venerdì 31 gennaio 2025

Mur - Mur (Century Media, 2024)

 


In una scena metal frastagliata, ricca di band e decisamente interessante come quella islandese, si inseriscono, ultimi arrivati, anche i Múr, gruppo nuovo di pacca che ha pubblicato il suo seducente esordio sul finire del 2024.

Un debutto che ci era sfuggito nel periodo frenetico di fine anno, e che andiamo a recuperare con molto piacere, visto che, nonostante si tratti di un’opera prima, ci troviamo di fronte a una band molto consapevole e già matura, che nei cinquantaquattro minuti di durata della scaletta, mette sul piatto un disco poliedrico che attinge liberamente dal progressive e dal post-metal, dando vita a un viaggio emotivamente seducente. I Múr dovrebbero piacere ai fan di band come The Ocean, Opeth, Ihsahn, Cult Of Luna e Alcest, per citare i riferimenti più ovvi. È importante notare, però, che il quintetto islandese non suona mai come se stesse plagiando, mettendo semmai in luce una personalità ben delineata, che conquista fin dal primo ascolto.

Pur in un contesto immediatamente riconoscibile, infatti, la scrittura dei brani è ottima e si tiene lontano dai clichè più ovvi, dando vita a una struttura musicale atmosferica e umorale, che alterna momenti più morbidi e malinconici a frequenti incursioni in territori più oscuri, in cui pesantezza e aggressività la fanno da padrone. Un’aggressività, però, non fine a se stessa, ma che trova un intrigante contrappunto in paesaggi sonori avvincenti, che spaziano da una delicata introspezione ad avvincenti digressioni epiche.

Un connubio perfetto, presentato con ottime competenze tecniche e una evidente eleganza formale, e che trova la sua perfetta declinazione nell’utilizzo alternato tra voci pulite e screaming, entrambe perfettamente incastonate nel tessuto sonoro. Una musica di sicuro impatto, dunque, che denota un’accurata ricerca anche in fase di produzione, senza tuttavia perdere un grammo del lato emotivo della proposta.

In tal senso, segnaliamo l’iniziale "Eldhaf", nove minuti di pura emozione per un brano che è chiave di lettura per l’intero album. Voce pulita, quasi ieratica nella declinazione delle liriche, incedere maestoso, mood oscuro e inquieto, e un alternarsi fra accelerazioni, momenti di stasi e cupa malinconia. Lo stesso dicasi per la conclusiva "Holskefla", in cui la bella ed evocativa linea melodica si schianta contro un muro di chitarre ruggenti e un aspro screaming, dando vita a dieci minuti ipnotici, lividi, confezionati con assoluta maestria.

Non mancano, ovviamente, momenti ancora più estremi, come la title track, tanto feroce quanto strutturalmente complessa, o la schizofrenica "Messa", in cui fa capolino anche un inaspettato tocco di elettronica, ma nel complesso la scaletta è ricca di profondità emotiva e seducente nella sua ricerca atmosferica.

Tutti elementi, questi, messi al servizio di qualcosa di più grande della somma delle singole parti, in cui anche i momenti più estremi sono una colorazione fra le tante in scaletta, circostanza che consente alla band di esplorare, di cambiare spesso registro, di evocare una serie di panorami cinematografici ed epici, in grado di carpire immediatamente la curiosità dell’ascoltatore.

Un esordio, dunque, davvero riuscito, che offre un’esperienza d’ascolto stratificata e, certo, non di facilissima fruizione, soprattutto per chi non è aduso a certe sonorità. Se il buongiorno, però, si vede dal mattino, è inevitabile prospettare per i Múr un futuro di sicura rilevanza non solo nella scena islandese, ma anche internazionale.

Voto: 7,5

Genere: Post Metal, Prog Metal

 


 


Blackswan, venerdì 31/01/2025

mercoledì 29 gennaio 2025

Angel Of Death - Slayer (Def Jam, 1986)

 



Difficile trovare in attività band, la cui musica abbia suscitato tante polemiche come accaduto per gli statunitensi Slayer, una dei gruppi più noti e seminali del movimento thrash metal.

Gli esempi si sprecano

Nel 1996 gli Slayer vennero citati in giudizio con l'accusa di aver spinto alcuni giovani a uccidere una ragazza: la vittima era Elyse Marie Pahler, una quindicenne assassinata il 22 luglio 1995. All'epoca, gli assassini Roger Casey (17 anni), Jacob Delashmutt (16) e Joseph Fiorella (15) suonavano in un gruppo ispirato agli Slayer chiamato Hatred; i tre confessarono di aver rapito la giovane, di averla drogata, stuprata e pugnalata a morte su un altare satanico, per poi concludere le sevizie con atti di necrofilia. I ragazzi, dopo l'arresto, dissero di essere stati plagiati da alcune canzoni degli Slayer come Altar of Sacrifice (contenuta in Reign in Blood), Kill Again e Necrophiliac (entrambe presenti in Hell Awaits). Ciò indusse i parenti della povera vittima a promuovere un’azione legale nei confronti degli Slayer e della loro etichetta discografica: il processo terminò nel 2001, a sei anni dall'accaduto, e si concluse con l'assoluzione del gruppo, motivata dal fatto che la legge statunitense non può censurare la libertà di espressione musicale. Il giudice, inoltre, non ritenne la loro musica oscena, indecente o pericolosa per i minori.

Negli anni successivi si è tornato a parlare degli Slayer per un fatto di cronaca avvenuto in Italia: il 28 maggio 2004, infatti, vennero ritrovati due cadaveri in una fossa di un bosco nei pressi di Somma Lombardo. Le due vittime erano Fabio Tollis e Chiara Marino, uccisi da alcuni membri di una setta chiamata Le Bestie Di Satana, di cui i due erano parte integrante. Dopo il ritrovamento dei corpi, iniziarono le indagini che condurranno al gruppo satanico, portando così a numerosi arresti. Indovinate un po’: si ritiene che i feroci omicidi commessi dalla setta furono ispirati dal brano Kill Again, ricompreso, come citato, nella scaletta di Hell Awaits.

Altri duri attacchi vennero rivolti al nono album del gruppo, Christ Illusion, che contiene un brano intitolato Jihad, in cui si parla degli attentati dell’11 settembre dal punto di vista degli estremisti islamici. Una presa di posizione che ha generato rabbia da parte di alcuni parenti delle vittime della tragedia, costringendo il chitarrista della band, Kerry King, a chiarire più volte il senso del brano che, dal punto di vista della band, parla semplicemente delle storture che può ingenerare la religione.

La circostanza che più di tutte, però, ha scatenato contro la band l’ira dei media, delle associazioni culturali e della chiesa ebraica, è il presunto filo nazismo degli Slayer, come sembrerebbe emergere dal frequente utilizzo di citazioni e simbologie hitleriane. Il fanclub ufficiale del gruppo si chiama, infatti, Slaytanic Wehrmacht, termine quest'ultimo che indicava le forze armate tedesche, il logo del gruppo raffigura l’aquila romana, stemma presente sugli elmi dei soldati nazisti, infine la grafia della S di "Slayer" è stata accostata al faamigerato simbolo delle SS.

E per quanto la band abbia sempre smentito, aver scritto una canzone intitolata Angel of Death, prima traccia dal terzo album della band, Reign In Blood, non ha certo aiutato. La canzone, infatti, si riferisce a Josef Mengele (l’angelo della morte), il crudele medico di Aushwitz che eseguì raccapriccianti e sadici esperimenti sui prigionieri durante l'Olocausto. Apriti cielo: gli Slayer sono nazisti, antisemiti e satanisti. Difficile far credere il contrario, visto che Angel Of Death è tuttora oggetto di dibattito tra gli Slayer, le associazioni favorevoli alla censura e diverse organizzazioni religiose.

In realtà, la canzone fu scritta dal chitarrista Jeff Hanneman, grande appassionato della seconda guerra mondiale, e il cui padre, giova ricordare, sbarcò sulle spiagge della Normandia il 6 giugno 1944, proprio per combattere i nazisti.

L’ispirazione per il brano arrivò quando i membri della band erano in tour per promuovere Hell Awaits, e per passare il tempo, tra una data e l’altra, si davano alla lettura di libri tascabili comprati nelle aree di servizio. Uno di questi, acquistato da Hanneman, parlava proprio di Mengele: da qui, l’ispirazione per la controversa canzone.

Angel of Death è diventata nel tempo uno dei brani più famosi degli Slayer e un classico del genere thrash metal. A metterci mano in fase di produzione fu l’allora giovanissimo Rick Rubin, che era il patron della Def Jam, etichetta nel cui portafoglio, ai tempi, militavano anche i Beastie Boys. Rubin per la produzione si avvaleva della collaborazione di una major, la Columbia, i cui dirigenti, non appena visto il pentacolo sulla copertina di Reign In Blood e ascoltata Angel of Death, si rifiutarono di collaborare, passando la patata bollente alla Geffen, etichetta che si fece molti meno scrupoli.

Musicalmente, Rubin fece un lavoro straordinario: dato che gli Slayer suonavano molto velocemente, il produttore, in fase di registrazione, lasciò disattivato il riverbero, per evitare che il suono diventasse un’indistinguibile poltiglia, mentre, affascinato dalla grande tecnica di Dave Lombardo, potenziò la batteria, tenendo in secondo piano le chitarre. Oggi, il doppio pedale e il tom fill di Lombardo su Angel Of Death sono diventati, nell’immaginario collettivo, uno dei momenti di drumming più eccitanti e famosi della storia del metal.  




Blackswan, mercoledì 29/01/2025

martedì 28 gennaio 2025

Babybird - There's Something Going On (Echo, 1998)

 


I Babybird, indie rock band britannica creata dalla mente geniale del suo leader Stephen Jones, hanno attraversato poco più di tre lustri di storia musicale inglese, lasciandosi alle spalle undici album in studio e, soprattutto, due canzoni che ne hanno decretato un momentaneo, quanto labile successo: "You’re Gorgeous", hit del 1996 dall’album Ugly Beatiful e "The F-Word" (da Bugged del 2000) diventata sigla dell’omonimo programma di cucina condotto da Gordon Ramsey. Per il resto, i Babybird hanno sempre rivestito il ruolo di band di culto, capace di sfornare album di valore ma dal modesto appeal commerciale.

Pubblicato 26 anni fa, il 24 agosto 1998, There's Something Going On non ha scalato le classifiche dell’epoca, raggiungendo solo la ventottesima piazza delle charts britanniche, ma rimane, anche a distanza di tanto tempo, un disco splendido, amato profondamente da tutti coloro che hanno avuto la fortuna di ascoltarlo.

Ma andiamo con ordine. La storia dei Babybird inizia alla fine degli anni '80 quando Stephen Jones inizia a scrivere musica per una compagnia teatrale sperimentale di Nottingham. Nel 1994, aveva composto la bellezza di quattrocento canzoni, senza tuttavia riuscire ad aggiudicarsi un contratto discografico. Consapevole del proprio talento, Jones ha investito tutti i risparmi producendo da solo i primi quattro album (con il nome Baby Bird, poi mutato in Babybird), fino a quando, con il citato Uglly Beautiful il suo progetto diviene una band vera e propria, e la sua produzione, inizialmente molto casalinga e lo-fi, diventa più strutturata grazie al passaggio sotto l’etichetta Echo.

Arriva così il successo di "You’re Gorgeous", autentico tormentone che si piazza alla posizione numero tre delle classifiche inglesi, rimanendo in classifica per tre settimane. Una canzone, questa, caratterizzata da una struttura semplice e da un ritornello orecchiabile, che fece spesso associare i Babybird al movimento brit pop e che identificò la band con connotati romantici che mai, in realtà, gli sono appartenuti. Quello che a un orecchio poco attento poteva apparire come una canzone d’amore, era in realtà cinica e caustica, dal momento che racconta la storia di un fotografo perverso che offre a una ragazza 20 sterline in cambio di qualche scatto hot. Eppure la canzone è diventata un tormentone per coppie innamorate, un must alle feste nuziali e un punto fermo delle radio britanniche.

Così, i consumatori occasionali di pop, che avevano comprato il disco, rimasero esterrefatti dalla restante scaletta, un mix di canzoni abbastanza inquietante che trattava di morte, di disagio, di religione, alternando qualche melodia carina a cupi momenti lo-fi. Un disco talmente straniante che venne argutamente rinominato "You're Gorgeous and some other songs". Avere avuto un enorme successo pop li aveva resi imperdonabilmente poco cool agli occhi del pubblico alternativo, mentre agli amanti occasionali delle hit non importava molto di sentire altro da loro, dal momento che si accontentavano di ascoltare "You’re Gorgeous" a ripetizione. Jones avrebbe dovuto essere seduto sul trono insieme a Albarn, Yorke, Gallagher, Cocker e tutti gli altri migliori songwriter del Regno Unito. Invece, era solo l'autore di questo grande successo pop e la gente non poteva prenderlo sul serio.

Ciò di cui Jones e la sua band avevano bisogno era di bandire quel ricordo con un album diverso, che mettesse in mostra e definisse veramente il loro talento. Un disco più mirato e più compiuto, in cui ogni traccia avesse vera profondità e sostanza, un album in cui l'oscurità e la luce potessero essere combinate in modo più efficace.

Due anni dopo, nel 1998, come lancio per la promozione di There's Something Going On, i Babybird pubblicarono un nuovo singolo, che non avrebbe potuto essere più lontano da "You're Gorgeous". "Bad Old Man" è una canzone scioccante, oscura, priva di ogni ammiccamento al romanticismo, il cui testo menziona la parola pedofilo, probabilmente unica canzone al mondo che, nonostante ciò, abbia conquistato la top 40. "Bad Old Man" si muove lentamente, è una marcia funebre punteggiata dal suono di un pianoforte malinconicissimo, un brano che sarebbe stato benissimo in un disco dei Black Heart Procession e che ha come protagonista un pervertito. Ecco, questi sono i veri Babybird, non quelli di "You’re Gorgeous".

Nonostante fosse uno dei singoli più belli pubblicati in quell’anno, "Bad Old Man", come prevedibile, si attestò solo alla trentunesima piazza delle charts. Le radio, soprattutto nelle programmazioni diurne, lo evitavano come la peste, e gli appassionati di musica, i fruitori attivi, tenevano a distanza quella band che due anni prima incarnava l’idea di un pop sdolcinato e buono per la truppa. Pochi mesi dopo, uscì il secondo singolo dell'album.

Dopo il terrificante "Bad Old Man", fu una scelta saggia fornire un netto contrasto con la sbalorditiva "If You'll Be Mine", un brano dolce e sognante, avvolto dalla luce luminosa di un mattino di primavera. Una canzone meravigliosa, che suonava dannatamente U2, ma che gli U2 non sarebbero più stati in grado di comporre. "If You'll Be Mine" esprime al meglio il talento di Jones, abile a usare melodie dolci per mascherare testi che sono tristi o inquietanti: in questo caso, abbiamo una storia di amore perduto per sempre, avvolta, però, in una calda e confortante coperta melodica.

"Back Together" è la canzone più amata dai fan della band, misteriosa ma stranamente spensierata, è un momento perfetto di pop barocco, intima e calda un secondo prima, palpitante ed emozionante, quello dopo. È un brano arrangiato e strutturato magistralmente, che delinea lo spazio in modo brillante durante il ponte strumentale, e che si apre a un ritornello memorabile.

Atmosferica e vagamente spettrale è "I Was Never Here", in cui una maestosa sequenza di accordi gira apparentemente senza meta sotto la voce quasi colloquiale, eppure così intensamente drammatica, di Jones, prima che il brano improvvisamene esploda come una bomba di chitarre feroci e sferraglianti. Il ritmo è accelerato nella malata e inquietante "First Man On The Sun", una scorribanda perversa tra ritmi di rumba e vibrazioni drum n bass, seguita dalla cruda e delirante "You Will Always Love Me", un brano musicalmente trasognato, che parla di uno stalker e affronta il lato oscuro dell’amore, un tema centrale in There's Something Going On. Lungi dall'essere sentimentali o romantiche, le canzoni di Jones riguardano ossessione, potere, controllo, dipendenza, perversi istinti umani ed ego maschile.

Più focalizzato del suo predecessore in termini di liriche, l’album mette, poi, in evidenza una ragionata diversità musicale. "The Life", ad esempio, è un pezzo di trip-hop schizofrenico e paranoico, un po' come se fosse suonato dagli Happy Mondays in down di anfetamine, e la rabbiosa "All Men Are Evil" è attraversata da un groove torbido e da versi cantati come una sinistra filastrocca, mentre una stralunatissima armonica accresce l'urgenza già totalmente frenetica del brano.

Poi, arriva quella che potremmo definire la miglior canzone dell'album, e probabilmente il brano più potente che Stephen Jones abbia mai scritto. Strutturata su una ritmica spazzolata, poche note di pianoforte e voce in falsetto, è impossibile pensare a qualcosa di più inquietante di "Take Me Back", il racconto straziante di uno stupro a bordo strada e i conseguenti sentimenti di vergogna, colpa e desiderio di vendetta. La versatilità di Jones come cantante è qui esibita in modo spettacolare, la sua voce si eleva da sussurro inquietante a urlo trattenuto ma schizofrenico, mentre l'atmosfera seducente e angosciante prende possesso dell'ascoltatore, trasportandolo in una dimensione da incubo.

Un brano così teso, che la successiva, lunga e dolente "It's Not Funny Anymore" suona come un momento di sollievo al confronto: un'altra scintillante ballata lo-fi basata su synth lacrimosi e loop di batteria sovrapposti, e che si libra verso il cielo quando raggiunge il suo lungo e commovente outro. Fornisce un ideale penultimo climax prima che questo straordinario disco si concluda in modo sottile e delicato con la title track, scarna e leggera, ponendo il suggello a un intenso viaggio musicale intitolato "There's Something Going On".

Cosa è successo dopo? L'album è stato ben accolto dalla critica ma ha venduto modestamente, raggiungendo il numero 28 nelle classifiche degli album del Regno Unito. All'inizio dell'anno seguente, una versione remixata di "Back Together" entrò nella classifica dei singoli al numero 22. L'album successivo Bugged ebbe molto meno successo, non arrivando nemmeno nella Top 100, con il risultato che la band dovette arrendersi.

Stephen Jones lavorò ad altri progetti e pubblicò un disco da solista, prima di riformare il gruppo nel 2005 e pubblicare altri tre album, uno dei quali con un'apparizione come ospite di Johnny Depp alla chitarra. L’avventura Babybird si sarebbe conclusa di nuovo nel 2012, con Jones che tornò alle sue radici lo-fi e pubblicò un'enorme quantità di musica fatta in casa sotto vari alias tramite la sua pagina Bandcamp. Solo pochi anni dopo avrebbe ripreso in mano il progetto Babybird per la terza volta, riportando la band in tour e pubblicando una serie di album in edizione limitata.

 


 

 

Blackswan, martedì 28/01/2025

 

lunedì 27 gennaio 2025

Tremonti - The End Will Show Us Now (Napalm Records, 2025)

 


Cinquant’anni compiuti lo scorso anno, Mark Tremonti è una figura iconica dell’hard rock/heavy metal, oltre a essere considerato uno dei migliori chitarristi di genere in circolazione. In tre decenni circa di attività ha venduto milioni di dischi, frutto della sua militanza nei Creed, band post grunge che fece il botto con il best seller Human Clay (1999), negli Alter Bridge, di cui è tutt’ora co-leader insieme a Myles Kennedy, e grazie a una carriera solista tutta di livello, che ha raggiunto il suo apice quattro anni fa con il celebrato Marching In Time (2021).

Oggi, messa momentaneamente in stand by l’attività con gli Alter Bridge, il chitarrista torna con il suo sesto album solista, non proprio un concept, ma un disco la cui scaletta è tenuta insieme dal fil rouge di riflessioni profonde sul male di vivere dei giorni d’oggi, sull’odierna condizione umana, su un mondo che va progressivamente alla deriva. Sono le scelte degli uomini a determinare il futuro della società, scelte che non possiamo sapere se giuste o sbagliate, se non alla fine, quando si sono realizzate. E’ la fine che ci mostra il risultato delle nostre azioni, è ciò che si è compiuto che svela il bene o il male delle nostre decisioni, da cui dovremmo imparare, anche se in realtà non impariamo mai niente.

C’è disillusione e pessimismo nelle liriche del disco, che si riflettono, poi, sul mood della musica, in cui non mancano ritornelli catchy, ma che inevitabilmente tende a essere oscura, per quanto non opprimente, e a richiamare pensieri malinconici, anche quando il tiro si fa potente.

The End Will Show Us How è un disco in cui hard rock e metal, spinti dai consueti riff ad alto contenuto energetico, si intrecciano con ritornelli melodici, in un impianto solido, apparentemente monolitico, dal suono reso omogeneo e coerente dalla produzione del solito Michael “Elivis” Baskette. Si fatica un po’ all’inizio a entrare in sintonia con un disco che sembra privo di guizzi distintivi, ma ascolto dopo ascolto, s’innesca la miccia emotiva, si coglie la profondità della scrittura di canzoni tutte buone, alcune davvero di livello. La band picchia con la consueta forza, creando lo sfondo perfetto in cui emerge la chitarra di Tremonti, che evita inutili sbrodolamenti, centellinando gli assoli, tutti peraltro davvero ficcanti, e una voce notevole, a volte plasmata sul timbro dell’amico Myles Kennedy, ma sempre sicura, sfaccettata, perfettamente a suo agio sia nei momenti più aggressivi che in quelli riflessivi.

Dodici canzoni, per quasi un’ora di musica, che parte alla grande con "The Mother, The Earth And I", brano dagli evidenti intenti ecologisti, costruito come da manuale: intro in crescendo, riff arcigno, ritmica martellante e una melodia oscura che si schiude in uno dei ritornelli più immediatamente assimilabili del disco.

Non mancano, poi, evidenti riferimenti alla musica degli Alter Bridge come in "Just Too Much" (Tremonti si incarna perfettamente in Kennedy), un brano dal groove trascinante e dalla complessa architettura melodica. E se "One More Time" e "Nails" rappresentano il lato più metal e agguerrito del disco (ma fate sempre attenzione alle linee armoniche, splendidamente centrate), la superba "Now That I’ve Made It" recupera antiche scorie grunge riconducibili ai Creed e piazza un ritornello di cupa bellezza.

Sono da menzionare anche la conclusiva, insolita, "All The Wicked Things", i cui synth iniziali e il cantato baritonale di Tremonti fanno venire in mente addirittura gli Editors, salvo poi virare verso ruvidità hard rock e un solo finale da pelle d’oca, e la title track, la migliore del lotto, una ballata atmosferica, che stringe il cuore in una morsa di arresa malinconia.

Mark Tremonti, ma questo già si sapeva, dimostra per l’ennesima volta di aver raggiunto una maturità artistica che gli permette di brillare in solitaria anche lontano dalla casa madre, grazie a canzoni che si fanno ricordare non solo per le sue abilità tecniche, ma anche per una scrittura appassionata e mai ovvia. Con The End Will Show Us How, questo 2025, al momento parco di uscite di rilievo, non poteva iniziare meglio.

Voto: 8

Genere: Hard Rock, Heavy Metal

 


 

 

Blackswan, lunedì 27/01/2025

giovedì 23 gennaio 2025

Beardfish - Songs For Beating Hearts (InsideOut, 2024)

 


 

Songs For Beating Hearts è un disco che rimanda al prog degli anni d’oro, non solo nelle intenzioni o concettualmente, quanto semmai nel suono clamorosamente vintage e in un approccio che scarta ogni modernità in favore di una visione squisitamente settantiana. Spesso accostati ad alcuni gruppi prog metal che oggi vanno per la maggiore, gli svedesi Beardfish non hanno mai abbracciato sonorità estreme, preferendo rendere omaggio, e mai come in questo nuovo album, agli eroi musicali conosciuti attraverso i dischi di papà.

Dopo lo scioglimento nel 2016 e gli anni oscuri della pandemia globale, la band ha trovato nuovi stimoli per continuare a camminare sulla stessa strada, e così Rikard Sjöblom, David Zackrisson, Magnus Östgren e Robert Hansen hanno ricominciato la loro storia esattamente da dove l’avevano interrotta. Hanno iniziato così a lavorare su materiale che era rimasto nei cassetti, arricchendolo di nuove idee, fino al risultato finale rappresentato dalle sette canzoni in scaletta (per un’ora circa di minutaggio), tra le migliori del loro songbook.

"Ecotone", la canzone che apre il disco è pura magia, è uno di quei brani che hanno il merito di farsi ricordare fin dal primo ascolto e che girano in loop sul piatto dello stereo. La canzone inizia con un arpeggio acustico, la melodia è dolcissima, la voce di Amanda Ortenhag (che accompagna quella di Rikard Sjöblom) rende l’atmosfera sognante ed evocativa, mentre un’acidula chitarra innerva il brano sottotraccia di brevi scariche elettriche. Un numero di prog folk a dir poco perfetto, che può rimandare tanto ai leggendari Fairport Convention quanto ai più recenti Midlake.

Non appena "Ecotone" evapora, inizia il corpus centrale dell’opera, "Out In The Open", una complessa suite che coagula in poco più di venti minuti tutto il progressive dei giorni leggendari. Un canzone splendida e splendidamente suonata, che alterna accelerazioni e momenti di stasi, e che rappresenta una piccola sfida agli appassionati di prog per riconoscere le varie sonorità citate, che vanno dagli Yes di "Fragile" agli Emerson Lake & Palmer di "Tarkus".

Archi barocchi aprono "Beating Heart", ma dopo poco il brano si accende di elettricità (e qui vengono in mente i King Crimson), salvo poi svilupparsi tra continui sali scendi in un intreccio perfettamente riuscito fra folk, prog e hard rock che si sublima in una straniante coda orchestrale. "In the Autumn" inizia mostrando le indubbie capacità tecniche della band e si sviluppa poi attraverso sonorità più leggere dalle vaghe reminiscenze californiane.

Dopo un breve intermezzo strumentale ("Ecotone Reprise"), il disco si chiude con "Torrential Downpour", lunga ballata dai sentori autunnali a cavallo fra folk e prog, e "Ecotone Norrsken 1982", una sorta di sralunato esperimento elettronico, che sembra citare Alan Parson, in netta controtendenza con il resto della scaletta.

Songs For Beating Hearts è un disco totalmente anacronistico, legato a doppio filo a un mondo musicale che oggi vive, attraverso un diverso linguaggio, una seconda giovinezza. I Beardfish, però, preferiscono lo studio delle lettere antiche, si immergono nei grandi classici e cercano di restituirli alla luce. Un compito complesso ma decisamente riuscito, una manna dal cielo per schiere di progster nostalgici, la cui comfort zone è rimasta saldamente ancorata agli anni ’70. 

Voto: 7,5

Genere: Progressive




 

Blackswan, giovedì 23/01/2025

martedì 21 gennaio 2025

Leave a Light On - Tom Walker (Relentless Records, 2017)

 


C’è un dolore nel dolore, quando si tratta di dipendenza, e si chiama solitudine. Quella sensazione di sprofondare nel baratro senza una mano pronta ad afferrarti, la fatica di affrontare i fantasmi in una lotta impari senza una voce di conforto, e perdersi nel buio di un lunghissimo tunnel senza una luce che, là in fondo, indichi la strada della speranza, o un orizzonte di salvezza. Dipendere è far entrare in casa un nemico implacabile, che ci inganna con subdola astuzia, mentre teniamo lontano chi ci ama davvero. Per paura, per vergogna, per una stupida ed esiziale forma d’orgoglio.

Sono queste riflessioni che aveva in testa Tom Walker che scrisse Leave A Light On, una canzone che il songwriter compose per un caro amico che lottava contro la dipendenza dalla droga: un invito a cercare aiuto, un offerta di disponibilità attraverso l’immagine di una luce accesa, simbolo di conforto, di affetto, di fratellanza.  

 

Non lasciarti andare

Mantieni la presa

Se guardi in lontananza, c'è una casa sulla collina

Che ti guida come un faro

In un posto dove sarai sicuro di sentire la nostra grazia

Perché tutti abbiamo commesso degli errori

Se hai perso la strada

Lascerò la luce accesa

 

Successivamente alla pubblicazione della canzone, Walker spiegò che il suo amico stava attraversando un periodo davvero buio e di aver scritto la canzone per fargli sapere che non era solo. Sebbene ispirata a un fatto personale, la canzone ha un significato più ampio e si rivolge a chiunque si sia lasciato intrappolare da una dipendenza di qualsiasi tipo. Fu sempre Walker a spiegarlo con chiarezza: "Tutti quelli che conosco, me compreso, a un certo punto della loro vita hanno lottato con qualche forma di dipendenza, che si tratti di bere troppo o mangiare troppo…Volevo solo scrivere questa canzone per la mia famiglia e per tutti i miei amici, per far sapere loro che possiamo parlarne."

Tom Walker scrisse la canzone collaborando con Steve Mac, un abile produttore che aveva messo mano a numerosi singoli e album spacca classifiche per artisti come Westlife (Flying Without Wings), The Wanted (Glad You Came), Clean Bandit (Symphony) e Ed Sheeran (Shape Of You). La coppia era stata messa in contatto grazie all’etichetta di Walker, il quale, però, non conosceva la caratura di hitmaker di Mac, che scoprì solo in seguito, circostanza, questa, che gli procurò non poco imbarazzo, visto che lui era solo un musicista alle prime armi.

La canzone è stata originariamente pubblicata nel Regno Unito il 13 ottobre 2017 e all'inizio ha fatto fatica a sfondare. Nel frattempo, però, stava decollando oltre Manica, raggiungendo la vetta della classifica dei singoli francesi nel marzo 2018. Ha anche raggiunto la Top 10 in diversi altri paesi europei, tra cui Austria, Belgio, Germania, Svizzera, mentre l’album che la conteneva, What a Time to Be Alive, pubblicato a marzo del 2019, divenne disco d’oro anche in Italia.  Solo più tardi, Leave a Light On ha finalmente raggiunto la Top 40 del Regno Unito, nel maggio 2018.

 


 

 

Blackswan, martedì 21/01/2025

lunedì 20 gennaio 2025

Klone - The Unseen (Pelagic Records, 2024)

 


Francese di Poitiers, nata nel 1995 con il nome di Sowat, poi trasformato nell’attuale Klone nel 2003, la band transalpina veste abiti mutevoli, che l’hanno portata, disco dopo disco (siamo all’ottavo in studio) ad affinare il proprio suono. I Klone, infatti, hanno pubblicato il loro album di debutto, Duplicate, poco più di 20 anni fa, e di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Quello, infatti, era un album dai riff vorticosi e dalle ritmiche complesse, che aveva molto in comune con la musica dei conterranei Goijra, al netto di qualche momento decisamente più melodico.

E’ da questi spunti melodici, poi, che ha preso forma la lunga trasformazione della band, che da Le Grand Voyage del 2019, ha mitigato frenesia e aggressione, dando più importanza alla dimensione progressive e rock della proposta, che è diventata preponderante nel penultimo, bellissimo, Meanwhile, e definitiva in questo nuovo The Unseen.

Il passaggio dalla Kscope, etichetta votata al prog, alla Pelagic Records non ha sviato la band dal percorso intrapreso, e questo nuovo disco ha relegato furia e potenza a momenti residuali, ponendo ulteriormente l’accento su eleganza formale e arrangiamenti sofisticati, e accorciando il minutaggio della scaletta, declinata, peraltro con la solita clamorosa perizia tecnica.

I sei, insomma, non hanno mai suonato sicuri ed eleganti come in questo album, aperto dalla magnifica Interlaced, un brano dal retrogusto alternative anni ’90, rotondo, quasi solare, se non fosse per quel sentore malinconico che si fa preponderante nella seconda parte di canzone, attraversata da svolazzi di sax che innalzano la tensione.

L’approccio sonoro della band alterna momenti intensi ad altri più intimi, e la voce del frontman Yann Ligner si adatta perfettamente a una musica che spesso, come nella title track, procede quasi istintiva, morbida e carezzevole, fino al momento catartico in cui prende vita un crescendo distorto, disturbato da riff post hard core e avvolto da inquietanti tastiere. Un brano, l’unico, che evoca vagamente il passato della band, soprattutto nel finale quando il suono si fa arcigno, seppur declinato con la consueta eleganza espressiva.

Come dicevamo, rispetto al predecessore, The Unseen è un disco più raccolto, dura poco più di quaranta minuti e le canzoni sono solo sette. Non serve di più per esprimere con consapevolezza un suono che ha trovato la sua definitiva dimensione, attraverso canzoni che funzionano tutte, sia nel rock sinistro di "Magnetic", sia nella tensione latente di "After The Sun", che si aggira per territori post rock, sia nella lunga, ondivaga e conclusiva "Spring", in cui le atmosferiche placide e il drumming leggermente in controtempo trovano accelerazione in un climax sferragliante in crescendo, che, poi, si dissolve nel liquido amniotico di una coda strumentale avvolta in un aura psichedelica.

The Unseen sancisce, dunque, la definitiva evoluzione della band francese, che ha quasi del tutto cancellato la parola metal dal proprio lessico, in favore di composizioni prog rock moderne, intelligenti, ricche di spontaneità e sentimento, in perfetto equilibrio fra adulta espressività e suggestiva immaginazione. Manca il singolo che può competere sul mercato, ma in fin dei conti, poco importa. Questo disco è bellissimo anche così.

Voto: 8

Genere: Prog Rock

 


 


Blackswan, lunedì 20/01/2025

venerdì 17 gennaio 2025

Lucinda Williams- Sings The Beatles From Abbey Road (Highway 20 Records, 2024)

 


Nato durante i giorni bui della pandemia, il progetto Lu’s Jukebox è composto da una serie di dischi con cui Lucinda Williams omaggia gli artisti che l’hanno maggiormente influenzata. Le pubblicazioni precedenti hanno visto la songwriter della Lousiana cimentarsi con la musica di Bob Dylan e dei Rolling Stones, con il Southern Soul, con una raccolta a sfondo natalizio e con una rivisitazione delle canzoni dell’amico Tom Petty.

Con questo nuovo episodio della serie, la Williams affronta quello che è decisamente il repertorio apparentemente più lontano dalla sua sensibilità. L'eclettico catalogo pop - rock dei Beatles potrebbe infatti non sembrare una scelta logica per la settantunenne cantante americana, che generalmente percorre strade secondarie più oscure e americanizzate. Eppure, a dispetto di tutto, la voce cupa, languida, paludosa e strascicata della Williams si collega sorprendentemente bene a queste composizioni firmate dalle divinità Lennon-McCartney (e Harrison). Registrare il disco, poi, ai mitici Abbey Road, ha aiutato a infondere nel progetto tutto il fascino degli anni '60, che ancora aleggia tra quelle iconiche mura.

E’ curioso come, tra l’altro, il disco sia stato registrato in soli due giorni, a causa dei ritmi serrati del tour della musicista e della disponibilità degli studi, e visto il risultato qualitativo finale si può affermare di essere di fronte a un mezzo miracolo.

Non tutte le ciambelle sono venute col buco: "Can’t Buy Me Love", brano tratto dal periodo più orientato al pop, sembra un po’ lontano dalle corde della Williams che si limita ad americanizzarla, senza grandi risultati, "Let It Be", una vera montagna da scalare, è riproposta in modo fedele, senza guizzi e, sempre a parere di chi scrive, l’iniziale "Don’t Let Me Down" suona un po’ debole rispetto all’originale.  

Il resto, però, funziona davvero bene, a partire da una "While My Guitar Gently Weeps" decisamente da brividi, e dalle ottime rivisitazioni, queste si, davvero nelle corde della songwiter, di "I’m So Tired" e "Yer Blues". Stupisce, poi, la scelta di "I'm Looking Through You" di McCartney, la canzone meno nota del lotto, che la Williams rallenta per enfatizzare la tensione di una storia d’amore al collasso.

In genere, gli arrangiamenti non si allontanano troppo da ciò che siamo stati abituati ad ascoltare negli ultimi cinquant’anni di rivisitazioni. Le ballate "Something", la citata "Let It Be" e la conclusiva "The Long and Winding Road" sono ridotte all'essenziale, lasciando che la voce espressiva della Williams coaguli tutte le emozioni che si provano a riascoltare canzoni baciate dal dono dell’eternità.

L’attitudine soul infusa nel meno noto brano dell'album Let It Be, "I've Got a Feeling", è messa in luce da vortici di organo che conducono a un assolo di chitarra bruciante, mentre la rilettura di "With a Little Help from My Friends" ricorda più l’interpretazione di Joe Cocker che quella contenuta in Sgt. Pepper.

Questo nuovo capitolo dei Lu’s Jukebox, così come dev’essere, non aggiunge e non toglie nulla alla storia dei Beatles e a canzoni che vestono già la perfezione nella loro dimensione originale. Tuttavia, la Williams riesce nella magia di conciliare due mondi apparentemente agli antipodi, restituendo all’ascolto nuove emozioni grazie alla sua fisicità e al timbro inconfondibile di una voce che, qualunque cosa canti, riesce sempre a toccare le corde del cuore.

Voto: 7,5

Genere: Rock

 


 

Blackswan, venerdì 17/01/2025

giovedì 16 gennaio 2025

Body Count - Merciless (Century Media, 2024)

 


Multimilionaria star del rap e acclamato attore, tanto cinematografico quanto televisivo, il sessantaseienne Ice-t potrebbe godersi una ricca pensione sotto il sole della sua Los Angeles. E invece, questo ragazzaccio che ha più polemiche alle spalle che capelli in testa, continua a tenere viva la propria carriera attraverso i Body Count, il suo progetto più ostico, militante, rabbioso e decisamente meno appetibile da un punto di vista commerciale.

Dai tempi di quella "Cop Killer" (1992), singolo che sollevò uno tsunami di critiche, coinvolgendo addirittura l’allora Presidente degli Stati Uniti, George Bush, il rapper californiano non ha smesso di stare sulle barricate, di polemizzare con il potere, di professare il suo credo antagonista senza mezze misure, a volte esagerando, ma sempre con invidiabile coerenza.

Non è da meno questo nuovo Merciless, uscito quasi in concomitanza con l’elezione di Trump e come di consueto focalizzato su temi che, purtroppo, non smettono di essere attuali, come il razzismo, la violenza della polizia nei confronti dei cittadini di colore, l’indiscriminata circolazione delle armi, foriera di violenza e dolore.

Ice-T non è certo un innovatore e la formula dei suoi dischi è immutabile: rabbia, ai limiti della ferocia, un mood cupo e pessimista, e un armamentario rap metal, insensibile alle mode, totalmente amelodico e pronto a saltare alla giugulare dell’ascoltatore con intenti esiziali e bellicosi.

Anche in questo caso, poi, non manca la pletora di ospiti illustri necessaria a innervare di ulteriore energia i brani in scaletta: Joe Bad dei Fit For An Autopsy, Max Cavalera dei Soulfly, Howard Jones, ex Killswitch Engage, George Fisher dei Cannibal Corpse e, udite udite, David Gilmour (ma su questa ospitata torneremo a breve).

Come detto, non ci sono novità in un suono ostico, violento, inossidabile, che declina una materia nota senza molta originalità, ma con un tiro che non ha perso un grammo di smalto nel corso dei decenni. La band è in palla, Ice-T rappa come un califfo, e l’approccio è gagliardo, possente, tirato a lucido dalla produzione di Will Putney (un’autorità in fatto di metal) e da una freschezza emotiva più consona a un ventenne che a un navigato musicista prossimo alla settantina.

Nemmeno un filler, in scaletta. A partire dalla devastante sassaiola death/trash di "The Purge", roba da fa saltare il padiglioni auricolari al più allenato metallaro, tutto funziona benissimo: la furia trash di "Psycopath", l’hip hop corazzato di "Fuck What You Heard" (violento j’accuse al sistema politico americano), l’incedere spietato di "Live Forever", appena ammorbidito dal ritornello pulito cantato da Howard Jones, il nu metal classicissimo di "Lying Motherfucka" o lo speed supersonico di "Drugs Lords".

Come consuetudine per i Body Count, e qui torniamo al citato David Gilmour, anche in Merciless non manca la cover. Nello specifico Ice-T ha scelto "Comfortably Numb" dei Pink Floyd, di cui ha riscritto interamente il testo, reinterpretandola in chiave rap. Questa rilettura, apriti cielo, ha scatenato parecchie polemiche fra i puristi, indignati come se si fosse bestemmiato in chiesa.  Ognuno la veda un po’ come vuole. Personalmente, trovo la cover ben fatta e concettualmente apprezzo di più chi, anche di fronte a un brano iconico, decide di reinterpretarlo alle sue condizioni, invece di arrendersi a un frusto copia incolla. Chi, sicuramente, ha gradito molto è lo stesso Gilmour, il quale non solo ha dato il benestare a Ice-T, ma ha fattivamente partecipato alla realizzazione del brano tessendolo attraverso le trame della sua inossidabile chitarra, con un lavoro di scintillanti precisione e potenza.

I Body Count continuano a picchiare duro senza compromessi, non cercano di forzare il proprio linguaggio a favore di un pubblico più ampio e si tengono lontani dai territori dell’originalità. Eppure, questi combattenti di lungo corso, dimostrano per l’ennesima volta di saper far convivere la forza bruta della loro musica con cuore e sentimento, tetragoni nel divulgare il proprio appassionato pensiero politico e la propria inesausta militanza. Lo facessero tutti, forse sarebbe un mondo migliore.

Voto: 8

Genere: Rap Metal

 


 


Blackswan, giovedì 16/01/2025

martedì 14 gennaio 2025

Claire Keegan - Quando Ormai Era Tardi (Einaudi, 2024)

 


«Era quello il problema, quando le donne si disamoravano; il velo di romanticismo che avevano davanti agli occhi cadeva, e quando guardavano oltre erano in grado di leggerti dentro». Dall’autrice di “Piccole cose da nulla” e “Un’estate”, una fotografia inquieta e perturbante delle relazioni tra uomini e donne. Un giorno, tornando dal lavoro, Cathal trova la casa vuota. Eppure era tutto pronto per il matrimonio, che cosa è andato storto? Soprattutto, di chi è la colpa? Una scrittrice prende possesso della residenza dove trascorrerà un breve ritiro, la stessa in cui Heinrich Böll ha lavorato ai suoi diari. Sembra lo scenario perfetto, almeno fino a quando la presunzione di un uomo non getterà un’ombra su quei giorni. Una «donna felicemente sposata» cerca un’avventura, vuole provare il sesso con un altro. Ritroverà il brivido dell’eccitazione, ma a quale prezzo?

 

Dopo aver letto le ottanta pagine di questo nuovo Quando Ormai Era Tardi, è evidente, anche al più distratto dei lettori, che qualcosa nel cuore di Claire Keegan è cambiato. L’impressione è che il suo asse emotivo si sia inclinato repentinamente, facendo pendere il mood della narrazione verso un terreno prima inesplorato, dove l’odio, il dolore, la violenza e la recriminazione abbiano attecchito con radici invasive.

Se, infatti, Un’estate raccontava la lenta, sommessa, ma inesorabile crescita di un amore capace di curare le ferite del più profondo dei dolori, e Piccole Cose Da Nulla narrava il percorso di consapevolezza di un uomo buono, che mette a repentaglio il proprio avvenire per fare la cosa giusta, sgretolando con un atto di coraggio l’ipocrisia di una società cattolica basata su un perbenismo di facciata, Quando Ormai Era Tardi è solo ed esclusivamente zona di guerra, un luogo desolato in cui la speranza è morta e restano cumuli di macerie, che restituiscono una fotografia respingente e cruda, ma estremamente realistica, dei rapporti fra uomo e donna.

Ottanta pagine, dicevamo, per tre racconti che lasciano senza fiato in uno stato di attonita prostrazione, perché ogni riga trabocca di un odio ancestrale e subdolo, in un’antitesi manichea in cui non esistono il bene e il male, il buono o il cattivo, ma soltanto i protagonisti di una messa in scena livida, marionette senz’anima di relazioni private non solo di ogni connotato affettivo, ma anche, e soprattutto, di ogni pudore etico.

Uomini mediocri, nocchieri di vite di piccolissimo cabotaggio, intimamente misogini e violenti: un impiegatuccio rozzo, anaffettivo e tirchio, un professore di tedesco invidioso e inacidito dalla vita, l’avventore di un bar, apparentemente placido e affabile, che in realtà nasconde un’anima nerissima. Tre figure apparentemente grottesche, se non fosse che la realtà le ha restituite ai nostri occhi decine di volte, che entrano in contatto con un mondo femminile tutto sommato desolante, le cui protagoniste sono mezze figure, clichè spersonalizzati, egocentriche e moralmente labili.

Il conflitto è inevitabile, la violenza arde silenziosa sotto le ceneri di un fuoco apparentemente inoffensivo, ma che improvvisamente divampa con conseguenze esiziali, anche se non una sola goccia di sangue viene versata. Lo sguardo cinico della Keegan analizza e seziona, sonda il profondo di queste sei anime perse, senza però schierarsi. Il risultato è una messa in scena avvilente, in cui la speranza nel prossimo, che aveva animato i due precedenti romanzi, è totalmente adombrata dall’evidenza inquietante di un’umanità senza futuro, cristallizzata in un hic et nunc vuoto, nichilista e sconfortante.

Un libro nero come la pece, in cui, ancora una volta, la straordinaria prosa della scrittrice irlandese vince a mani basse. Una scrittura che si serve di parole calibrate, taglienti e asciutte, che nella loro apparente povertà creano immagini indelebili (il finale dell’ultimo racconto vale da solo l’acquisto del libro), dando vita a ogni minimo particolare visivo, e coinvolgendo il lettore in una lettura che è anche olfatto, tatto, gusto e udito. L’ennesimo, coinvolgente libro di una scrittrice destinata a diventare un classico, e che dopo averci gonfiato il cuore d’amore, ora sceglie di raccontarci il male. Quello con la m minuscola, quello ordinario e quotidiano, un virus che infetta l’anima, e che la società odierna, col suo moralismo solo di facciata, non smette di insufflare nelle nostre vite.

 

Blackswan, martedì 14/01/2025

lunedì 13 gennaio 2025

Please Mr. Postman - The Marvelettes (Tamla, 1961)

 


Un mondo antico che non esiste più, quello delle lettere e delle cartoline, un mondo di attesa, avanguardia palpitante della lentezza. I lettori più attempati si ricorderanno quei giorni di batticuore, passati ad attendere la scampanellata del postino, i palpiti che precedevano la lettura di parole vergate a mano, scritte da un amore o un amico lontani dai nostri occhi, ma non dal nostro cuore. Oggi, il romanticismo sotteso agli scambi epistolari è svanito per sempre, sostituito dal qui e ora dei social, degli smartphone, dalla stilizzata banalità degli emoticon, che non porteranno mai in dono il profumo della carta, dell’inchiostro, di una lacrima di struggimento, che bagna una lettera d’addio o di un impossibile amor di lontananza.

Please Mr. Postman delle Marvelettes racconta, con ingenuità e trasporto, quei giorni di attesa e batticuore, che i giovani di oggi non comprenderanno mai, e il cui ricordo è affilato come un pungolo nostalgico nel cuore di chi, quei tempi andati, li ha vissuti:

 

Ci deve essere qualche parola oggi

Dal mio ragazzo così lontano

Per favore, signor postino, guardi e veda

C'è una lettera, una lettera per me

Sono rimasta qui ad aspettare il signor Postino

Con tanta pazienza, solo per un biglietto o solo per una lettera

Dicendo che sta tornando a casa da me

 

Le Marvelettes erano cinque ragazze adolescenti di Inkster, Michigan, la cui esperienza in musica si limitava ai cori nelle chiese locali. Quando fecero la prima l'audizione per la Motown, l'etichetta non era ancora dotata di propri songwriter, e quindi i manager, che avevano apprezzato le doti vocali del quintetto, offrirono un contratto alle ragazze, a patto che portassero del loro materiale da registrare. William Garrett, un cantautore amico di una di loro, Georgia Dobbins, offrì alle Marvelettes proprio quel brano che poi sarebbe diventato Please Mr. Postman. Garrett aveva inizialmente concepito la canzone come un blues, ma la Dobbins ci mise mano, la riscrisse completamente (salvò solo il titolo) e la insegnò alla cantante Gladys Horton.

Prima che le Marvelettes lo registrassero, Dobbins, però, lasciò il gruppo per prendersi cura della madre malata, e furono i produttori della Motown, Robert Bateman e Brian Holland (che insieme a suo fratello Eddie e Lamont Dozier, scrisse molti altri classici della Motown) a tirare a lucido il brano e trasformarlo in un grande successo.

Incredibile, ma vero, Marvin Gaye, che ai tempi aveva ventidue anni e stava cercando di affermarsi nel mondo della musica, venne assunto per suonare la batteria nel brano, alla cui stesura definitiva, poi, contribuì un vero e proprio postino.  Il suo nome era Freddie Gorman e il suo percorso quotidiano per la consegna della posta includeva le case popolari di Brewster, dove vivevano i membri delle Supremes. Gorman, che era un grande appassionato di musica, divenne più tardi voce del gruppo Motown, The Originals, e, prima della morte avvenuta nel 2006, fu songwriter e produttore per l’etichetta di Detroit, che con Please Mr. Postman guadagnò la sua prima piazza nelle classifiche americane.

D’altra parte, l'attesa di una lettera e altre storie legate alla posta erano comuni nelle canzoni di quest'epoca, quando il servizio postale forniva un mezzo di comunicazione primario (pensate a Return To Sender, che fu una grande hit di Elvis l'anno dopo). Non è un caso, allora, che il singolo successivo delle Marvelettes, Twistin' Postman, nel tentativo di replicare il successo, raccontava più o meno la stessa storia, quella, cioè, di una donna che aspetta una lettera dal suo ragazzo, e che dopo aver perso la speranza, finalmente riceve l’agognata missiva.

Il brano, visse una nuova vita di successi il decennio successivo, quando i Carpenters, ne fecero una cover per il loro album Horizon del 1975. Con Karen Carpenter alla batteria e un fantastico assolo di chitarra di Tony Peluso, Please Mr. Postman, in questa nuova versione, è stato il più grande successo dei Carpenters di sempre a livello mondiale, raggiungendo il primo posto negli Stati Uniti, Australia, Germania, Giappone e molti altri paesi, oltre a guadagnare la seconda piazza nelle classifiche del Regno Unito e del Canada.

 


 

 

Blackswan, lunedì 13/01/2025

venerdì 10 gennaio 2025

House Of Lords - Full Tilt Overdrive (Frontiers, 2024)

 


Quella degli House Of Lords è una gloriosa storia hard rock che si dipana nel corso di quasi quarant’anni, a partire dal 1988, quando cinque musicisti losangelini, provenienti da diverse esperienze, pubblicarono, sotto l’egida di Gene Simmons, bassista dei Kiss, il loro album d’esordio, che ottenne un buon riscontro sia di pubblico che di critica.

Da qui in avanti, la parabola artistica della band fu punteggiata da numerosi cambi di line up e dallo scioglimento avvenuto nel 1993, che mise in stand by il gruppo fino al 2004, quando uscì nei negozi il disco della resurrezione, The Power And The Myth.

Trascorsi quattro decenni, oggi l’unico membro originale degli House Of Lords è il cantante e bassista James Christian, a cui si sono affiancati Jimi Bell alla chitarra, Mark Mangold alle tastiere e Johan Kolemberg alla batteria. Ciò che non è mai cambiato, nonostante il passare del tempo, è la classe della band nel declinare la materia Aor e Hard Rock con immutato trasporto, e la qualità dei dischi pubblicati, sempre all’altezza di un nome che, negli anni, pur non uscendo dallo status di gruppo di culto, non ha perso un briciolo del proprio appeal.

Full Tilt Overdrive, a dispetto di una copertina non proprio attraente, è l’ennesima buona prova di una band che non ha perso smalto ed è rimasta ancorata a una forma espressiva pressochè immutabile nel tempo, il cui suono continua a costruirsi intorno ad accattivanti melodie, suntuosi tappeti di tastiere e riff di chitarra adrenalinici; tanto che, quando parte l’iniziale "Crowded Room", con le sue armonie, gli hook e il suo riff arrembante, la sensazione è quella di trovarsi di fronte a un inossidabile marchio di fabbrica.

Se la formula è ormai consolidata, non mancano tuttavia le canzoni, tutte decisamente buone: "Bad Karma" è il manuale d’istruzioni su come scrivere la perfetta canzone Aor, la title track è una sgasata a cento all’ora che ricorda i Deep Purple di "Highway Star", "Taking The Fall", con il suo retrogusto country blues, fa il verso al Bon Jovi di "Dead Or Alive", mentre gli accenni orrorifici che contornano "You’re Cursed" nulla tolgono alla potenza melodica di un brano tagliato in due da un assolo spettacolare di Jimi Bell.

Se "Not The Enemy", con il suo vestito metal moderno, è un po’ fuori contesto, la power ballad "I Don’t Want To Say Goodbye" riporta immediatamente le suggestioni all’arena rock con vista anni ’80. Il disco, poi, si chiude con i nove minuti abbondanti di "Castles High", una lunga suite costruita come un brano progressive e contraddistinta dalla consueta ottima melodia.

C’è mestiere e consapevolezza, in questo nuovo Full Tilt Overdrive, ennesimo capitolo di una band che ha dribblato le ingiurie del tempo e che continua a sfornare dischi, forse non indispensabili, ma di sicuro pregio. Gli House Of Lords non tentano strade alternative, non stupiscono per originalità, ma gli va dato atto di sapere come si scrive un’accattivante canzone rock. Basta poco a renderci felici.

Voto: 7

Genere: Hard Rock, Aor

 


 

 

Blackswan, venerdì 10/01/2025

mercoledì 8 gennaio 2025

Ray LaMontagne - Long Way Home (Liula Records, 2024)

 


In ormai vent’anni di carriera, Ray La Montagne è diventato un nome fondamentale per il folk rock di matrice americana. Basta dare un breve sguardo al suo curriculum per rendersi conto di quanto, anno dopo anno, è accresciuta la grandezza artistica del songwriter originario di Nashua, New Hampshire.

Il suo debutto del 2004, Trouble, è stato certificato disco di platino, mentre Till the Sun Turns Black del 2006 e Gossip In The Grain del 2008 hanno ottenuto certificazioni d'oro. Sempre per Per Trouble, LaMontagne ha vinto quattro premi, tra cui tre Boston Music Awards (miglior cantante/compositore maschile, album dell'anno e canzone dell'anno) e un XM Nation Music Award per l'artista rock acustico dell'anno. Ha ricevuto anche una nomination ai Pollstar Concert Industry Awards come miglior nuovo artista in tournée, un BRIT Award come artista emergente a livello internazionale, un MOJO Award come miglior nuovo artista e, nel 2006, gli è stato conferito il titolo di miglior voce da Esquire. LaMontagne ha ricevuto, inoltre, due nomination ai Grammy e ha vinto il premio per il miglior album folk contemporaneo per God Willin' And The Creek Don't Rise del 2010. Un pedigree decisamente impressionante.

Ciò nonostante, LaMontagne ha scelto di stare lontano dai riflettori e dalla celebrità, continuando a scrivere splendide canzoni, senza svendere la propria arte alle mode e alla visibilità mediatica. In otto album in studio, nove con quest’ultimo, LaMontagne ha lasciato che le sue canzoni e la sua storia parlassero da sole, toccando una corda profonda nel subconscio americano, senza mai forzare la mano, lasciando la sua musica libera da ogni condizionamento.

Long Way Home è il primo lavoro di LaMontagne da Monovision, uscito nel 2020, e nasce da un episodio risalente alla sua giovinezza e, evidentemente, mai dimenticato. A ventun anni, in un piccolo club di Minneapolis, il songwriter ricorda di aver visto Townes Van Zandt esibirsi dal vivo. Un verso della sua "To Live Is To Fly" lo ha letteralmente fulminato: “When here you been is good an gone, all you keep is the getting there”. Un momento catartico, decisivo, su cui LaMontagne ha riflettuto a lungo per dare vita a questo suo nuovo album: "Trent'anni dopo mi rendo conto che ogni canzone di Long Way Home in un modo o nell'altro onora il viaggio. I giorni languidi della giovinezza e dell'innocenza. Le innumerevoli battaglie dell'età adulta, alcune vinte, più spesso perse. È stata una strada lunga e dura, e non la cambierei di un minuto. Mi ci sono volute nove canzoni per esprimere ciò che Townes è riuscito a dire in un verso. Immagino di avere ancora molto da imparare".

Prodotte in tandem con Seth Kauffman (Floating Action, Angel Olsen, Lana Del Ray), le nove tracce toccanti di Long Way Home richiamano l'esplosione folk-rock dei primi anni '70, inserendosi nel filone revivalista che LaMontagne ha contribuito in modo determinante ad alimentare. Registrate nel corso di alcune settimane nel suo studio di casa, le nove canzoni in scaletta hanno visto il contributo di vecchi e nuovi collaboratori: le Secret Sisters regalano i cori nelle prime tre tracce, mentre l'album è stato progettato e mixato dal team di LaMontagne, il citato Seth Kauffman e Ariel Bernstein.

Un disco onesto, riflessivo, e versatile, nonostante la breve durata, che spazia dal saltellante soul dell’iniziale "Step Into Your Power" al Neil Young citato nella morbida "And They Called Her California", al velluto country di "I Wouldn’t Change a Thing" fino alla sgranata malinconia della conclusiva title track.

LaMontagne dimostra, con questo nuovo lavoro, di possedere una consapevolezza superiore e, soprattutto, di non aver perso nulla, in termini di sincerità, dal suo celebrato esordio Trouble. Una certezza che scalda il cuore con canzoni semplici ed emozioni vere.

Voto: 7,5

Genere: Americana, Country, Rock

 


 

 

Blackswan, mercoledì 08/01/2025

martedì 7 gennaio 2025

Fleetwood Mac - Mirage Tour '82 (Warner, 2024)

 


Dopo un disco più sperimentale come Tusk e il successo commerciale di Bella Donna (1981), primo album solista della cantante Stevie Nicks, i Fleetwood Mac, guidati dal produttore Ken Caillat, se ne vanno in Francia, per registrare presso gli studi Le Château di Hérouville, quello che sarà il loro tredicesimo album in studio. L’idea è di rinverdire i fasti commerciali di Rumours (1977), percorrendone le stesse coordinate sonore, ed evitando l’approccio più cerebrale e complesso del disco precedente. Il livello di ispirazione non è più lo stesso, però, e Nicks e Buckingham vivono apertamente una rivalità, anche artistica, che li porta spesso a litigare e a fare i capricci come bambini viziati, perché negli studi, dove soggiornano, viene servito cibo che ritengono inadeguato e  manca la televisione.

In questo clima non proprio idilliaco, viene concepito Mirage, un disco meno centrato dei due predecessori, ma capace comunque di lanciare sul mercato un filotto di singoli ("Hold Me", "Gipsy", "Oh Diane", "Love In Store" e "Can’t Go Back") che fanno dell’album il quarto multi platino consecutivo della band e il loro terzo numero uno negli States, non raggiungendo, tuttavia, gli stessi risultati in Inghilterra, dove mancano la prima piazza, arrestandosi alla quinta posizione.

Nel settembre 1982, a supporto di Mirage, i Fleetwood Mac intrapresero un tour di trentuno date attraverso diverse città degli Stati Uniti, tra cui due (entrambe sold out) al Forum di Los Angeles (21 e 22 ottobre), le cui migliori esecuzioni sono racchiuse in questo live per creare un’unica, e riuscitissima, esperienza di concerto.

Questa collezione live, composta da ventidue tracce, presenta sei registrazioni inedite dello spettacolo del 21 ottobre 1982, tra cui classici come "Landslide", "Don't Stop" e "Never Going Back Again". Le altre canzoni sono state registrate durante lo spettacolo del 22 ottobre e sono apparse in varie uscite nel corso degli anni, tra cui Live Super Deluxe Edition (2021), Mirage Super Deluxe Edition (2016) e il video del concerto del 1983 Mirage Live.

Se in studio la convivenza tra i cinque era spesso burrascosa, è altrettanto vero che la band dal vivo viaggia ad altezze vertiginose. Erano anni in cui Mick Fleetwood, John McVie, Christine McVie, Lindsey Buckingham e Stevie Nicks vivevano all'apice della loro potenza collettiva, e in questo live è del tutto evidente la carica travolgente dei Fleetwood Mac nell’affrontare vecchi e nuovi successi.

 

Il disco inizia con un filotto di canzoni da far girare la testa: "Second Hands News", una scorbutica e ringhiante "The Chain", l’innodica "Don’t Stop" e l’oscura e sensuale "Dreams", in cui la Nicks dà vita alla consueta prova vocale da brividi. 

La successiva "Oh Well" è un omaggio ai Fleetwood Mac di Peter Green, e i quattro minuti della canzone sono interpretati con una furia elettrica dagli effluvi acidi che lascia senza fiato. E non è da meno "Rhiannon", spogliata di ogni delicatezza pop e resa in una versione ruvida, graffiante, in cui la Nicks strattona il testo con un’interpretazione in crescendo roca e collerica, che trova perfetto contrappunto nella chitarra acuminata di Buckingham.

Splendide anche la malinconica "Brown Eyes" da Tusk, che vede la McVie sugli scudi, i due gioiellini melodici tratti dal nuovo Mirage ("Gipsy" e "Love In Store") e una torrenziale "Not That Funny" (da Tusk), rock acido e metropolitano, chiuso da una lunga coda strumentale.

Non è da meno il secondo disco, che si apre con l’allegrezza acustica di "Never Going Back Again" e con un gioiello senza tempo come "Landslide", cantata dalla Nicks con un’intensità che sbriciola il cuore. Non posso mancare, ovviamente, hit come la delicata "Sara", la travolgente "Go Your Own Way", una chilometrica e sferragliante "Sisters of The Moon" (ennesima, intensa interpretazione della Nicks) e la chiosa, lasciata come di consueto, ai tre minuti struggenti di "Songbird", immenso lascito della compianta Christine McVie.

Mirage Tour 1982 è l’ennesimo live dei Fleetwood Mac che merita di essere inserito fra le cose migliori della band, e che, come era successo con il precedente Rumours Live (2023), svela l’anima rock di una band che in quegli anni, dal vivo, era una vera e propria macchina da guerra. Sono in tal senso chiarissime le note di copertina del giornalista musicale Bill DeMain che definisce la raccolta "un ascolto avvincente e il ricordo di un'epoca in cui gli spettacoli rock erano piattaforme per espandere e reinventare canzoni per il palco, per lasciarle respirare, per scatenare lati diversi e più selvaggi di una band".

Voto: 8

Genere: Live, Rock, Pop

 


 

 

Blackswan, martedì 07/01/2025