venerdì 31 ottobre 2025

Franck Thilliez - 1991 (Fazi, 2025)

 


Conclusa la scuola ispettori, Franck Sharko a trent'anni approda a Quai des Orfèvres, prestigiosa sede dell'anticrimine di Parigi. È l'ultimo arrivato: gli assegnano i compiti più noiosi e trascorre il suo tempo negli archivi passando al setaccio centinaia di informazioni alla ricerca di un indizio utile per risolvere un vecchio caso. Tra il 1986 e il 1989 tre donne sulla trentina sono state rapite, brutalmente uccise e abbandonate in campi di periferia. Nonostante centinaia di deposizioni, notti insonni e denunce, il predatore è ancora in libertà. Siamo all'inizio degli anni Novanta, le indagini procedono ancora alla vecchia maniera: computer, cellulari, internet sono novità di cui si comincia solo vagamente a sentir parlare, come di un sogno futuristico. Ma Sharko scalpita, vuole dimostrare di meritare il suo posto nella squadra. Una notte di dicembre, uscendo dagli archivi ormai deserti per tornare a casa, intercetta un uomo in preda al panico. Ha in mano una foto – ritrae una donna legata, il volto coperto da un sacchetto di carta con sopra disegnati occhi e bocca – e gli racconta una storia confusa riguardo a una lettera con un enigma da risolvere e una poesia di Baudelaire. Sharko non ci pensa due volte: decide di aggirare le procedure e occuparsene di persona. Ha finalmente l'occasione di uscire dai box e iniziare la sua corsa.

 

Se, come il sottoscritto, siete amanti del genere thriller, vi dò subito un consiglio: uscite di casa adesso e compratevi questo nuovo romanzo di Franck Thilliez, perché è una vera bomba.

Protagonista assoluto è per la prima volta Franck Sharko, un giovane detective, che dopo l’accademia, viene reclutato dall’anticrimine di Parigi. Come ogni novellino, Sharko viene adibito a noiosi lavori di scrivania, uno dei quali è rileggere i faldoni di un’indagine su un serial killer, archiviata anni prima senza un colpevole. Mentre scopre che uno dei documenti relativi all’inchiesta è misteriosamente sparito, Sharko si imbatte suo malgrado in un altro efferato delitto, che vede come vittima una donna brutalmente massacrata. Operando alacremente su due fronti, il giovane detective giungerà, tra mille peripezie, a scoprire la verità sui feroci assassini.

Ispirato in parte, credo, ai delitti della stazione di Perpignan, un terribile fatto di cronaca che sconvolse la Francia a cavallo della fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, 1991 è il classico thriller che risucchia fin dalla prima pagina, obbligando il lettore a stare incollato a una vicenda torbida e sconvolgente.

Thilliez gestisce ottimamente i tempi della suspense, dissemina indizi su cui si costruisce una lenta ma inesorabile caccia all’uomo, e non lesina i colpi di scena, rendendo appassionante l’intreccio fra due indagini parallele, il cui mistero è nascosto nelle pieghe del passato.

Tutto funziona al meglio nelle pagine di 1991: l’intreccio credibile e non di facile risoluzione, le atmosfere cupe di una Parigi lontana dagli stereotipi da cartolina, la caratterizzazione dei personaggi, finalmente vividi, pur nella loro tipizzazione, e soprattutto la prosa, decisamente più solida ed espressiva che in alcuni romanzi del passato.

Uno dei miglior thriller di questo 2025, che sta lentamente volgendo al termine.

 

Blackswan, venerdì 31/10/2025

mercoledì 29 ottobre 2025

Lindsey Buckingham & Stevie Nicks - Buckingham Nicks (Rhino, 2025)

 


Quando nel 1973, Lindsey Buckingham e Stevie Nicks entrano al Sound City di Los Angeles per registrare il loro album d’esordio, sono due giovani di belle speranze, che sbarcano il lunario grazie alla Nicks, che mantiene vivi i sogni di gloria lavorando come donna delle pulizie e cameriera. Affiancati da Keith Olsen, produttore che aveva già messo mano al lavoro della James Gang, la band di Joe Walsh pre-Eagles, il duo, legato da una relazione sentimentale oltre che artistica, ottiene a fatica un contratto con la Polydor, ma nonostante le idee chiare, una produzione raffinata e un pugno di canzoni di livello, porta a casa un fiasco clamoroso in termini di vendite.

La Nicks, sconfortata dal pessimo risultato, è sul punto di mollare, anche in virtù di una promessa fatta al padre di tornare all’università in caso di insuccesso. Il fato, tuttavia, ha ben altri progetti per la coppia. Mick Fleetwood che durante le registrazioni del disco è presente negli studi, sente Buckingham suonare l’assolo su "Frozen Love" e se ne innamora perdutamente, chiedendogli di entrare a far parte dei Fleetwood Mac, a quei tempi in stand by discografico. Buckingham accetta, a condizione, però, che nel progetto venga inclusa anche la Nicks. Affare fatto: il sogno si avvera, i due musicisti entrano nella line up dei Mac e pubblicano, insieme al resto della band, l’omonimo album del 1975, un successo clamoroso grazie proprio alle idee della coppia mutuate dal loro trascurato esordio.

Del quale, fino a oggi, nonostante la grande qualità delle composizioni, esisteva solo la versione in vinile, praticamente introvabile, e qualcosa in streaming, ma di qualità scadente. La Rhino ha rimesso mano a quei nastri, li ha rimasterizzati e pubblicati su cd, per la gioia di tanti fan dei Fleetwood Mac e di tutti coloro curiosi di poter finalmente ascoltare in grazia di Dio, quello che può essere considerato la matrice di tutti i successi che arriveranno dopo (in primis, Rumours).

In tal senso, Buckingham Nicks è un disco che miscela con gusto californiano pop, rock e folk, un raffinato melange racchiuso in dieci canzoni che trovano la loro peculiarità nei celestiali intrecci vocali fra i due musicisti, nella versatilità di Lindsey Buckingham, tanto elegante nel fingerpicking quanto incisivo nel plasmare assoli di chiara derivazione rock, e nella voce solista della Nicks, il cui timbro, mai privo di tensione drammatica, sa accarezzare con languore, conturbare nell’alternanza fra chiari e scuri, e sedurre con dirompente sensualità.

Alla scaletta, manca forse un po’ di quella furbizia che plasmerà i successi lavori dei Fleetwood Mac, ma il songwriting, sia disgiunto che in coppia, è già di livello stellare, mentre sono evidenti un po’ ovunque i semi di quel sublime suono Aor che in seguito verrà perfezionato in capolavori come “il nuovo esordio” del 1975 e Rumours del 1977.

"Stephanie", ad esempio, è un grazioso strumentale, dono d'amore che Buckingham scrisse per la Nicks mentre lei era a letto per una mononucleosi infettiva, ed è una delle tante canzoni che mettono in evidenza la raffinata tecnica del fingerpicking che il chitarrista avrebbe poi utilizzato in "Never Going Back Again", mentre "Lola (My Love)" richiama alla mente la celebre "The Chain", sviluppando un testo sessista per cui Buckingham oggi probabilmente arrossirebbe ("She does everything a woman can, When I come home").

"Crying In The Night", nonostante il testo cupo che riflette le difficoltà della Nicks di affermarsi nel mondo della musica, apre il disco mettendo in mostra le incredibili doti vocali della cantante e regala all’ascolto la purezza luminosa di un pop rock succoso come una pesca addentata sotto il sole californiano.

Se è vero che Buckingham asseconda alla perfezione la scrittura della Nicks, per converso è evidente che lo stresso cerchi altre formule espressive più personali, come avviene in "Django", breve strumentale e cover dell’omaggio reso dal pianista jazz statunitense John Lewis al re del gypsy jazz, Django Reinhardt.

Dal canto suo, la Nicks offre alcune canzoni più eccentriche rispetto a ciò che sarà in futuro: la sua melodia vocale in "Races Are Run" possiede modulazioni meravigliose e davvero insolite, così come in "Long Distance Winner", un pezzo favoloso sulle difficoltà per un musicista di affermarsi, connotato dall’utilizzo di un guiro (uno strumento a sfregamento di origine africana) prominente e pruriginoso (e che assolo, Buckingham!).

In questi casi, come altrove, le sonorità ricche e vivide di Keith Olsen, cesellate da quello che in futuro sarà il fonico di Rumours, Richard Dashut, danno un potente impulso a rendere la scrittura della Nicks di una bellezza stordente.

Tra tanti gioielli, la gemma che fece perdere la testa a Mick Fleetwood è la conclusiva "Frozen Love", un superbo brano folk rock dalle trame quasi progressive, in cui le chitarre (acustica ed elettrica) di Buckingham si intrecciano, esattamente come le due voci vivono in un connubio celestiale, prima che la canzone rallenti sul fingerpicking del chitarrista e l’arrangiamento d’archi insuffli una tensione drammatica che sfocia in un assolo da capogiro.

Un ultimo appunto. Il più grande ostacolo alla realizzazione del disco, fu la copertina dell'album, in cui la Nicks e Lindsey compaiono nudi, ideata e realizzata dal fratello di Waddy Wachtel, Jimmy. La Nicks era semplicemente inorridita dall’idea di posare senza veli, e fu solo l’insistenza di Buckingham a convincerla che quella foto altro non era che semplice arte.

 


 

 Blackswan, mercoledì 29/10/2025

martedì 28 ottobre 2025

Stan - Eminem (Aftermath, 2000)

 


Incredibile ma vero, Eminem ha contribuito ad arricchire la lingua inglese, inventando una parola che, nel 2017, è stata inserita nell’Oxford American Dictionary, una sorta di Accademia della Crusca della lingua anglo-americana. Questa parola, titolo di una delle sue più celebri canzoni, è “stan”, termine che, per il dizionario sopra citato, sta a indicare un fan eccessivamente ossessionato da una particolare celebrità, e che può essere utilizzato sia come sostantivo che come verbo.

"Stan", per tornare alla canzone, racconta, infatti, la storia di un fan ossessionato da Eminem, che molesta continuando a inviargli lettere. Dal momento che la sua corrispondenza rimane senza risposta, Stan perde il lume della ragione, sviene, si risveglia, mette la sua ragazza incinta nel bagagliaio dell’auto e si getta a tutta velocità giù da un ponte. La canzone si conclude con Eminem che finalmente decidere di rispondere, ma ormai è troppo tardi: mentre sta finendo di scrivere la lettera, il rapper si rende conto che l'uomo di cui si parla nel notiziario è Stan ed è precipitato dal ponte. 

Il ritornello del brano è un sample di "Thank You", un brano della cantautrice britannica Dido apparso per la prima volta nel film con Gwyneth Paltrow del 1998 Sliding Doors, e poi inserito nel suo album di debutto del 1999, No Angel. La canzone di Dido parla dell'uomo di cui si è innamorata, perché l’ha aiutata a uscire da una lunga depressione. "Stan" ne riprende l'intera prima strofa, inclusa la frase d'apertura, molto britannica:

"Il mio tè si è raffreddato, mi chiedo perché

Mi sono alzata dal letto da sola"

Dido si riprende dal suo malessere quando le capita in mano una foto del suo ragazzo e il suo cuore torna a palpitare d’amore. Anche Stan conserva gelosamente una foto di Eminem, ma la relazione con l’oggetto delle sue attenzioni, a differenza della canzone di Dido, è assolutamente malsana.

Fu il produttore di "Stan", Mark "The 45" King, a scovare la canzone di Dido e a inserire il sample nel brano. La fece ascoltare a Eminem, che diede la sua approvazione, e produssero la canzone prima di chiedere il permesso. Dido ricevette all'improvviso una lettera con una demo per sentire come avevano usato "Thank You", e ne fu entusiasta. La giovane songwriter, pertanto, acconsentì a cedere i diritti a Eminem e, poiché il suo sample è un momento decisivo per il brano, il suo nome fu inserito nei crediti della canzone. Dido ha scalato diversi gradini verso la fama grazie proprio a "Stan".

Nel 1999, infatti, era un'artista che stava gradualmente guadagnando successo con il suo album No Angel, che aveva venduto circa 200.000 copie, quando "Thank You" fu utilizzata in "Stan", circa 18 mesi dopo l’uscita del suo debutto. "Thank You" fu, allora, pubblicata, come singolo e raggiunse il terzo posto nelle classifiche statunitensi nell'aprile del 2001. Dido iniziò un tour da headliner, partecipò a talk show e vide le vendite dell'album decollare, raggiungendo i 4 milioni solo negli States. L'ascesa di "Stan" la fece conoscere anche nel suo paese natale, il Regno Unito, dove la canzone ebbe un enorme successo e No Angel vendette ben 3 milioni di copie, diventando il più venduto debutto di un'artista solista.

In America, invece, "Stan" ebbe un modesto successo, con una posizione sorprendentemente bassa in classifica, al numero 51, perché la maggior parte delle stazioni radio non voleva una canzone di cinque minuti e mezzo su un uomo che fa cadere la moglie incinta da un ponte. Mentre nel Regno Unito, come accennato, fu la seconda hit di Eminem in vetta alla classifica, dopo "The Real Slim Shady".

Il video musicale vede Devon Sawa nei panni di Stan e Dido in quelli della moglie incinta. Sawa, che hai tempi era venticinquenne e aveva recitato in Casper e Final Destination, era davvero un fan di Eminem e quindi accolse con entusiasmo l’invito per partecipare al clip. Ma era una seconda scelta, perché il primo a essere contattato fu Macaulay Culkin, la star di Mamma, Ho Perso l'Aereo, che invece rifiutò sdegnosamente la parte.

La Gay and Lesbian Alliance Against Defamation (GLAAD) al momento della pubblicazione del singolo, sollevò un polverone, sostenendo che Eminem fosse omofobo e che avesse fomentato l'odio con la frase in cui Stan scrive "Avremmo potuto stare insieme" ed Eminem risponde "Questo è il genere di cose che mi fa pensare che non dovremmo incontrarci". Ma quando il rapper cantò "Stan" alla serata dei Grammy del 2001 insieme a Elton John al pianoforte e nella parte di Dido, quest’ultimo prese le difese del musicista e in seguito i due strinsero un sincero rapporto di amicizia.

Eminem fu difeso a spada tratta anche da Dido, con cui ebbe un ottimo rapporto, tanto che la cantante, in un intervista al Guardian disse:” La gente lo confonde con i personaggi delle sue canzoni. E’ come Stephen King. Scrive cose spaventose e distorte oltre ogni limite. Ma non sono reali. Mi sono avvicinata abbastanza a Eminem da sapere che non è misogino o omofobo”.

Una curiosità. Il primo figlio di Dido è nato presso l'ospedale privato Portman di Londra nel luglio 2011. E indovinate un po’? Lo ha chiamato Stanley.

 


 

 

Blackswan, martedì 28/10/2025

lunedì 27 ottobre 2025

The Vintage Caravan- Portails (Napalm Records, 2025)

 


L’hanno fatto di nuovo! Quattro anni dopo lo splendido Monuments del 2021, il power trio islandese The Vintage Caravan torna con un nuovo entusiasmante album, Portals, che riaccende la fiamma dell’heavy rock blues ispirato alle band classiche di fine anni '60 e inizio anni '70. E nuovamente sfornano uno dei dischi migliori dell’anno.

Di questa band non si parla ancora tanto, almeno nel nostro paese, ma chi ha avuto modo di metter mano ai cinque album precedenti, sa esattamente di che pasta sono fatti questi tre ragazzi e di cosa siano stati capaci in quattordici anni di un crescendo artistico inarrestabile.

Portals (il titolo prende il nome dai vari intermezzi musicali che separano le canzoni dell’album) farà impazzire gli amanti di quel suono vintage che il trio islandese ostenta con orgoglio nel proprio nome. Attenzione, però. Non siamo di fronte al solito recupero nostalgico, frusto e ritrito, di chi non riesce ad accettare che la musica, piaccia o meno, si è voluta nel corso dei decenni. Se, infatti, il genere è legato agli anni gloriosi del rock, i Vintage Caravan sanno metterci mano con idee, intuizioni e una dinamicità tale da rendere la vecchia chincaglieria oro luccicante.

Sono molte le frecce all’arco della band nordica. In primo luogo, una caratura tecnica coltivata fin da quando Óskar Logi Ágústsson (voce e chitarra), leader carismatico del gruppo, ha cominciato a far musica fin dai tempi del liceo, facendo germogliare lentamente i semi del progetto. Nel corso degli anni, il trio si è consolidato definitivamente con l’inserimento nella line up del bassista Alexander Örn Númason e del batterista Stefán Ari Stefánsson, sezione ritmica tanto solida quanto eclettica, forza propulsiva dall’impatto deflagrante e carburante nobile che innesca le frequenti rumorose scorribande.

Se dal punto di vista tecnico la band assurge a livelli sopraffini, non sono da meno le capacità di scrittura del trio, che arricchisce la proposta di una visione più ampia, che attinge al progressive e alla psichedelia, e che, soprattutto, mette al centro della stanza la capacità di creare melodie accattivanti, che generano ritornelli assassini, tanto innodici quanto predisposti a incantare il pubblico radiofonico.

Apre il disco "Philosopher" con una breve intro acustica e sognante, prima che il lento crescendo esploda in un heavy rock gravido di groove e svisate bluesy, basso e batteria impetuosi, un assolo da sverniciare le orecchie e il primo di tanti ritornelli memorabili. Ospite del brano è Mikael Akerfeldt degli Opeth, la cui inconfondibile voce duetta con quella limpida e potente di Ágústsson in un connubio a dir poco perfetto.

Segue "Days Go By", un blues rock retrò galoppante e travolgente, che mette di nuovo in evidenza tutti i punti di forza della band, a partire dal cantato e del lavoro funambolico alla chitarra del leader. Materia antichissima, certo, ma ascoltate come è arrangiato il brano e come lo svolgimento trova piccoli, ma decisivi scarti alla prevedibilità.

"Here You Come Again" parte con un basso sinuoso che anticipa uno sferragliante groove da urlo: un brano solare e ritmatissimo, un riff di chitarra pazzesco, basso e batteria che rombano come una tempesta e il ritornello che si vorrebbe ascoltare altre mille volte.

Poi arriva "Current", un brano che inizia morbido su partiture folk blues crepuscolari per poi accendersi in un mid tempo blues/psych più cupo e lento. La voce di Agustsson è meravigliosamente evocativa, mentre in sottofondo un hammond brucia a lenta combustione e la band si prepara a una deriva jam finale che cavalca il brano a rotta di collo. Sette minuti di perfezione totale.

In realtà, ogni brano della scaletta ha motivi per essere ricordato, anche quando le cose si fanno più ovvie come "Give And Take", un rock blues pesantissimo, basso e batteria serrati: qui la goduria sta ancora una volta in un ritornello micidiale e in quel inaspettato controcanto che arriva improvviso, tocco di genio di un terzetto che possiede una consapevolezza incredibile.

L’inizio mesto di "Crossroads" introduce l’ennesimo episodio degno nota: la linea di basso è circolare e poderosa, mentre la struttura del brano pesca dal progressive, in un susseguirsi di rallenti e accelerazioni coagulate intorno alla voce salvifica del leader.

"Alone" è un martello rock che sfocia nel refrain più orecchiabile del disco, "Freedom" spinge sulla velocità grazie a un rapido e incisivo attacco di chitarra, mentre i riff esplodono uno dopo l’altro alimentati da una batteria indomita e un basso potentissimo, prima che Agustsson picchi dentro un assolo da impazzire. Pugni alzati, headbagging e pogo serrato sotto il palco: ragazzi, questo è rock all’ennesima potenza!

Il disco dura un’ora, ma non ci si stanca mai di ascoltare quest’orgia di chitarre elettriche e di musica suonata in grazia di Dio. E quando mancano quattro canzoni alla fine, si sente quella che Borges chiamava nostalgia del presente, il disco sta finendo, ma vorresti continuasse per sempre. 

"Riot" apre il gran finale con il suo hard rock ritmato e frenetico, il basso che tira come una mandria di cavalli allo stato brado e il ritornello che è puro fulmicotone, "Electrified" possiede un groove saltellante che rallenta improvviso per dar spazio a una melodia quasi pop, mentre "My Aurora" si gioca la carta del colpo di scena, aprendo l’ultimo portale con la sua texture country blues malinconica e dolcissima. Chiude "This Road", un heavy blues rock arrabbiato che spinge il disco in territori chiaramente settantiani, scartavetrati da un assolo di chitarra pazzesco.

Ora, che questo disco, come si suol dire, non inventi la ruota, e mostri impunemente le sue stigmate derivative (con i correttivi più sopra esplicitati), non ci vuole un genio a capirlo. Eppure i Vintage Caravan possiedono quelle doti qualitative che permettono loro di impossessarsi di un genere quasi come ne fossero gli inventori. Nei solchi di questo disco c’è l’essenza stessa del rock, in cui le varie declinazioni (metal, hard, bluesy e psych) convivono attraverso una passione e un entusiasmo che lasciano sbalorditi. Se poi a suonarlo ci sono tre autentici fuoriclasse, il cerchio si chiude e il godimento è assicurato. Non lasciatevelo scappare.

Voto: 9

Genere: Hard Rock, Rock

 


 

 

Blackswan, lunedì 27/10/2025

giovedì 23 ottobre 2025

Someone Saved My Life Tonight - Elton John (DJM Records, 1975)

 


Quinta traccia del bestseller Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy, Someone Saved My Life Tonight, perfettamente in linea con il concept autobiografico dell’album (dedicato agli anni in cui John e Taupin stavano cercando di affermarsi in campo musicale) racconta di un periodo della vita di Elton in cui, musicista alle prime armi, stava per sposare una donna ricca e affascinante di nome Linda Woodrow. Il che sarebbe stato un sesquipedale errore come raccontato dallo stesso John qualche tempo dopo: “Quando ero più giovane, stavo per sposarmi. Una sera sono uscito e mi sono ubriacato insieme a Long John Baldry e Bernie, e John mi ha detto che non avrei dovuto sposarmi. Sapevo che aveva ragione, ma non sapevo come uscirne, quindi mi sono ubriacato, sono tornato a casa e ho detto a Linda che non mi sarei sposato".

"Sugar Bear", come viene identificato nella canzone, è, dunque, Long John Baldry, colui che ha salvato la vita al musicista, impedendogli di contrarre un matrimonio solo di facciata, un matrimonio che lo avrebbe reso infinitamente infelice.

Il nocciolo del significato della canzone è in qualche modo circondato da elementi visivi che servono a preparare la scena per l'evento principale, ovvero Elton che dice addio a questa donna che lo stava spingendo a un matrimonio che, nel profondo del suo cuore, sapeva sarebbe stato una bugia a più livelli. A proposito delle liriche del brano, fu lo stesso Taupin a precisare: “È pieno di immagini, come la maggior parte delle canzoni di quell'album. Stavo sicuramente cercando di evocare un'atmosfera e di proiettare un momento in cui eravamo alle prese con le questioni banali della vita, le lotte quotidiane per arrivare a fine mese. Quindi, quando ascolto quella canzone ora, mi fa davvero pensare a cieli grigi e strade bagnate, pub fumosi; in definitiva, a quella sensazione di fragilità che ti prende dentro quando non sei sicuro del futuro”.

Secondo Linda Woodrow, era l'estate del 1970 quando Elton ruppe improvvisamente il fidanzamento, lasciandola devastata. All'epoca, lei, Elton e Bernie Taupin condividevano un appartamento a Londra, ma dopo la rottura del fidanzamento lei si trasferì negli Stati Uniti. Linda, nonostante il dolore per il lutto sentimentale, non ha mai nutrito alcun rancore nei confronti di John, ma si arrabbiò molto con Taupin, i cui versi “Mi avevi quasi legato e bloccato, legato all'altare, ipnotizzato” unitamente ai successivi “E mi sarei tuffato con la testa nel profondo letto di un fiume, aggrappandomi alle tue azioni e obbligazioni, pagando per sempre le tue richieste di acquisti a rate” (una sorta di metafora per un uomo gay sposato che si trova fisicamente e mentalmente limitato in un matrimonio di convenienza) la prostrarono profondamente.  

Che il rapporto fra il musicista e la Woodrow rimase, invece, ottimo, lo si comprese ben cinquant’anni dopo. Linda Woodrow era la direttrice di uno studio medico a Dallas, con il nome di Linda Hannon. Le sue ore di lavoro erano state ridotte a causa dell'epidemia di COVID-19 e aveva bisogno di una protesi al ginocchio, ma non poteva permettersi di prendersi cinque settimane di ferie per operarsi e guarire. Quando Elton venne a conoscenza della difficile situazione di Linda, si offrì immediatamente di aiutare la sua ex fidanzata nel momento del bisogno.

Nonostante l'epifania contenuta in questa canzone, la prima volta che Elton si sposò fu con una donna, Renate Blauel. Si sposarono nel 1984 e divorziarono nel 1988. Le successive relazioni stabili di Elton, invece, furono solo con uomini: nel 2005 lui e David Furnish si unirono civilmente, e poi, si sposarono nel 2014, l'anno in cui il matrimonio gay divenne legale in Inghilterra.

Elton scrisse la musica di "Someone Saved My Life Tonight" nel 1975, mentre era in crociera su una nave chiamata SS France, dove usò il pianoforte di bordo per scrivere molte delle canzoni che poi usò per l'album. Dovette, tuttavia, comporre a spizzichi e bocconi, perché a bordo c'era anche una cantante lirica che aveva prenotato il pianoforte per la maggior parte del tempo.

Un’ultima curiosità. Quando Tommy Mottola, il celebre produttore musicale e talent scout, comprese che il suo matrimonio con Mariah Carey stava andando a rotoli, accelerò la loro separazione lasciandole sul tavolo della cucina un biglietto con uno dei versi più emozionanti della canzone: "Le farfalle sono libere di volare, di volare via".

 


 

 

Blackswan, giovedì 23/10/2025

mercoledì 22 ottobre 2025

Chameleons - Arctic Moon (Metropolis Records, 2025)

 


Quella dei Chameleons potrebbe essere definita come una venerata band di culto, figlia del movimento post punk, genere riletto, però, con un surplus di romantica malinconia, grazie a due album spettacolari, Script Of The Bridge (1983) e What Does Anything Mean? Basically (1985). Poi, dopo un terzo disco (Strange Times del 1986) e la morte del manager Tony Fletcher, lo scioglimento, un lungo iato, un paio di rielaborazioni di vecchio materiale a inizio millennio e, finalmente, il ritorno.

Ventiquattro anni senza pubblicare un disco sono tantissimi, ed è quasi naturale che, con tutta l’acqua passata sotto i ponti, la band sia diventata qualcos’altro. Il suono, infatti, si è evoluto: non siamo più nel regno del potente e risonante post-punk degli anni '80. L'atmosfera generale di questo nuovo Artic Moon assume, semmai, una dolcezza soffusa, intrecciando sfumature soft rock, sottili digressioni psichedeliche e un raffinato tocco glam. Il tutto declinato attraverso il consueto mood malinconico e l’utilizzo di quelle chitarre riverberate che rappresentano, seppur in un contesto diverso, l’elemento più distintivo della band.

Le fonti di ispirazione per questo nuovo album dichiarate dal cantante e bassista, Mark Burgess, includono David Bowie, Beatles, T-Rex, così non è un caso se uno dei migliori brani in scaletta s’intitoli "David Bowie Takes My Hand", chiaro omaggio al duca bianco, che dopo un inizio acustico che rimanda a "Space Oddity", si sviluppa per otto minuti in cui si intrecciano malinconia e psichedelia, intimismo meditabondo e un lento librarsi nell’immensità del cielo, in un fluttuare di bellezza cosmica. Una canzone da capogiro, diversa da tutto quello che i Chameleons hanno fatto prima, ma probabilmente uno dei brani più intensi della loro storia.  

Una versione ri-registrata di "Where Are You?" (già presente nell’omonimo EP), è il brano più potente in scaletta, un’affermazione di rinascita spinta dal ringhio delle chitarre, uno scarto deciso rispetto al passato, che apre il disco indicando la strada per il futuro. Arctic Moon è composto da solo sette canzoni (nonostante la durata sia di quarantacinque minuti), a testimonianza che la band ha scelto con cura la musica da offrire, evitando ridondanze e riempitivi, e puntando solo al meglio. La qualità, quindi non manca.

"Lady Strange" dondola sulle chitarre ed esercita un fascino irresistibile nell’alternarsi di chiaro scuri, di rallenti e accelerazioni, la sensuale "Magnolia" avvolge l’ascoltatore nelle sue spire psichedeliche e quando accelera è da urlo, mentre "Free Me" riscrive le regole per comporre la perfetta canzone dream pop.

In scaletta, poi, ci sono altri due gioiellini: "Feels Like The End Of The World" è illuminata da superbi arrangiamenti d’archi, e scivola lentamente verso un finale ipnotico e struggente, da batticuore, mentre "Saviours Are A Dangerous Thing", singolo e brano che sigilla il disco, si sviluppa incalzante su cristalline tessiture di chitarra, che esaltano il cantato cupo e malinconico di Burgess e la consueta melodia avvincente.

Arctic Moon è un disco vibrante ed emotivamente intenso, trainato dal superbo lavoro alle chitarre di Stephen Rice e Reg Smithies, perfettamente supportati dal drumming essenziale di Todd Demma, dal tappeto cangiante delle tastiere di Danny Ashberry e dal contributo della Real Strings in Manchester di Pete Whitfield, che infonde agli arrangiamenti un autentico calore orchestrale.

Chi si aspettava dai Chameleons una replica del suono glorioso degli anni’80, però, resterà deluso. Questo nuovo esordio non riscrive il passato, ma lo lascia ai libri di storia, creando, invece, una diversa, ma non meno affabulante narrazione, che guarda a una seconda vita artistica.

Voto: 8

Genere: Rock

 


 

 

Blackswan, mercoledì 22/10/2025

lunedì 20 ottobre 2025

Amanda Shires - Nobody's Girl (Ato Records, 2025)

 


Da sempre musicista inquieta, incapace per indole di adattarsi ai rigidi confini della musica country, verso la quale ha da sempre avuto un approccio improntato al crossover, Amanda Shires continua a scrivere canzoni come veicolo per raccontarsi, per mettersi a nudo, per esprimere, senza artifici, le emozioni che si celano nel profondo del suo animo.

Se il precedente, bellissimo Take It Like a Man (2022) affrontava con il cuore in mano le diverse sfaccettature del suo essere donna, decisa, fascinosa e sensuale, ma anche fragile, vulnerabile e contraddittoria, questo Nobody’s Girl racconta con altrettanta sincerità la separazione dal marito Jason Isbell (tema esplicitato fin dal titolo).  

Finora, è stato lui a gestire la narrazione, nelle interviste e indirettamente nel disco uscito quest’anno, Fooxes In The Snow, in un modo che ha minimizzato il contributo di Shires alla sua carriera e ha lasciato intendere che lei (proprio lei che lo strappò al tunnel infernale dell’alcolismo) stesse logorando il suo impegno per la sobrietà. Con Nobody's Girl, la Shires, dopo aver taciuto per lungo tempo, prende finalmente la parola, e lo fa attraverso tredici brani laceranti, in cui la songwriter originaria di Lubbock cerca di dare un senso alla fine del suo matrimonio durato undici anni.

A volte è arrabbiata, certo, ma la rabbia è solo una parte di un complicato mix di emozioni che tendono più al dolore, allo smarrimento e persino al desiderio di rivalsa. Sebbene la Shires dica la sua in Nobody’s Girl, non sta, però, regolando i conti con Isbell. Il quale, per quanto sia il fulcro della narrazione, resta tutto sommato, marginale: questo è soprattutto il disco di una donna ferita, che scandaglia la disperazione che ha provato, la stanchezza e l'insicurezza, e in definitiva la forza e la determinazione che saranno necessarie per ricostruire la sua vita alle sue condizioni. Un cammino faticoso, irto di ostacoli emotivi e di ferite da lenire, ma necessario per riaccendere la fiamma della speranza.

Queste canzoni riflettono, quindi, l'arduo processo di "riprendere la strada", come canta in "A Way It Goes", una canzone che sembra perennemente sull'orlo delle lacrime mentre fluttua su nuvole d’archi, un drive di pianoforte in tonalità minore e una ritmica leggera (“quando ho sentito nel mio cuore spuntare piume, mi sono sorpresa a sognare di nuovo”). Perdersi e ritrovarsi, dannazione e redenzione.

La Shires ha collaborato nuovamente con Lawrence Rothman, che ha prodotto il suo album del 2022 Take It Like a Man: insieme hanno creato un approccio musicale coeso perfettamente funzionale alle liriche amare: un pianoforte crepuscolare è il fulcro su cui si poggiano molti di questi brani, arricchiti anche da chitarra acustica, morbidi sintetizzatori, steel guitar e violini. Persino gli arrangiamenti musicali più anomali (le chitarre rumorose e ringhianti di "Piece of Mind" o il ritmo incalzante che guida "Strange Dreams") sono al servizio della sua voce, che, al netto di canzoni bellissime, è il punto focale dell’album.

Ed è così che deve essere: Shires è sempre stata una cantante incredibilmente espressiva, ma non è mai stata più efficace di quanto lo è in Nobody's Girl. In "Maybe I" la sua voce suona triste ed esausta, con un tono sommesso, che poi si fa più forte e sicuro, appoggiandosi a un semplice riff di pianoforte ripetuto e sul crescendo della steel guitar. Al contrario, c'è una vena di rabbia nel modo in cui canta "Piece of Mind": la Shires oscilla tra il risentimento e il dolore per essere stata lasciata sola a frugare tra le macerie del suo matrimonio, e per il fatto di accettare lentamente che la relazione fosse finita, cancellandone però le tracce che poteva (“Finalmente ho smesso di contare le notti e le mezzanotte, arrivando alla stessa conclusione, era davvero finita, Ci è voluto un po' per interiorizzarlo, Ho un nuovo tavolo da pranzo, Ho ridipinto le pareti, mi sono sbarazzato di ogni prova che tu fossi mai stato qui”).

In "The Details", il brano più tagliente dell'album, chiarisce che non lascerà che il passato venga cancellato, dimenticato. C’è tanta tristezza quanto rabbia nel riassunto che la Shires fa del suo matrimonio e della successiva rottura, mentre sgocciolano malinconici accordi di pianoforte: “Cancelli i dettagli, E io sono storia, Non importa quanto nitidi, conservi i ricordi, Li riscrivi, così puoi dormire”. Non cerca l’attacco frontale, la battuta di grana grossa o la cattiveria fine a se stessa: attraverso la nebbia del dolore e la complicata rielaborazione del lutto, la Shires usa il fioretto e colpisce nel segno, usando poche parole per ricordare a Isbell che dignità e rispetto sono importanti tanto quanto l’amore.

Ammaccata, addolorata, forse più fragile, ma di nuovo padrona della propria vita e dei propri sogni. Un piccolo conforto, che disvela la possibilità di un nuovo inizio.

Voto: 8

Genere: Americana

 


 

 Blackswan, lunedì 20/10/2025

giovedì 16 ottobre 2025

Alex Michaelides - La Furia (Einaudi, 2025)

 


Sull’isola privata dell’ex star del cinema Lana Farrar, nelle Cicladi, la situazione è fuori controllo. Come ogni anno l’idea dell’attrice era di trascorrere le vacanze di Pasqua con gli amici più stretti, lontano dai riflettori e dal freddo di Londra. Ma Lana ha sottovalutato il carico di rancori, tensioni e veleni che i suoi ospiti si sono portati dietro. Ben presto, con l’arrivo di una tempesta di pioggia, gli screzi degenerano in scenate, poi in liti durissime e alla fine in un omicidio. A raccontarci questa storia di vendette e desideri inconfessabili è lo sceneggiatore Elliott Chase, il miglior amico di Lana, o almeno così sembra. Uno che con le parole ci sa fare, anche troppo.

 

Alex Michaelides è uno scrittore che sa costruire storie avvincenti, tenendosi lontano da stereotipi e canovacci consunti. Nato a Cipro, il romanziere greco vanta un curriculum di tutto rispetto, avendo studiato letteratura inglese a Oxford e cinema all’American Film Institute di Los Angeles. Un background, questo, che emerge chiaramente nella sua terza opera, La Furia, un thriller che si legge d’un fiato, avvincente e ricco di colpi di scena, ma che offre al lettore molto di più di una semplice trama noir.

Questo romanzo, infatti, è un frullatore in cui Michaelides mixa, con intelligenza, i suoi studi classici, gli archetipi della lettura gialla, dinamiche teatrali mutuate da Shakespeare e dalla tragedia greca e uno sguardo incantato sul cinema hollywoodiano degli anni ’40.

Impossibile, ad esempio, non identificare il personaggio di Lana Farrar con le grande icone di fascino e bellezza che contribuirono a definire lo stile di un epoca, quel “divismo” che divenne uno strumento per gli studi cinematografici hollywodiani al fine di creare celebrità e modelli per il pubblico di massa, influenzando moda e cultura. L’ambiguo Elliott Chase, protagonista principale del romanzo, narratore e voce fuori campo, si rivolge, poi, al lettore come il grande drammaturgo inglese, spesso e volentieri, si rivolgeva direttamente ai fruitori della sua opera, fossero questi i lettori o il pubblico che assisteva alla messa in scena delle sue piece teatrali.

E se le dinamiche e la location del noir sembra essere presa in prestito da un romanzo di Agatha Christie (un assassinio, un luogo circoscritto, così come circoscritto è il numero dei possibili colpevoli), l’isoletta, gli accenni alla cultura ellenica e il momento del redde rationem finale sono evidenti riferimenti alla grande tragedia greca. C’è tanto, quindi, da piluccare in un romanzo che riesce a mantenere la giusta tensione fino alle ultime pagine, grazie alla voce narrante di Elliott, che tiene in pugno il lettore, lo blandisce, lo conduce a spasso per un trama di cui, lentamente, scopre tutte le carte, non prima di averle mischiate a dovere.

Una prosa di ottima fattura e l’approfondimento psicologico dei personaggi principali fanno de La Furia un thriller sui generis, culturalmente forbito e avvincente, anche se il finale scricchiola leggermente rispetto alla solida impalcatura costruita nelle pagine precedenti.

 

Blackswan, giovedì 16/10/2025

mercoledì 15 ottobre 2025

Ros Gos - In This Noise (Beautiful Losers, 2025)

 


Con No Place uscito lo scorso anno, sempre per l’etichetta Beautiful Losers, Ros Gos completava la sua personale trilogia dedicata al viaggio. Un cammino iniziato nella desolazione del deserto (Lost In The Desert), proseguito negli abissi dell’Inferno dantesco (Circles) e arrivato a destinazione in un luogo - non luogo (il citato No Place), approdo finale di una profonda riflessione sul senso dell’esistenza.

Il viaggio come ricerca di se stessi, un percorso accidentato e faticoso fra luci e ombre, dolore e speranza, perdizione e redenzione, tra le macerie di un’umanità fragile, ferita, zoppicante, persa nell’autodifesa del nichilismo, spesso incapace di tenere dritta la barra dell’etica, ma, in qualche modo, ancora capace di estemporanei slanci vitali alla ricerca di una pace tanto interiore quanto universale.

In tal senso, quel disco si concludeva con "I Still Need You", un barbaglio di sole che penetrava la bruma malinconica della scaletta, un ancora di salvezza dal male circostante, un pungolo di ottimismo per invitare le coscienze a guardare al futuro, tenendosi stretta una piccola, ma necessaria speranza.

Che dopo un anno, un solo anno, è svanita completamente. Se nei precedenti lavori, nonostante il mood inquieto e depresso, la trama della narrazione talvolta si sfilacciava per consentire a brevi fremiti di positività di penetrare nel diffuso senso d’angoscia, con In This Noise la luce si spegne. Quella forza multiforme e potente, fonte di verità, conoscenza e salvezza, è stata risucchiata definitivamente, inghiottita dalle tenebre, simbolo di ignoranza, malvagità e morte.

Questo è, dunque, il disco nero di Ros Gos, un disco nero come la pece del mondo che ci circonda. Come può la speranza trovare romito nelle nostre anime, se tutto quello che siamo costretti a vedere è distruzione, morte, carestia, se alle urla di dolore e al pianto disperato si contrappone solo il becero latrato dei mastini della guerra?

Se il suo predecessore si sviluppava in modo vario e fascinoso attraverso melodie, per quanto non di facile presa, ma decisamente accattivanti, e optava per un suono più stratificato e rotondo, In This Noise imbocca una strada che va nella direzione opposta, che si pone in netta contrapposizione con il passato. Le nove canzoni in scaletta sono scarnificate, vestono abiti francescani, scelgono una frammentazione in cui il silenzio, in contrapposizione con il rumore di fondo che circonda le nostre esistenze, riveste la stessa importanza dei pochi strumenti della mise en place.

Il mood, questa volta, non è solo umbratile e malinconico, ma addirittura spettrale, il dolore è palpabile, il senso di tragedia incombente toglie il fiato, gli arrangiamenti di Andrea Liuzza sono minimal ma decisivi e calibrati, e le distorsioni di chitarra affidate a Massimo Valcarenghi spingono il rumore esterno nelle trame delle canzoni, slabbrando il doloroso impianto melodico.

Unica consolazione in questo mare nero di perdizione, è la bella voce di Ros Gos, arresa eppure calda, sofferente ma traboccante di sincera umanità, velluto che avvolge lo scheletro tremante di una musica che raschia la gola come la sabbia del deserto.

Se le consuete fonti di ispirazioni (Mark Lanegan e Steve Von Till su tutti) sono ancora evidenti, giunto a questo nuovo capitolo della sua carriera, Ros Gos ha definitivamente rifinito uno stile distintivo, messo in luce da canzoni dolorosamente belle come "Before The Sunset", "In The Dark", "Regrets" e "Migraine B" (il testo struggente è di Barbara Vecchio), solo per citarne alcune.

In This Noise non è un disco di facile ascolto, addirittura respingente di primo acchito, eppure, in queste nove canzoni si racchiude una bellezza ispida e ossuta, che nasce dallo sguardo lucido, consapevole ed empatico di un musicista che osserva il mondo e ce lo racconta, senza alcun filtro se non quello della propria compassionevole sensibilità.

Voto: 9

Genere: Avant Folk, Songwriter

 


 

 

Blackswan, mercoledì 15/10/2025

martedì 14 ottobre 2025

Daron Malakian And The Scars On Broadway - Addicted To The Violence (Scarred For Life, 2025)

 


In attesa di vedere i System Of A Down nuovamente in Italia (sbarcheranno il 6 luglio del 2026 all’Ippodromo Snai La Maura di Milano) e in assenza di nuovo materiale pubblicato dal gruppo americano di origini armene da ben cinque anni (due singoli pubblicati a sorpresa nel 2020), i fan della band potranno consolarsi con il nuovo disco del chitarrista Daron Malakian, intitolato Addicted To The Violence, il terzo pubblicato con il nome del suo progetto parallelo Scars On Broadway.

Mente pensante dei SOAD insieme all’alter ego Serj Tankian, autore di quasi tutte le canzoni più importanti del loro repertorio ("Chop Suey!", "Lonely Day", "Toxicity", “Innervision”, etc), il chitarrista recupera, pro domo sua, tutti gli elementi che hanno reso grande la band losangelina: i riff di chitarra serrati e allucinati, le belle melodie, talvolta ammantate da una coltre malinconica, la struttura bizzarra e decisamente poco lineare delle composizioni, un pizzico di folk armeno e testi arrabbiati e politicizzati. Il tutto in una visione più ampia, in cui una certa teatralità, retaggio del cantato funambolico di Tankian, lascia il passo in favore di una suono ancora più rumoroso, e di quel tono, tra lo scanzonato, il tossico e il cinico, che sono un marchio di fabbrica del chitarrista.

Il livello di ispirazione è altissimo, le canzoni sono un frullatore di tutte le idee che da sempre caratterizzano la scrittura di Malakian, il quale, da ultimo, ha anche imparato a cantare, mestiere non suo, ma qui esercitato alla perfezione. In scaletta, solo dieci canzoni, per un minutaggio di trentasette minuti che, se da un lato fanno venir voglia di averne di più, dall’altro, garantiscono efficacia a un disco impetuoso e violento come il fulmicotone.

"Killing Spree" apre l’album con un botto, una corsa alla velocità della luce a cavallo di chitarre anfetaminiche, mentre la voce selvaggia di Malakian canta: “Insanity Controlling Me, Society The Kids Are On a Killing Spree”. Due dita negli occhi ai ben pensanti, così come nella successiva "Satan Hussein", altro brano ferocissimo, in cui l’invettiva politica si fonde con il surreale: “Your Mother Has Big Tits, She Rules The Government, I’L Make Her Walk Through Shit Just To Punish”.

Entrambe le tracce avrebbero fatto un gran bella figura in uno qualsiasi degli album dei SOAD, e non sono le uniche. "Imposter" è una fucilata che farà scatenare l’ascoltatore in un headbanging intenso, è un pieno di energia pura, possiede un ritornello immediato e uncinante oltre che un assolo di chitarra esaltante, mentre "Destroy The Power", introdotta da una linea di basso trita tutto, gioca, come ai bei tempi, con l’alternarsi fra la spietatezza di un riff di chitarra nu metal e un ritornello deliberatamente innodico.

Non mancano ovviamente i riferimenti a certo folk armeno, insito sottotraccia nel delirante ballo derviscio di "Your Lives Burn", una tirata tanto rapida quanto esiziale, ed esplicitati, invece, nel mid tempo nostalgico della fascinosa “Watch That Girl”. Addicted To The Violence contiene, poi, anche una splendida ballata "The Shame Game", che incorpora nel mix alcune texture elettroniche con i riff di chitarra, dando vita a un suono cupo e malinconico e a un'atmosfera sinistramente oscura.

Chiude il disco la title track, un gioiellino che testimonia la versatilità di scrittura di Malakian, capace di far convive in un unicum attrattivo metal, pop, synth, cultura armena, e un grumo di lacerante malinconia contenuto nel respiro epico di una melodia senza tempo.  

Senza tirare in ballo capolavori come Toxicity e il primo omonimo album dei SOAD, questo Addicted To The Violence viaggia comunque altissimo, è puro ossigeno per i fan di lungo corso, orfani inconsolabili della band, e la dice lunga sulla vitalità compositiva di Malakian, uno che ha scritto, e continua a farlo, pagine imprescindibili nella storia del metal.

Voto: 8

Genere: Metal, Rock 




Blackswan, martedì 14/10/2025

lunedì 13 ottobre 2025

Thank U - Alanis Morissette (Maverick Records, 1998)

 


Il successo, si sa, è un’arma a doppio taglio: da un lato, l’appagamento, la fama, il denaro e tutti i privilegi che ne derivano; dall’altro, la costante preoccupazione di doversi ripetere per non sprecare quanto guadagnato, il timore di perdere il senso della misura, di non riuscire più a riconoscere ciò che conta davvero, e il terrore, insistente, pungolante, che tutto svanisca di colpo, che il sogno si trasformi in incubo, che la luce dei riflettori si spenga, lasciando un buco nero, un vuoto incolmabile.

Alanis Morissette trascorse più di un anno in tour per promuovere il suo album del 1995 Jagged Little Pill, uno sforzo immane, che la bruciò fisicamente ed emotivamente. Per l'anno e mezzo successivo, l’allora trentunenne musicista canadese si prese molto tempo libero per decomprimere e riflettere su quello che le era accaduto, su quel successo travolgente, per raggiungere il quale aveva sacrificato gran parte di se stessa.

Tutta quella stanchezza, tutti i dubbi e le paure confluiranno in "Thank U", terza traccia di Supposed Former Infatuation Junkie, altro best seller che vide la luce il 3 novembre del 1988.

Una canzone in qualche modo catartica, visto che la Morissette si trovava a vivere in una dimensione di elusiva beatitudine, perché aveva ottenuto tutto quello che la società le aveva offerto in termini di rilevanza mediatica e gratificazione economica. Eppure, non era in pace. Iniziò a mettere tutto in discussione e a comprendere che in realtà ogni cosa era solo un’illusione, e la parte più importante della sua anima si stava dissolvendo in una specie di morte, spaventosa e al contempo seducente. "Thank U" trabocca, quindi, di compassione verso se stessa e verso tutti coloro che le stavano intorno, a cui doveva un’enorme quantità di gratitudine.

Disillusione, fragilità e silenzio sono queste le cose di cui la Morissette ringrazia nel brano, ma in cima alla sua lista c'è l'India, dove la songwriter canadese aveva trascorso del tempo nel 1997 facendo un viaggio illuminante attraverso quei luoghi magici, ma soprattutto attraverso la propria anima. 

L’iconico video che accompagna la canzone fu immaginato dalla Morissette mentre era sotto la doccia. A tal proposito, la cantante dichiarò in un’intervista a PopMatters: “l'idea per quel video mi è venuta sotto la doccia: stavo pensando alla canzone, alla sua semplicità e al suo mettersi a nudo, e ho pensato: “non sarebbe fantastico se potessi semplicemente camminare per la città con il solo simbolismo di essere nuda ovunque andassi?'. Meno sulla sessualità palese e più sul simbolismo di essere davvero nuda e intima in tutti questi ambienti in cui apparentemente avresti bisogno di protezione, come in una metropolitana e in quel genere di posti”.

Nel clip, dunque, Alanis canta nuda in mezzo a una strada cittadina deserta. I suoi capelli le coprono il seno e il suo sesso è stato oscurato digitalmente per rendere il video adatto alle famiglie. Le riprese avvennero nel centro di Los Angeles per due notti di fila e un isolato della città fu chiuso per poter girare il video. La Morissette fu costretta a coprirsi con un po’ di lattice, perché, secondo le leggi americane, girare nudi per le strade comportava l’immediato arresto.

"Thank U" è stato il primo singolo tratto da Supposed Former Infatuation Junkie, che venne pubblicato tre anni dopo il popolarissimo Jagged Little Pill. L'attesa creò molta richiesta di nuovo materiale di Alanis e fece guadagnare alla canzone un airplay immediato, quando fu pubblicata. In America, Supposed Former Infatuation Junkie ha stabilito il record per il maggior numero di copie vendute da un'artista donna nella prima settimana (con 460.000 copie vendute), e ha poi continuato a vendere fino ad arrivare a tre milioni. Il brano è stato anche nominato per un Grammy come miglior voce pop femminile, ma ha perso contro "I Will Remember You" di Sarah McLachlan.

Morissette ha scritto e prodotto questa canzone con il suo collaboratore di Jagged Little Pill, Glen Ballard, che ha anche suonato chitarra, pianoforte e sintetizzatore nel brano. Nell'album Jagged, avevano un budget misero, ma erano riusciti a convincere Benmont Tench dei Tom Petty & the Heartbreakers a suonare l'organo in alcune canzoni in cambio di una cena. Benmont è tornato anche per Supposed Former Infatuation Junkie e ha suonato in "Thank U" (presumibilmente con un compenso più sostanzioso).

 


 

Blackswan, lunedì 13/10/2025

giovedì 9 ottobre 2025

Jon Batiste - Big Money (Verve, 2025)

 


E’ incomprensibile come un artista del calibro di Jon Batiste in Italia abbia così poco seguito. Musicista non facile da definire, il prodigio di New Orleans ha trovato il suo posto al sole seduto davanti a un pianoforte, e da allora si è mosso con disinvoltura tra jazz club, teatri, programmi televisivi e stadi. Attivo dalla fine degli anni ’90, ha suonato praticamente con tutti (Stevie Wonder, Willie Nelson, Lenny Kravitz, Billy Joel, etc.), ha collezionato ben cinque Grammy, un Oscar e un Golden Globe per la colonna sonora del film d’animazione Soul, esibendosi ovunque, dal Super Bowl alla Casa Bianca. Eppure, qui da noi, se lo filano in pochi, nonostante un singolo come Freedom (2022) abbia fatto il giro di tutte le radio commerciali.

L'ultimo progetto di Batiste, Big Money, conferma lo straordinario talento del songwriter americano: non è un capolavoro come il precedente We Are (2022), ma suona semmai come una ricalibrazione, un ritorno all'essenza delle sue radici, rielaborate come di consueto con i piedi ben piantati nel presente.

Il titolo è volutamente ingannevole nella sua semplicità: riguarda tanto le realtà materiali della sopravvivenza in America, dove la ricchezza può costruire il futuro o svendere la democrazia alla logica del profitto, ma anche e soprattutto la moneta invisibile che ci sostiene: tradizione, creatività e amore. La nostra più grande ricchezza è energia spirituale e ne abbiamo bisogno per vivere e costruire.

Ciò che distingue Big Money dal precedente catalogo di Batiste è la sua immediatezza. Registrato in sole due settimane con il leggendario Dion "No I.D." Wilson, l'album è stato costruito più sull'istinto che sulla pianificazione. I due si conoscevano da anni, si scambiavano dischi e storie di famiglia, rendendosi conto persino di essere lontani cugini. Quando finalmente si sono chiusi in studio, le canzoni sono nate rapidamente, in solo due settimane. Quasi tutto in presa diretta.

I risultati sono grezzi e vivi, ma anche caldi e avvolgenti. Batiste, questa volta, ha utilizzato molto di più la chitarra, uno strumento che porta con sé durante i tour, per cristallizzare più facilmente abbozzi di canzone. Questo cambiamento ha dato a Big Money un'energia più sciolta e vissuta rispetto ad alcuni dei suoi lavori precedenti, più simile a un diario ritmato che a una dichiarazione meticolosamente rifinita.

Ciò non significa che il progetto sia privo di profondità, di grandi canzoni. "Lean On My Love" (in duetto con Andra Day) è una ballata soul pop da capogiro, vellutato punto d’incontro seventies tra Stevie Wonder e Bee Gees, la title track, invece, un esuberante r’n’b che pesca dagli anni ’50 ed evoca la bella copertina vintage.

Una dopo l’altra, le canzoni conquistano per la grande immediatezza, per la capacità di Batiste di ripescare la tradizione e renderla attuale, per la volontà di far divertire l’ascoltatore esattamente come si è divertito lui a suonare.

Il blues ipnotico di "Lonely Avenue" (portata al successo da Ray Charles nel 1956) in duetto con il grande Randy Newman è da brividi, così come "Maybe", ballata per pianoforte e malinconia che potrebbe essere uscita direttamente dal primo songbook di Tom Waits o la nervosa "Pinnacle", inebriante di sentori sudisti. E per sparigliare ulteriormente le carte della sua onnivora ispirazione, Batiste si cimenta con "Angels", un riuscito esperimento reggae che chiude il disco come un punto esclamativo.

La carriera di Batiste ha già attraversato così tanti mondi che può essere difficile immaginare dove non sia ancora arrivato. Big Money, tuttavia, suggerisce che il suo interesse principale sia ora quello di ridurre al minimo le cose, di abbandonarsi alla vulnerabilità e di fidarsi del proprio istinto. Nonostante la sua urgenza, Big Money non è semplicemente un grande esempio di musica impulsiva, è semmai un invito a danzare, ad abbandonarsi al potere della musica, una ricchezza che ha a che vedere con l’anima e non coi dollari. Ed è la prova che Batiste, anche all'apice del successo, si rifiuta ancora di fermarsi su un unico binario e vivere di rendita.

Voto: 8

Genere: Soul, Blues, R&B, Rock 




Blackswan, giovedì 09/10/2025

martedì 7 ottobre 2025

Maneater - Hall & Oates (RCA, 1982)


 

"…è seduta con te, ma i suoi occhi sono sulla porta

Così tanti hanno pagato per vedere

Quello che pensi di ottenere gratis

La donna è selvaggia, una gatta addomesticata dalle fusa di un giaguaro

I soldi sono la questione

Se ci sei dentro per amore, non andrai troppo lontano"

 

Brano di apertura di H2O (1982), undicesimo album in studio della premiata ditta Hall & Oates, "Maneater" parla di una donna molto seducente, che sfrutta gli uomini per soddisfare i propri gusti dispendiosi (“i soldi sono la questione”).  

La canzone è rimasta per quattro settimane al primo posto in America, diventando il più grande successo statunitense degli anni '80 a presentare un assolo di sassofono (a opera di “Mr.Casual” DeChant). "Maneater" sfrutta nel testo lo stesso escamotage utilizzato dagli Eagles in "Hotel California", che nel verso “Her mind is Tiffany twisted" citavano un marchio di lusso per fotografare la personalità della protagonista del brano. Per Hall & Oates, la maneater è, invece, come "una gatta domata dalle fusa di una Jaguar", riferimento esplicito a un automobile di lusso, perfetta citazione per descrivere le brame di una donna, sensibile solo al denaro e agli status symbol.

"Maneater" è una delle numerose canzoni di Hall & Oates alla cui stesura ha contribuito la fidanzata di lunga data di Daryl Hall, Sara Allen, che viene accreditata nella traccia insieme al duo. L’apporto di Allen fu decisivo nello sforbiciare il testo del ritornello, originariamente molto più lungo e musicalmente molto meno allettante.

Il video che accompagna il brano non è certo quello che può essere definito un capolavoro. D’altra parte, MTV era agli albori, e Hall e Oates, dei clip, interessava poco o niente. Tant’è che, alla resa dei conti, i due si trovarono a eseguire pedissequamente quello che gli veniva chiesto durante le riprese, costituite per lo più da inquadrature ravvicinate della band che si esibisce in un locale dopo l'orario di chiusura, e da quelle occasionali di una ragazza accostata a una pantera. Una vera pantera, che appare nel video per pochi secondi, al costo folle di 10.000 dollari. Leggenda vuole che l’animale “mangia uomini” fosse saldamente legato al pavimento, ma che a un certo punto, non si sa come, riuscì a liberarsi, scatenando un fuggi fuggi generale, di cui, ancora oggi, Daryl Hall si ricorda con molta apprensione.

La canzone è considerata oggi un evergreen che fa battere il cuore ai tanti nostalgici degli anni ’80, un brano che avuto molta fortuna anche al cinema, comparendo nella colonna sonora di Se Scappi Ti Sposo, commedia romantica interpretata da Julia Roberts e Richard Gere, di The Secret Life of Walter Mitty, con Ben Stiller e Kristen Wiig (nella versione, però, di Grace Mitchell) e in quella di Fidanzata In Affitto, il cui protagonista, Andrew Barth Feldman (affiancato da una conturbante Jennifer Lawrence) ne esegue una struggente cover al pianoforte.

Una curiosità. Nel 2011, due fan hanno creato una linea telefonica chiamata "Callin' Oates", attraverso la quale, chi ha un disperato bisogno di ascoltare una canzone di Hall & Oates, viene immediatamente esaudito: per ascoltare "Maneater", si doveva digitare il 719-26-OATES e premere 3.

 


 

 

Blackswan, martedì 07/10/2025

lunedì 6 ottobre 2025

John Fogerty - Legacy (Concord, 2025)

 


In contro tendenza con la nouvelle vague a stelle e strisce, incarnata dalle derive lisergiche e psichedeliche di band innovative come Jefferson Airplane e Greateful Dead, i californiani Creedence Clearwater Revival recuperano le radici del rock’n’roll, guardano ai fifties invece che al futuro, seguendo la scia leggendaria tracciata dai grandi classici (Chuck Berry, Little Richard, Eddie Cochran). Traghettano un suono ormai superato oltre il guado degli anni ’60, consegnandolo, rimesso a nuovo, nelle mani di altri grandi eroi della musica americana, come Bruce Springsteen e Bob Seger.  

Fondati da John Fogerty con il fratello maggiore Tom e due amici del liceo, Stu Cook e Doug Clifford, i Creedence Clearwater Revival, emersi dalla fertile scena della Bay Area dei primi anni '60, si trasformarono, in poco tempo, da gruppo locale animato di belle speranze in una delle rock band più rappresentative d'America (e non solo). Merito della forza compositiva e della voce ruvida e arrabbiata del suo leader (e padre padrone), capace di sfornare nel giro di qualche anno un filotto di singoli divenuti leggendari, grazie alla capacità di risvegliare, con arrangiamenti secchi e decisi, le istanze veraci e urgenti del rock’n’roll. Tra il 1968 e il 1972, infatti, i Creedence Clearwater Revival pubblicarono ben sette album in studio che parlavano direttamente e senza filtri a una generazione irrequieta. Solo nel 1969, per dire, gli album pubblicati furono tre, e quattro singoli entrarono nella Top 10 negli Stati Uniti, superando in vendite, per un certo periodo, perfino i Beatles.

E poi, quasi con la stessa rapidità, tutto finì. Spaccature interne e controversie contrattuali dilaniarono la band. Fogerty tagliò i ponti con la Fantasy Records e il suo proprietario Saul Zaentz, rifiutandosi per anni di suonare dal vivo le sue canzoni dei Creedence per protestare contro un contratto firmato quando era troppo giovane per capire meglio. Così, per oltre mezzo secolo, John Fogerty ha vissuto in un paradosso surreale e paralizzante: è sempre stato considerato uno dei cantautori più distintivi e influenti del rock, eppure non possedeva i diritti della musica che lo aveva reso famoso. La voce dietro "Proud Mary", "Bad Moon Rising", "Have You Ever Seen The Rain" e "Fortunate Son" era stata di fatto esclusa dalla sua stessa eredità.

Seguirono decenni di contenziosi, amarezza e silenzio, che gettarono un'ombra su una delle più straordinarie vene compositive del secolo scorso. In disaccordo con Zaentz, il cui spietato controllo sulla musica dei CCR gli aveva spezzato lo spirito, Fogerty entrò in un lungo e doloroso periodo di esilio creativo. Non ci fu alcuna reunion della band, anche perché suo fratello morì nel 1990. A quel punto, però, Fogerty aveva già iniziato il lento processo di ricostruzione come artista solista, sebbene la controversia sulle canzoni del suo passato si protrasse per decenni. Decenni di battaglie legali, che si sono concluse dopo l'acquisto nel 2004 della Fantasy da parte di Concord, che finalmente ha onorato la restituzione dei diritti al legittimo proprietario nel 2023.

Legacy è quindi una resa dei conti sia personale che artistica, che vede Fogerty rivisitare e ri-registrare una selezione accurata di brani che un tempo definirono un decennio di rivolta, contro cultura e ribellione. Ma questa volta, le performance hanno una nuova risonanza, perché l’ottantenne chitarrista è affiancato in studio dai figli Shane e Tyler, trasformando così Legacy in qualcosa di più di un semplice album di cover.

Con la produzione esecutiva della moglie Julie, questo progetto familiare diviene una rivendicazione spirituale e una gioiosa affermazione di proprietà. Rimanendo per lo più fedeli agli originali senza tempo, queste nuove registrazioni trasmettono un calore rilassato e un senso di trionfo, non sono un semplice remake, ma una sorta di rinascita in limine vitae. Si ha la sensazione che non si tratti solo di preservare l'eredità dei Creedence, bensì di ridefinirla, estendendola al futuro attraverso un passaggio di testimone.

Venti canzoni in scaletta, più un bonus live di "Who’ll Stop The Rain", sono il contenuto di un disco imperdibile per i fan, ma utilissimo anche a tutti coloro che vogliono accostarsi per la prima volta a una delle icone della storia americana, portandosi a casa con un solo colpo un filotto di canzoni memorabile.

Il contenuto sarebbe da 10, ma trattandosi di una rilettura, per quanto ben fatta, ci fermiamo a 7,5.

Voto: 7,5

Gnere: Classic Rock 




Blackswan, lunedì 06/10/2025