo del proprio appeal.
Full Tilt Overdrive,
a dispetto di una copertina non proprio attraente, è l’ennesima buona
prova di una band che non ha perso smalto ed è rimasta ancorata a una
forma espressiva pressochè immutabile nel tempo, il cui suono continua a
costruirsi intorno ad accattivanti melodie, suntuosi tappeti di
tastiere e riff di chitarra adrenalinici; tanto che, quando parte
l’iniziale "Crowded Room", con le sue armonie, gli hook e il
suo riff arrembante, la sensazione è quella di trovarsi di fronte a un
inossidabile marchio di fabbrica.
Se
la formula è ormai consolidata, non mancano tuttavia le canzoni, tutte
decisamente buone: "Bad Karma" è il manuale d’istruzioni su come
scrivere la perfetta canzone Aor, la title track è una sgasata a cento
all’ora che ricorda i Deep Purple di "Highway Star", "Taking The Fall",
con il suo retrogusto country blues, fa il verso al Bon Jovi di "Dead Or
Alive", mentre gli accenni orrorifici che contornano "You’re Cursed"
nulla tolgono alla potenza melodica di un brano tagliato in due da un
assolo spettacolare di Jimi Bell.
Se "Not The Enemy",
con il suo vestito metal moderno, è un po’ fuori contesto, la power
ballad "I Don’t Want To Say Goodbye" riporta immediatamente le
suggestioni all’arena rock con vista anni ’80. Il disco, poi, si chiude
con i nove minuti abbondanti di "Castles High", una lunga suite
costruita come un brano progressive e contraddistinta dalla consueta
ottima melodia.
C’è mestiere e consapevolezza, in questo nuovo Full Tilt Overdrive,
ennesimo capitolo di una band che ha dribblato le ingiurie del tempo e
che continua a sfornare dischi, forse non indispensabili, ma di sicuro
pregio. Gli House Of Lords non tentano strade alternative, non
stupiscono per originalità, ma gli va dato atto di sapere come si scrive
un’accattivante canzone rock. Basta poco a renderci felici.
In
ormai vent’anni di carriera, Ray La Montagne è diventato un nome
fondamentale per il folk rock di matrice americana. Basta dare un breve
sguardo al suo curriculum per rendersi conto di quanto, anno dopo anno, è
accresciuta la grandezza artistica del songwriter originario di Nashua,
New Hampshire.
Il suo debutto del 2004, Trouble, è stato certificato disco di platino, mentre Till the Sun Turns Black del 2006 e Gossip In The Grain del 2008 hanno ottenuto certificazioni d'oro. Sempre per Per Trouble,
LaMontagne ha vinto quattro premi, tra cui tre Boston Music Awards
(miglior cantante/compositore maschile, album dell'anno e canzone
dell'anno) e un XM Nation Music Award per l'artista rock acustico
dell'anno. Ha ricevuto anche una nomination ai Pollstar Concert Industry
Awards come miglior nuovo artista in tournée, un BRIT Award come
artista emergente a livello internazionale, un MOJO Award come miglior
nuovo artista e, nel 2006, gli è stato conferito il titolo di miglior
voce da Esquire. LaMontagne ha ricevuto, inoltre, due nomination ai
Grammy e ha vinto il premio per il miglior album folk contemporaneo per God Willin' And The Creek Don't Rise del 2010. Un pedigree decisamente impressionante.
Ciò
nonostante, LaMontagne ha scelto di stare lontano dai riflettori e
dalla celebrità, continuando a scrivere splendide canzoni, senza
svendere la propria arte alle mode e alla visibilità mediatica. In otto
album in studio, nove con quest’ultimo, LaMontagne ha lasciato che le
sue canzoni e la sua storia parlassero da sole, toccando una corda
profonda nel subconscio americano, senza mai forzare la mano, lasciando
la sua musica libera da ogni condizionamento.
Long Way Home è il primo lavoro di LaMontagne da Monovision,
uscito nel 2020, e nasce da un episodio risalente alla sua giovinezza
e, evidentemente, mai dimenticato. A ventun anni, in un piccolo club di
Minneapolis, il songwriter ricorda di aver visto Townes Van Zandt
esibirsi dal vivo. Un verso della sua "To Live Is To Fly" lo ha
letteralmente fulminato: “When here you been is good an gone, all you keep is the getting there”. Un momento catartico, decisivo, su cui LaMontagne ha riflettuto a lungo per dare vita a questo suo nuovo album: "Trent'anni
dopo mi rendo conto che ogni canzone di Long Way Home in un modo o
nell'altro onora il viaggio. I giorni languidi della giovinezza e
dell'innocenza. Le innumerevoli battaglie dell'età adulta, alcune vinte,
più spesso perse. È stata una strada lunga e dura, e non la cambierei
di un minuto. Mi ci sono volute nove canzoni per esprimere ciò che
Townes è riuscito a dire in un verso. Immagino di avere ancora molto da
imparare".
Prodotte in tandem con Seth Kauffman (Floating Action, Angel Olsen, Lana Del Ray), le nove tracce toccanti di Long Way Home
richiamano l'esplosione folk-rock dei primi anni '70, inserendosi nel
filone revivalista che LaMontagne ha contribuito in modo determinante ad
alimentare. Registrate nel corso di alcune settimane nel suo studio di
casa, le nove canzoni in scaletta hanno visto il contributo di vecchi e
nuovi collaboratori: le Secret Sisters regalano i cori nelle prime tre
tracce, mentre l'album è stato progettato e mixato dal team di
LaMontagne, il citato Seth Kauffman e Ariel Bernstein.
Un
disco onesto, riflessivo, e versatile, nonostante la breve durata, che
spazia dal saltellante soul dell’iniziale "Step Into Your Power" al Neil
Young citato nella morbida "And They Called Her California", al velluto
country di "I Wouldn’t Change a Thing" fino alla sgranata malinconia
della conclusiva title track.
LaMontagne
dimostra, con questo nuovo lavoro, di possedere una consapevolezza
superiore e, soprattutto, di non aver perso nulla, in termini di
sincerità, dal suo celebrato esordio Trouble. Una certezza che scalda il cuore con canzoni semplici ed emozioni vere.
Dopo un disco più sperimentale come Tusk e il successo commerciale di Bella Donna
(1981), primo album solista della cantante Stevie Nicks, i Fleetwood
Mac, guidati dal produttore Ken Caillat, se ne vanno in Francia, per
registrare presso gli studi Le Château di Hérouville, quello che sarà il
loro tredicesimo album in studio. L’idea è di rinverdire i fasti
commerciali di Rumours (1977), percorrendone le stesse
coordinate sonore, ed evitando l’approccio più cerebrale e complesso del
disco precedente. Il livello di ispirazione non è più lo stesso, però, e
Nicks e Buckingham vivono apertamente una rivalità, anche artistica,
che li porta spesso a litigare e a fare i capricci come bambini viziati,
perché negli studi, dove soggiornano, viene servito cibo che ritengono
inadeguato e manca la televisione.
In questo clima non proprio idilliaco, viene concepito Mirage,
un disco meno centrato dei due predecessori, ma capace comunque di
lanciare sul mercato un filotto di singoli ("Hold Me", "Gipsy", "Oh
Diane", "Love In Store" e "Can’t Go Back") che fanno dell’album il
quarto multi platino consecutivo della band e il loro terzo numero uno
negli States, non raggiungendo, tuttavia, gli stessi risultati in
Inghilterra, dove mancano la prima piazza, arrestandosi alla quinta
posizione.
Nel settembre 1982, a supporto di Mirage,
i Fleetwood Mac intrapresero un tour di trentuno date attraverso
diverse città degli Stati Uniti, tra cui due (entrambe sold out) al
Forum di Los Angeles (21 e 22 ottobre), le cui migliori esecuzioni sono
racchiuse in questo live per creare un’unica, e riuscitissima,
esperienza di concerto.
Questa
collezione live, composta da ventidue tracce, presenta sei
registrazioni inedite dello spettacolo del 21 ottobre 1982, tra cui
classici come "Landslide", "Don't Stop" e "Never Going Back Again". Le
altre canzoni sono state registrate durante lo spettacolo del 22 ottobre
e sono apparse in varie uscite nel corso degli anni, tra cui Live Super Deluxe Edition (2021), Mirage Super Deluxe Edition (2016) e il video del concerto del 1983 Mirage Live.
Se
in studio la convivenza tra i cinque era spesso burrascosa, è
altrettanto vero che la band dal vivo viaggia ad altezze vertiginose.
Erano anni in cui Mick Fleetwood, John McVie, Christine McVie, Lindsey
Buckingham e Stevie Nicks vivevano all'apice della loro potenza
collettiva, e in questo live è del tutto evidente la carica travolgente
dei Fleetwood Mac nell’affrontare vecchi e nuovi successi.
Il
disco inizia con un filotto di canzoni da far girare la testa: "Second
Hands News", una scorbutica e ringhiante "The Chain", l’innodica "Don’t
Stop" e l’oscura e sensuale "Dreams", in cui la Nicks dà vita alla
consueta prova vocale da brividi.
La
successiva "Oh Well" è un omaggio ai Fleetwood Mac di Peter Green, e i
quattro minuti della canzone sono interpretati con una furia elettrica
dagli effluvi acidi che lascia senza fiato. E non è da meno "Rhiannon",
spogliata di ogni delicatezza pop e resa in una versione ruvida,
graffiante, in cui la Nicks strattona il testo con un’interpretazione in
crescendo roca e collerica, che trova perfetto contrappunto nella
chitarra acuminata di Buckingham.
Splendide anche la malinconica "Brown Eyes" da Tusk, che vede la McVie sugli scudi, i due gioiellini melodici tratti dal nuovo Mirage ("Gipsy" e "Love In Store") e una torrenziale "Not That Funny" (da Tusk), rock acido e metropolitano, chiuso da una lunga coda strumentale.
Non
è da meno il secondo disco, che si apre con l’allegrezza acustica di
"Never Going Back Again" e con un gioiello senza tempo come "Landslide",
cantata dalla Nicks con un’intensità che sbriciola il cuore. Non posso
mancare, ovviamente, hit come la delicata "Sara", la travolgente "Go
Your Own Way", una chilometrica e sferragliante "Sisters of The Moon"
(ennesima, intensa interpretazione della Nicks) e la chiosa, lasciata
come di consueto, ai tre minuti struggenti di "Songbird", immenso
lascito della compianta Christine McVie.
Mirage Tour 1982
è l’ennesimo live dei Fleetwood Mac che merita di essere inserito fra
le cose migliori della band, e che, come era successo con il precedente Rumours Live
(2023), svela l’anima rock di una band che in quegli anni, dal vivo,
era una vera e propria macchina da guerra. Sono in tal senso chiarissime
le note di copertina del giornalista musicale Bill DeMain che definisce
la raccolta "un ascolto avvincente e il ricordo di un'epoca in cui
gli spettacoli rock erano piattaforme per espandere e reinventare
canzoni per il palco, per lasciarle respirare, per scatenare lati
diversi e più selvaggi di una band".